Cosa succede in Etiopia? La realtà della Nazione e la falsità dei media (prima parte)

Una ricostruzione storica dei conflitti etnici in Etiopia ed Eritrea di cui I media occidentali capovolgono le responsabilità, fra cui quelle del colonialismo italiano e dell’imperialismo americano.


Cosa succede in Etiopia? La realtà della Nazione e la falsità dei media (prima parte)

Come sempre accade in situazioni politiche conflittuali, è molto difficile per un osservatore esterno comprendere la realtà degli eventi e le motivazioni esplicite e recondite del contendere. Soprattutto in casi come quello etiopico, in cui l’utilizzo di una sofisticata propaganda a disposizione di un solo contendente, ha reso anche l’ovvietà di alcuni dati di fatto, mera ipotesi e se possibile, sospetti proclami della parte avversa. I fatti vengono riportati in modo capzioso, a volte ribaltati i termini di responsabilità dei soggetti agenti, tutto ben confezionato in modo che l’opinione pubblica occidentale possa abbeverarsi ai canali mediatici da cui attinge normalmente, ritrovando le notizie tarate per il proprio profilo politico-psicologico. Una propaganda modulata per persone occidentali “medie”, di sinistra (anche radicale) o cristiane (con predilezione per la parte “progressista”). 

L’unilateralità di questa propaganda è facilmente constatabile. Provi chi lo desideri a vedere come le testate giornalistiche e gli altri media riportano le notizie riguardanti l’Etiopia attuale, e poi provi a parlare o contattare etiopi (oggi con i social è facile) “normali”, cercando di ascoltare varie voci, scoprirà che vi è uno sbilanciamento abnorme nella narrazione mainstream che non può essere casuale.

Da ciò che riporta la stragrande maggioranza dei media italiani e mondiali, nella regione a nord dell’Etiopia, nel Tigrai, si starebbe assistendo a un genocidio della popolazione che in questa regione abita. I titoli e le argomentazioni dei media sono basati su due parole chiave ossessivamente ripetute e declinate in vario modo: “genocidio” e “stupri”; perpetrati secondo questa linea politico mediatica, dalle truppe etiopiche affiancate dalle così dette “milizia amara” e dalle truppe di un altro paese: l’Eritrea. Spesso le testate riportano retoricamente la lamentela del “silenzio sul Tigrai” quando capziosamente sono solo loro che parlano con un lento stillicidio di notizie che tende a creare un senso comune in una parte dell’opinione pubblica occidentale (la più “sensibile” e propensa a “informarsi”) che si convince di saperne sufficientemente quando era meglio fosse rimasta “ignorante” essendo stata disinformata e indottrinata sulla linea politica decisa da alcuni uffici siti negli Usa.. Nel mentre, è invece pressoché reso “muto” il popolo etiopico. Ma se si presta attenzione a un semplice fotogramma, a imponenti manifestazioni tenutesi a Addis Abeba in questi giorni, con molta gente inneggiante a Putin e a Xi Jinpin, chi è in grado, avendo visto e compreso altri scenari geo politici, anche solo in modo molto generico, può anche comprendere cosa bolle in pentola in Etiopia.

I media e alcuni “attori” hanno reso complicato “leggere” la fase attuale della situazione etiopica altrimenti facilmente comprensibile. Per avere un quadro il più possibile chiaro, è necessario partire dai “fatti-eventi” storici e cronachistici dai quali si origina il conflitto. Già questo permette la comprensione del quadro generale e del meccanismo-motivazione del potere di questa propaganda unilaterale.

Iniziamo col dire che la crisi attuale ha il suo perno centrale nel contrasto interetnico che è andato esacerbandosi sempre più. Questo perno negativo che sta segnando la fase storica attuale dell’Etiopia, non è un dato “naturale”, ci sono delle precise motivazioni politiche che hanno acceso la miccia per generare tale crisi. Le etnie sono molte in Etiopia, ma basta qui, al fine di una minima chiarificazione, ricordare le tre etnie “preponderanti”: amara; tigrini; oromo. Facciamo due passi indietro. 

