Segue da Alle origini della deportazione dei palestinesi
Nel 1945 Truman, che era succeduto a F. D. Roosevelt anche grazia all’appoggio finanziario dei sionisti, approvò l’immigrazione di 100.000 ebrei in Palestina. Nel frattempo, la Conferenza sionista mondiale, per accelerare la dipartita degli inglesi dalla Palestina, spinse l’esercito dei coloni ebrei, l’Haganah, a collaborare con le organizzazioni sioniste che avevano portato avanti la lotta armata, utilizzando spesso metodi terroristi, come l’Irgun e la Banda Stern. Da parte sua, Ben-Gurion riuscì a convincere i sionisti statunitensi a finanziare la costruzione di fabbriche di armi in Palestina, per armare i coloni. Mentre l’esercito inglese continuava a confiscare sistematicamente ogni tipo di arma ai Palestinesi, i sionisti si addestravano per l’ormai prossimo conflitto, sottovalutato dai palestinesi e dai paesi arabi che consideravano, ingenuamente, 600.000 coloni ebrei poca cosa dinanzi a 40 milioni di arabi.
Le organizzazioni militari sioniste iniziarono a portare avanti attentati terroristici contro le autorità coloniali inglesi, facendo saltare prima un treno e un commissariato di polizia, poi arrivando a colpire il King David Hotel a Gerusalemme, ovvero il quartiere generale dell’amministrazione inglese, dopo aver fatto esplodere lo stesso quartier generale dell’esercito, il club degli ufficiali inglesi e inviato pacchi esplosivi a ufficiali britannici. La situazione degenerò quando l’Irgun rapì e impiccò due ufficiali inglesi dei servizi segreti, evento che accelerò la fine del dominio inglese sulla Palestina. Più in generale fra il 1946 e il 1947 furono uccisi in attentati sionisti 169 militari inglesi. Menachem Begin, allora leader di Irgun, ricercato e arrestato dagli inglesi come pericoloso capo di un gruppo terrorista, 30 anni dopo diverrà primo ministro d’Israele e nel 1978, nonostante avesse raccontato in modo particolareggiato il suo passato da “terrorista”, ricevette il premio Nobel per la Pace.
I colonialisti britannici reagirono debolmente a tale offensiva, anche a causa dell’infiltrazione di sionisti sia nella polizia che nei servizi e per l’influenza dell’internazionale sionista sullo stesso governo inglese. Alla fine si lasciarono convincere dagli Stati Uniti a scaricare il problema, dopo 30 anni di Mandato, sull’Organizzazione delle nazioni unite, da poco costituita.
La maggior parte dei Palestinesi non immaginava di divenire ben presto vittima di quella che lo storico israeliano I. Pappe ha definito pulizia etnica. L’Onu si riunì, nel 1947, per sancire la spartizione della Palestina. Allora i coloni ebrei controllavano appena il 5,5% della Palestina. Nonostante ciò la risoluzione dell’Onu garantì loro il controllo di metà della Palestina. Inoltre, la divisione del paese promossa dalle Nazioni Unite separava le zone che sarebbero dovute rimanere sotto il controllo dei palestinesi, rendendo così nei fatti impossibile, sino ai giorni nostri, la costituzione di uno Stato palestinese. La risoluzione passò grazie alla forte pressione degli Stati Uniti sui suoi alleati e satelliti. Come ha osservato lo storico israeliano I. Pappe “era impensabile che un movimento per l’indipendenza nazionale accettasse di dover spartire la propria terra con una comunità di coloni”. D’altra parte, “la cosa più importante per i sionisti era che l’Onu avesse accettato il proprio progetto” [1], ossia la costituzione di uno Stato ebraico, in una terra, in cui i coloni ebrei erano una minoranza, il che non poteva che implicare il trasferimento forzato dei palestinesi.
Dopo la risoluzione dell’Onu, la Gran Bretagna annunciò che avrebbe esaurito, entro l’anno successivo (15, maggio 1948), il proprio Mandato in Palestina. Ma già nei primi mesi del 1948 l’Agenzia ebraica aveva preso il controllo amministrativo e politico della Palestina, mentre il Gran Mufti di Gerusalemme continuava a gettare acqua sul fuoco assicurando gli ormai disarmati palestinesi che i paesi arabi li avrebbero liberati dai sempre più potenti sionisti.
L’esercito organizzato dai coloni ebrei contava ben 35.000 soldati, ben armati e ancora meglio equipaggiati e organizzati, senza contare le circa 10.000 unità combattenti presenti nelle organizzazioni illegali sioniste (Palmach, Irgun e la banda Stern), che avevano portato avanti la lotta armata, con una serie di attentati condannati come terroristici dalle forze di occupazione britanniche. A fronteggiarli rimanevano appena 2500 palestinesi (male) armati, sopravvissuti alla terribile repressione portata avanti nel quindicennio precedente dalle truppe di occupazione inglese con la complicità dei sionisti. A essi si aggiunsero circa 4.000 combattenti palestinesi o arabi provenienti dai paesi limitrofi, ma divisi in diverse piccole unità, senza nessuna forma di coordinamento e di comando unificato. Così al momento della ritirata delle truppe britanniche, le forze della resistenza palestinese, male armate e disorganizzate, si trovarono a fronteggiare truppe sioniste ben inquadrate, armate e addestrate, sei volte superiori. Un vero e proprio esercito, dotato persino di un’aviazione, contro bande di partigiani. Così il comandante generale delle truppe di occupazione britanniche, in procinto di ritirarsi, generale J. D’Arcy, non ebbe difficoltà a pronosticare che le truppe sioniste avrebbero occupato l’intera Palestina.
