Non bisogna considerare la Nakba come un mero evento di un passato destinato a non ritornare d’attualità. Ecco perché è importante, in occasione del suo settantesimo anniversario tornare a ragionare su questa catastrofe. Anche perché essa non riguarda solo la causa della Palestina o la solidarietà delle persone di sinistra verso di essa. Questa è la causa di tutti gli arabi, di tutti i popoli del terzo mondo e, più in generale, di tutti gli oppressi, espressa attraverso lo spodestamento dalla sua terra del popolo palestinese.
In effetti i palestinesi hanno dovuto pagare e continuano a pagare il prezzo del controllo sui popoli arabi e più in generale sui popoli del terzo mondo, sugli oppressi in generale. Il tragico destino dei palestinesi è stato quello di trovarsi sulla strada del colonialismo e dell’imperialismo, che intendevano mantenere il controllo sul Medio oriente, ed è stato necessario rimuovere tale ostacolo mediante la Nakba. Se un altro popolo arabo o del terzo mondo fosse stato al loro posto avrebbe pagato il loro stesso prezzo, come del resto sta avvenendo oggi per i siriani, ieri per i libici e qualche anno fa per gli iracheni. Non c’è differenza fra i popoli oppressi ieri dal colonialismo e oggi dall’imperialismo e dal neocolonialismo, la sola differenza è che chi si trova sulla loro strada rischia di essere deportato come i palestinesi e oggi gli stessi siriani per realizzare l’attuale situazione di dominio neocoloniale sul Medio oriente e più, in generale, sui popoli che si sono liberati dal colonialismo, mediante la promozione di regimi antidemocratici e il pieno sostegno dell’occidente nel suo complesso anche a paesi apertamente dispotici come le monarchie del Golfo e la perpetuazione delle divisioni dei popoli del terzo mondo, l’alimentazione di antiche faide settarie di ogni genere: etnico, religioso etc. Tutto ciò al fine di perpetuare, anzi quando è possibile di inasprire il sottosviluppo funzionale al mantenimento dell’imperialismo – sempre più messo in discussione dalla sua crisi strutturale che, dalle strutture socio-economiche, tende a diffondersi nelle sovrastrutture etico, politiche e culturali – a perpetuare il dominio dell’occidente e la mancanza di controllo sulle proprie risorse da parte dei popoli del terzo mondo. Tutto ciò può essere definito una globalizzazione della Nakba che non solo colpisce buona parte dei paesi del terzo mondo, ma più in generale tutti i subalterni dello stesso mondo occidentale sempre più alla mercé della restaurazione liberista e delle sue derive bonapartiste regressive.
Lo stesso fatto che si continui a parlare a settant’anni di distanza della Nakba implica che – sebbene sia convenzionalmente iniziata, almeno per il popolo palestinese, nel 1948 – essa si stia perpetrando, certamente in nuove forme, non solo in Palestina (dove si manifesta nel modo più evidente) ma più in generale in buona parte del terzo mondo, divenuto dopo la dissoluzione del secondo, il principale ostacolo al dominio globale del primo mondo occidentale e imperialista.
Come ha osservato a ragione, tornando allo specifico del caso palestinese, lo storico israeliano I. Pappe: “c’è una nuova Nakba che sta avendo luogo ancora ai nostri giorni. Non ha proprio le stesse caratteristiche della Nakba del 1948, in quanto quest’ultima si è realizzata in un lasso di tempo ristretto e particolarmente tragico per il popolo palestinese. La Nakba che si perpetua ai giorni nostri è un processo, anche se decisamente più lento e meno appariscente, di espulsione, di annessione, di demolizione delle abitazioni e imprigionamento delle persone. Questa nuova forma di Nakba sta andando avanti da più di cinquant’anni. È in un certo modo una nuova versione della vecchia strategia di espulsione dei palestinesi dallo loro terra, la Palestina” [1].
Abbiamo, dunque, una discontinuità dal punto di vista quantitativo – anche se spostiamo la nostra attenzione sulla Siria tale differenza tende a svanire – e una piena continuità dal punto di vista qualitativo, nel senso che continua l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, la demolizione delle loro abitazioni, l’imprigionamento o l’uccisione di chi osa difendersi, sempre funzionali alla progressiva annessione del paese allo Stato ebraico. A questo proposito ha osservato a ragione un altro storico israeliano, T. Katz, “se si considera quello che sta avvenendo ai nostri giorni in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, quanto possono considerarsi “puliti” l’esercito israeliano e i suoi fucili che continuano a uccidere chiunque, donne, bambini e anziani. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la guerra? La stessa cosa accadde proprio nel 1948”. Allo stesso modo possiamo vedere ancora oggi come agenti sionisti travestiti da arabi portino avanti operazioni coperte fra i palestinesi, con il fine di intrappolarli, esattamente come avveniva nel 1948.