Breve excursus storico

Il primo passo è quello di tornare a quando sorse l’attuale assetto istituzionale dell’Etiopia. Nel 1991 crolla il Derg, vecchio regime guidato dal colonnello Menghistu. Il regime del colonnello, fu un regime dispotico, ma si può tranquillamente ammettere che (essendo un regime “comunista”) ci fu un tentativo di non privilegiare un’etnia su un’altra, ma poggiandosi su personale formato precedentemente in quel regime, non si è potuto evitare che almeno a livello “percettivo”, venisse visto come ancora dominante il gruppo etnico che fu alla “guida” nella formazione dell’Etiopia moderna tra diciannovesimo e inizio ventesimo secolo: gli amara. 

Con l’aiuto determinante degli indipendentisti eritrei, si insediò una coalizione di partiti etiopi (E.P.R:D.F) che lottarono contro Menghistu. Di questi partiti, però, divenne subito evidente che le reali leve del potere erano tenute solo da uno di essi: il Tplf (Tigray people’s liberation front). Questo partito aveva sin dalle origini un programma ambiguo. Avendo la sua base di sostegno prevalentemente nella regione del Tigrai (a nord dell’Etiopia, confinante l’Eritrea, con circa il 5% rispetto al totale della popolazione etiopica di oltre 100 milioni), ambiva da una parte a una maggiore inclusione nel contesto etiopico, a un ruolo che evitasse la marginalizzazione della regione tigrina, dall’altra parte ambiva a un ruolo dominante come “Grande Tigrai”, a discapito dell’Eritrea che nel frattempo aveva ottenuto l’indipendenza dopo trenta anni di lotta, e di alcuni territori storicamente amara, a ovest del Tigrai. Il Tplf di fatto scelse di seguire una agenda politica i cui frutti avvelenati si possono ora vedere: l’incentivazione della polarizzazione delle “differenze” etniche regionali del paese e la fomentazione e il mantenimento di un nemico esterno (in particolare l’Eritrea). Potremmo partire da qui e avremmo già degli elementi sufficienti, ma per meglio comprendere è necessario un secondo passo indietro.

L’Etiopia moderna si è costituita tra fine ‘800 e inizio ‘900. L’acceleratore fondamentale per la costituzione di una realtà istituzionale moderna, fu la constatazione dell’accerchiamento dei colonialisti europei che pezzo dopo pezzo si stavano spartendo l’Africa avvicinandosi pericolosamente all’area etiopica. Si rese perciò necessario (ri)mettere in piedi un’entità politica maggiormente omogenea, dopo ormai un secolo di frazionamento del potere. Chi iniziò a farsene carico per il ripristino di questa istituzione, fu colui che verrà nominato imperatore, Teodoros II (1855). Dopo l’imperatore Yohannes IV originario del Tigrai, verrà il turno di Menelik (amarico). La salita al potere di quest’ultimo fu dovuta anche alla politica italiana. Quando gli italiani dopo poco la loro unificazione, decisero di divenire una potenza coloniale, partendo dal porto di Assab (attuale Eritrea) avevano l’idea di conquistare l’entroterra. Le cose non erano così semplici come inizialmente credevano, perciò cercarono punti di divisione nelle popolazioni da sottomettere per insinuarsi e lentamente conquistare territori. Uno di questi punti per la penetrazione, fu quello di appoggiare una delle due etnie abasha (abissine). Vi erano nei governi italiani due idee di politica da seguire: una linea tigrina e una linea amarica. Prevalse la linea amarica, perciò gli italiani fornirono supporto economico di varia natura che concorsero ad aiutare l’elezione come imperatore di Menelik. Si stipulò un trattato, il famoso trattato di Uccialli. Un punto fondamentale era che lo Stato di Menelik riconosceva che le terre al di la del Mareb (fiume che divide l’Etiopia dall’attuale Eritrea) fosse di proprietà italiana (di fatto, l’istituzione etiopica accettò che vi fosse un altro destino per quelle terre, per l’Eritrea). Però, secondo la traduzione amarica, il rapporto tra le due parti, era da interpretarsi come di un rapporto di amicizia e una relazione economica privilegiata; mentre secondo l’interpretazione in lingua italiana, vi era un accettazione di un rapporto di subordinazione dell’Etiopia all’Italia. Si arriverà a Adua (marzo 1896) dove l’Italia sarà sconfitta e l’Etiopia di Menelik procederà a stabilire il controllo delle aree di “competenza” e conquistare aree non facenti parte del suo tradizionale spazio “storico”, verso sud, per costituire i confini in modo definitivo a causa delle demarcazioni delle frontiere posto dalle potenze coloniali insediatesi in tutta l’Africa. Per quanto l’Etiopia volesse modernizzarsi, partiva comunque da una struttura e sovrastruttura “feudale”. In tutto questo arco di tempo storico, per esempio, rimane marginale il ruolo della popolazione oromo. Gli oromo (etnia maggioritaria) non fanno parte della componente abasha (o abissina), e però, le relazioni in particolare con gli amara è plurisecolare. Nelle terre di confine (come spesso avviene in tali contesti) tra i due gruppi etnici il definirsi oromo o amara dipende da vari fattori non sempre “lineari”. Tali gruppi, nonostante fossero conosciuti per le capacità guerriere, e avessero perciò anche assunto ruoli di prestigio, nel complesso, hanno vissuto sempre marginalmente rispetto ai poteri abasha anche nella fase di Menelik.