Nel frattempo, come ricorda lo storico ebreo I. Pappe, “un piccolo gruppo di leader e comandanti sionisti si incontrarono regolarmente, una volta a settimana per un anno intero, dal febbraio 1947 al febbraio 1948, per pianificare la pulizia etnica della Palestina. La decisione non fu, quindi, presa in un solo giorno, ma si convinsero settimana, dopo settimana, che questa era la soluzione migliore”.
All’inizio del 1948 due autobombe, in rapida sequenza, distrussero la sede del precedente governo ottomano a Jaffa, facendo 26 morti, e il Semiramis Hotel di Gerusalemme, provocando la morte di altri 20 palestinesi. Tali attentati – come ammise lo stesso Ben Gurion in un documento riservato inviato all’autorità britannica che chiedeva spiegazioni –erano stati realizzati dall’esercito dei coloni. Più in generale, nei primi tre mesi del 1948, i sionisti furono responsabili di una lunga serie di sanguinosi attentati, seminando il panico in città e villaggi palestinesi. Inoltre, travestiti da arabi, i sionisti assassinarono singoli individui palestinesi ritenuti vicini alla resistenza. L’esercito dei coloni, in collaborazione con le organizzazioni irregolari sioniste, misero appunto lanciafiamme, che sperimentarono per costringere alla fuga dai loro villaggi, i civili palestinesi.
Così, ad esempio, il futuro presidente dello Stato di Israele, Yitzhak Rabin – poi assassinato da un sionista per aver firmato un accordo di pace con i palestinesi – allora fra i comandanti delle squadre d’assalto sioniste (Palmach), presidiò all’espulsione di 1.500 civili palestinesi dal villaggio di Qisarya nei pressi di Haifa e alla conseguente distruzione dell’insediamento. Le forze sioniste, ancora prima del ritiro inglese, come ricorda ancora lo storico israeliano Pappe, sperimentarono le operazioni di pulizia etnica dei villaggi palestinesi, osservando le scarse capacità di resistenza della popolazione civile e la completa indifferenza delle autorità britanniche.
La scarsa resistenza era dovuta al fatto che ogni villaggio palestinese fu attaccato separatamente nel corso di operazioni ben pianificate dalle forze sioniste. Mancavano forme di coordinamento fra i villaggi e i pochi cittadini che, con armi rudimentali, cercarono vanamente di difenderli. Inoltre i resistenti erano privi di un qualsiasi piano generale di difesa, di fronte alla pulizia etnica perseguita dai sionisti. Come ricorda lo storico israeliano H. Cohen, “l’obiettivo del movimento sionista – che aveva portato avanti tali attacchi – era quello di fondare uno Stato ebraico con il minor numero possibile di arabi”. Il 10 marzo 1948, a Tel Aviv, fu un giorno decisivo per il comando dell’esercito ebraico (Haganah), in quanto nel loro “ultimo incontro – i sionisti, ricorda Pappe – abbozzarono il piano detto Piano D o Danet che mise appunto i dettagli su come mandare via i palestinesi e spodestarli”. Da parte sua Ben Gurion aveva dato delle direttive ben precise: fare pulizia ed espellere il maggior numero possibile di arabi. A tale proposito scrisse nelle sue Memorie, “In ogni attacco – a un insediamento palestinese – un colpo decisivo dovrebbe distruggere le abitazioni e favorire l’espulsione della popolazione”. I disorganici tentativi dei palestinesi di approntare una resistenza fallirono. Come ha osservato, a tal proposito, lo storico israeliano H. Cohen, mentre i coloni ebrei erano ben armati in quanto sostenuti attivamente dell’organizzazione sionista internazionale, i palestinesi erano poco e male armati, avendo ricevuto belle parole, ma scarso sostegno dai paesi arabi. Come sottolinea Pappe “non c’era nessuna forma di coordinazione” fra le forze resistenti, prive di una direzione consapevole, tutto fu lasciato allo spontaneismo con le prevedibili conseguenze catastrofiche.
Così, nell’aprile del 1948, senza che le truppe inglesi che presidiavano Gerusalemme mossero un dito per impedirlo, le truppe regolari e irregolari sioniste diedero l’assalto ai villaggi intorno alla capitale e prossimi all’area che gli era stata assegnata dall’Onu. Anzi gli inglesi accelerarono di un mese la data prevista per il loro ritiro, lasciando campo libero alle forze armate sioniste. Le truppe britanniche, infatti, consegnarono ai coloni ebraici tutte le strutture civili e militari che controllavano prima della loro partenza, compresi diversi armamenti leggeri e pesanti. In taluni casi gli inglesi, prima di ritirarsi costrinsero alla fuga personalità di spicco palestinesi e favorirono l’esodo palestinese, costringendo migliaia di arabi a lasciare le loro terre e le loro case prima ancora dell’arrivo delle forze sioniste, che si trovarono così la strada spianata. In questo modo, ad esempio, favorirono la conquista da parte di cinquemila soldati dell’esercito dei coloni della città di Haifa, dove dopo il ritiro degli inglesi erano rimasti appena cinquecento palestinesi a difendere l’abitato, fra di essi si distinse in particolare una donna che guidò l’area in cui maggiore fu la resistenza. Dopo la conquista della città, 50.000 palestinesi furono costretti con le buone o con le cattive ad abbandonarla cercando rifugio nel vicino Libano. In tal modo la conquista di grandi centri come Haifa, induceva gli abitanti dei villaggi vicini a favorire la pulizia etnica, fuggendo terrorizzati, verso i paesi arabi confinanti prima dell’arrivo delle forze sioniste.
Nota
[1] Le citazioni sono riprese da Al Nakba, documentario prodotto da Al-Jazeera per il 60° anniversario della catastrofe palestinese, a cui buona parte di questa serie di articoli si è ispirata.