Più in generale Israele, quale incarnazione dell’ideologia sionista, non ha abbandonato la prospettiva di espellere la popolazione araba palestinese dalla sua terra, anche perché tale prospettiva costituisce l’essenza stessa del sionismo. Bisognerebbe piuttosto domandarsi se siano nel frattempo cambiati gli arabi o, piuttosto, continuano a mantenere un’attitudine che finisce per consentire alla Nakba di perpetuare i suoi effetti catastrofici sino ai giorni nostri. Diversi analisti arabi hanno comparato il modo di comportarsi degli arabi nel 1948 e quello odierno, cogliendo delle inquietanti continuità. Così, ad esempio, come nel 1948 i palestinesi furono sconfitti anche perché erano spaccati in due sulla base della contrapposizione fra le due più potenti famiglie del tempo, oggi la catastrofe non è ancora terminata in quanto i palestinesi continuano a essere spaccati in due fazioni politico-ideologiche: la borghesia per diversi aspetti collaborazionista di Al-Fatah, che controlla la Cisgiordania, e i populisti di destra islamisti di Hamas. Allo stesso modo come nel 1948 i palestinesi e, più in generale gli arabi, commisero il fatale errore di riporre la propria fiducia nella potenza coloniale britannica, oggi quantomeno Fatah continua ad avere un’insensata fiducia nella politica imperialista degli Stati Uniti. Come già allora i corrotti gruppi dirigenti palestinesi, invece di assumersi le proprie responsabilità e di assumere la guida della resistenza, puntavano sconsideratamente sull’aiuto dei dirigenti di paesi arabi altrettanto corrotti e, in ultima istanza, tendenzialmente altrettanto collaborazionisti, tale attitudine sotto nuove forme tende a perpetuarsi anche ai nostri giorni. Quindi, come allora credevano di poter contrastare le mire espansionistiche del sionismo sulla Palestina senza contrastare i piani colonialisti e neocolonialisti della Gran Bretagna, oggi egualmente tendono a non comprendere come i piani neocolonialisti e imperialisti degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali tendono a convergere con quelli dei sionisti, visto che la perpetuazione dell’occupazione della Palestina è funzionale a mantenere sotto scacco le masse popolari dell’intero Medio oriente. Come allora i palestinesi commisero il tragico errore di farsi guidare dalla allora classe dominante dei proprietari terrieri, sempre pronta a scendere a patti con le potenze imperialiste per mantenere il proprio dominio di classe, anche ai nostri giorni tendono in buona parte a lasciarsi guidare dall’odierna classe dominante borghese, laica o islamista, anch’essa sempre a rischio di divenire collaborazionista per mantenere il proprio dominio classista.
Del resto, come ha osservato lo storico israeliano I. Pappe, per quanto riguarda la popolazione israeliana e, più in generale, per i filosionisti, vi è stato costantemente un duplice meccanismo di rimozione della nakba palestinese. Da una parte “vi è il meccanismo negazionista per cui molti israeliani non sanno ancora oggi cosa è realmente accaduto. Coloro che, invece, ne sono consapevoli si servono di un meccanismo differente, di giustificazione. Ritenendo che se i loro antenati avevano mandato via i palestinesi dalla loro terra dovevano aver avuto delle valide ragioni per farlo. Inoltre gli è stato insegnato a non parlare di ciò in pubblico, visto che imbarazza Israele”. Tuttavia, per quanto oggi come allora la maggioranza degli israeliani non sia pienamente consapevole dei crimini commessi con l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra o non intenda semplicemente ammettere l’accaduto, ognuno dei molteplici campi profughi, in cui da settanta anni sono costretti a vivere una parte considerevole di palestinesi, è testimone ogni giorno del perpetuarsi di tali crimini. Tanto più che oggi i palestinesi costretti a vivere da rifugiati fuori dalla loro terra sono più di cinque milioni, un terzo dei quali continua a vivere in una sessantina di campi profughi in condizioni più o meno disperate. Privati della loro terra, sono costretti a sopravvivere senza poter recuperare neppure la loro stessa dignità perduta dopo l’espulsione dalle loro case e dal proprio paese.
La questione dei rifugiati palestinesi era e resta fondamentale, infatti non ci può essere una soluzione della questione palestinese che non contempli il diritto al ritorno nelle loro terre e nelle loro case degli sfollati. Costringere la popolazione civile ad abbandonare le proprie case resta un crimine di guerra, tanto quanto l’impedirgli di tornare, in quanto è non è, nei fatti, altro che una perpetuazione del primo crimine. Dunque Israele non è solo responsabile del crimine di guerra della Nakba del 1948, ma continua a essere responsabile ogni giorno, nei successivi settant’anni, del crimine di impedire ai rifugiati di tornare nelle loro terre e nelle loro case.
Allo stesso modo, Gerusalemme non cadde solo nel 1948 o nel 1967, ma ogni giorno a causa della politica sistematica di occupazione, colonizzazione e pulizia etnica portata avanti dai sionisti, che ha progressivamente ridotto la popolazione araba a meno di un terzo del totale. Tanto più che in questi settant’anni di occupazione i sionisti hanno fatto di tutto per cancellare l’identità araba di questa città, imponendo una nuova identità ebraica e israeliana non solo in superfice ma, da qualche anno a questa parte, nello stesso sottosuolo. È in effetti iniziata nell’ultimo decennio una poderosa opera di scavo in particolare al di sotto della spianata delle moschee, il secondo luogo maggiormente sacro per gli islamici, alla ricerca delle vestigia dell’antica civiltà ebraica, che provoca continui smottamenti negli edifici sovrastanti. L’obiettivo dei sionisti è di ridurre ulteriormente e progressivamente la presenza della minoranza araba fino a ridurla a poco più del dieci per cento, per fare di Gerusalemme la capitale permanente dello Stato ebraico. Si è così proceduto in questi ultimi anni a escludere progressivamente da Gerusalemme le zone abitate dagli arabi, includendovi al loro posto quelle degli insediamenti ebraici in continua espansione nei dintorni della città. Con la sola edificazione del muro di separazione sono stati espulsi, in un solo colpo, dal territorio di Gerusalemme oltre 125.000 palestinesi.
Nota
[1] Le citazioni sono riprese da Al Nakba, documentario prodotto da Al-Jazeera per il 60° anniversario della catastrofe palestinese, a cui questa serie di articoli si è ispirata.