Un altro sguardo

Ci si dovrebbe soffermare su altri nodi storici: Haile Sellassie; l’invasione fascista etc. ma per chiarire la situazione politica attuale, può essere di aiuto un rapido attraversamento panoramico in modo “anticonvenzionale”. 

È convenzionale ma carente scientificamente la visione storiografica italiana (e occidentale) di destra e di sinistra, nella descrizione del rapporto Eritrea-Etiopia, tanto da rendere inutilmente angusta l’intellegibilità di alcuni aspetti di questi paesi. Nonostante debba essere patrimonio conoscitivo universale, considerare la soggettività degli “altri” e comprendere che la costruzione di un’identità nazionale dipenda primariamente dalla memoria e dell’autorappresentazione che le comunità nazionali sviluppano a modo loro, ancora oggi nel descrive l’Eritrea si pone in risalto uno sterile dato eurocentrico: “Eritrea la colonia primigenia”. La destra solitamente tende a sottolineare, per esempio che Asmara, la capitale eritrea, giunga ad avere una struttura cittadina moderna grazie al “genio” italiano; descrive l’eritreità come una “creazione” italiana. Mentre è comprensibile la posizione della storiografia della destra italiana, è però meno comprensibile la corrispondenza con la visione della destra, dell’immagine degli eritrei delineata anche dalla storiografia progressista, come “creazione” italiana. Si disconosce in tal modo la soggettività degli eritrei, e ci si sottrae la possibilità di vedere dati fondamentali per la comprensione. Il mistero di questa concordanza è facilmente svelato; essa è dipesa da una parte da un crollo verticale di studi seri di queste aree, dall’altra, anche e soprattutto, da un senso di colpa di una parte della cultura italiana. L’Eritrea era una colonia italiana conquistata prima del fascismo; mentre l’Etiopia (dalla quale l’Eritrea si autodetermina) è: “la prima vittima del fascismo”. Per questo un certo antifascismo tende (con gradazione varia) ad appoggiare di fatto, la narrazione etiopica che nel dopo guerra vorrà descrivere “l’eritreismo” come privo di legittimità, come un “avanzo del fascismo”. Al di là di queste rappresentazioni antieritree, la fattualità storica è che l’indipendenza eritrea è stata ottenuta senza nessun aiuto di potenze mondiali, le quali anzi, per motivi geopolitici (sia Usa che Urss in particolare, ma anche l’Italia in definitiva) hanno sempre mal visto l’indipendentismo eritreo; mentre nel contempo si era sviluppata una tradizione e una spiccata capacità diplomatica delle istituzioni etiopiche. Dunque, l’indipendenza dell’Eritrea avvenne tramite esclusiva autodeterminazione, e la propria identità verrà celebrata e conquistata, al di là delle visioni eurocentriche degli europei o della parte etiopica che le riprende (e le ripropone). Da sottolineare un altro punto per cui sia gli occidentali sia la popolazione etiope (una volta molto di più, oggi molto meno) rimane confusa; l’Eritrea è un paese con 6 milioni di abitanti, l’etnia maggioritaria è tigrina, quindi come la popolazione della regione etiope del Tigrai con la quale l’Eritrea confina. Si comprende perciò, che l’indipendentismo eritreo è basato su un patriottismo (auto narrazione) “nazionale”, non etnico, ma su questa “confusione” giocherà il Tplf e i suoi sodali (la confusione in occidente rimane, in Etiopia si è iniziato a discernere).

Torniamo al 1991

Ora possiamo tornare alle dinamiche che si sono sviluppate a partire dal 1991 a oggi. Nella storia moderna etiope (brevemente delineata), molte cose sono accadute, ma per quanto riguarda il nodo problematico da chiarire, possiamo constatare esserci stata una lenta e progressiva integrazione delle varie etnie dell’Etiopia, da Menelik a Menghistu (circa cento anni). Quindi sarebbe stato “naturale” pensare di poter arrivare a un’unità e armonia ancor maggiore a partire dal 1991. Invece, si è assistito a un programmato e metodico intento di divisione etnica.

Avendo il Tplf le leve del potere, fingendo di voler rispettare le identità etniche nazionali (esaltando le diversità), procedette a una politica di divisione e di inimicizia all’interno dell’Etiopia. Rendere tutti nemici per dominare tutti, o comunque con propositi etnico estremisti costruire le premesse che avrebbero avvantaggiato la regione etnica di riferimento: il Tigrai.

Perché questa scelta scellerata di un partito teoricamente di ispirazione marxista? Quel che si può vedere è che le declamazioni socialisteggianti, erano un involucro vuoto. Alla luce dei concreti atti compiuti da questo partito, si può vedere che ciò che caratterizza questo partito è stato un etnicismo esclusivista. Ripensandoci, il nome “Tplf” è molto simile a “Eplf” (Eritrean people’s liberation front), partito eritreo che ha reso possibile l’indipendenza eritrea e a cui molto deve il Tplf per la sua organizzazione e formazione militare. Sarebbe interessante approfondire questo punto ma ci disperderemo troppo.

Una volta conquistato il potere in Etiopia nel 1991, il Tplf doveva decidere cosa fare. Avrebbe potuto trovare una via per un nuovo equilibrio interno ed esterno, ma per fare questo avrebbe dovuto internamente considerare una politica che, senza emarginare la popolazione del Tigrai, avrebbe dovuto coinvolgere le altre popolazioni che costituiscono il restante 95% dell’Etiopia. Invece, due sono stati i pilastri su cui ha deciso di poggiare il suo programma esplicito e nascosto: dividere le etnie in vario modo (la creazione di un federalismo etnico regionale nel 1994, innanzitutto), facendo sì che le narrazioni (della memoria etiope) piuttosto che armonizzarsi fossero conflittuali, impedendo per esempio una memoria che trovasse dei punti d’incontro tra oromo e amara; l’altro pilastro su cui poggiava il programma, che gli ha permesso di restare al potere molto più di quanto fosse realisticamente immaginabile, fu di proporsi come uno “strumento fedele” della geopolitica Usa. Approfittando del fatto che, all’opposto, l’Eritrea avesse come priorità una autentica collaborazione e pace nel Corno d’Africa a prescindere dalle politiche statunitensi, è stato possibile che la “disponibilità” del Tplf fosse maggiormente apprezzata dalle amministrazioni americane. Le date e le coincidenze aiutano a comprendere. Fino al 1997 tutto procedeva bene in Eritrea; improvvisamente, durante l’amministrazione Clinton vi fu una proposta americana. L’Eritrea rifiutò di cedere territorio per installare delle basi Usa. Il governo etiope guidato dal Tplf, decise di far guerra all’Eritrea l’anno successivo, teoricamente per un piccolo pezzo di terra, in realtà vi era una volontà di prendere, se non tutta, buona parte dell’Eritrea; ciò con l’avallo occidentale (cioè americano). Ci furono moltissimi morti e feriti. Nel 2000 si arrivò all’accordo di Algeri nel quale si decise che la questione sarebbe stata risolta per via arbitrale dall’Onu, il quale decise di assegnare il piccolo pezzo di terra all’Eritrea. Di fatto però, le truppe etiopi non ubbidirono al verdetto e si rimase in uno stallo durato quasi venti anni. Nel frattempo all’interno dell’Etiopia le masse popolari (soprattutto in oromia e nelle zone amara) hanno più volte manifestato contro il potere Tplf, considerato cleptocratico ed etnofascista. Le brutalità contro la popolazione è stata documentata ma stranamente nei media occidentali non se ne sapeva quasi nulla. I media italiani e occidentali erano tutti protesi alla demonizzazione dell’Eritrea, ma di quel che accadeva in Etiopia non se ne doveva parlare.

(segue nel prossimo numero)

 

26/06/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Iohannes Ghirmai

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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