L’attuale stato dell’economia statunitense evidenzia bene lo stridente contrasto tra indicatori positivi (PIL, disoccupazione, consumi, profitti) presi in considerazione dal pensiero economico dominante e altri indicatori trascurati che testimoniano la crescita di povertà e disuguaglianza, la stagnazione dei salari e il deterioramento delle condizioni di lavoro.
Negli ultimi tempi sulla stampa mainstream americana è un continuo succedersi di dati, informazioni e analisi che celebrano l’andamento positivo di tutti i principali indicatori macroeconomici, i quali dimostrerebbero quindi di uno stato di grazia dell’economia statunitense.
Il 2008 e la fase della crisi sembrano quindi ormai un lontano ricordo e neanche le incertezze e l’apparente instabilità politica determinata dalle tensioni attorno all’amministrazione Trump riescono tuttavia a scalfire quella che, leggendo i bollettini quotidiani, appare una vera e propria cavalcata trionfale.
Come siamo abituati ormai da decenni, gli indicatori economici che stanno sempre al centro dell’attenzione degli economisti e degli analisti sono soprattutto il PIL, il tasso di disoccupazione, i tassi di interesse e il tasso di inflazione.
Il PIL del primo semestre 2018 è cresciuto del +4,1% ad un tasso annualizzato, un valore che non si raggiungeva dal 2014 e che porta la Casa Bianca a toni trionfalistici, attribuendolo soprattutto alle politiche adottate con l’avvento della Presidenza Trump, in primo luogo la riforma fiscale, che ha tagliato le aliquote individuali soprattutto in favore delle fasce di reddito più elevate e che ha dimezzato l’imposta sul profitto d’impresa (19% invece del 35% precedente).
Il tasso di disoccupazione è contemporaneamente sceso per la prima volta dal post-2008 ad un livello inferiore al 4%, per la precisione al 3,9%. Secondo il mantra di molti economisti mainstream questo livello rappresenterebbe, con un’interpretazione sulla cui scientificità non si possono non nutrire seri dubbi, una situazione di quasi piena occupazione, in quanto ci sarebbe sempre un livello di disoccupazione che questi signori da sempre definiscono “fisiologica” o “frizionale”, e che sarebbe connaturata nel “naturale” funzionamento del mercato del lavoro.
I commentatori economici privilegiano anche altri due “fondamentali”, termine in voga nel gergo pseudo-calcistico dei commentatori economici, che, non a caso, assomigliano sempre di più ai commentatori sportivi. Si tratta del tasso di inflazione e del tasso d’interesse. Nel primo caso il trend di crescita apparirebbe molto contenuto, pari a circa il +2%, scongiurando, sempre secondo il pensiero economico dominante, il rischio di “surriscaldamento”, mentre nel secondo caso si tratta di un tasso deciso dalla Federal Reserve (la “Fed”), l’istituto finanziario privato che negli USA svolge il ruolo di Banca Centrale e di emettitore di moneta, pur essendo la nomina del suo presidente di matrice politica. In questo caso, negli ultimi mesi, si è assistito ad un confronto, a momenti anche piuttosto aspro, tra l’amministrazione Trump, sostenuto da una parte degli osservatori mainstream, e la Fed. Quest’ultima infatti ha annunciato un’ulteriore revisione verso l’alto del tasso di interesse base, dopo quelli già realizzati nel dicembre 2017 e nel marzo 2018, portandolo quindi al 2%, dopo tanti anni di tassi bassi o quasi nulli.
La giustificazione di questi aumenti sta nel positivo andamento dell’economia, che giustificherebbe una misura “anti-ciclica”. D’altro canto l’amministrazione Trump si mostra contraria perché convinta che si avrà un’ulteriore accelerazione della crescita, trainata dai consumi, e che quindi si possa superare la soglia del 5% entro fine anno, un risultato da spendere quindi politicamente già a novembre in occasione della tornata elettorale del cosiddetto “mid-term” (rinnovo parziale di una parte dei seggi del Congresso degli USA).
In aggiunta all’andamento positivo degli indicatori, o fondamentali, macroeconomici più noti, il clima di ottimismo tra gli economisti, i politici e i padroni dei mercati finanziari ha portato, nel mese di agosto, ad un nuovo record [1]: i principali indici della Borsa di New York (in particolare lo Standard & Poor’s 500 che raggruppa i titoli più importanti) hanno superato la soglia dei 3.453 giorni di trend al rialzo (fase definita di “bull market”, cioè mercato dominato dal toro, che simboleggia il rialzo), un record storico che supera anche un precedente ciclo borsistico positivo, verificatosi a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, dopo il crollo dei mercati del 1987. Al di là delle periodiche fasi di ribasso, sempre contenute nel tempo e nei valori, e inferiori sempre al -20% che convenzionalmente rappresenta il passaggio dei mercati da “toro” a “orso”, cioè ribasso, dal 2009 ad oggi l’indice Standard & Poor’s 500 è cresciuto di circa il 320% consentendo un’accumulazione di profitti finanziari stimati in oltre 18 trilioni di dollari, una cifra da capogiro, paragonabile all’intero PIL annuo degli stessi Stati Uniti d’America.
Ma tutto questo scenario apparentemente idilliaco, esaltato dalla propaganda mediatica dominante, è in stridente contrasto con la realtà effettiva che decine di milioni di americani vivono quotidianamente. Contraddizioni reali che cominciano ad emergere anche dai dati ufficiali e che gli stessi media mainstream non riescono più ad ignorare o celare, e decidono pertanto di affrontarle nel tentativo di fornire anche una spiegazione ed una prospettiva risolutiva che non minacci l’integrità del sistema.
Ed ecco che il New York Times [1] evidenzia come i grandi guadagni sui mercati finanziari siano rimasti confinati alla classe molto ristretta dei possessori di capitali, di coloro che vivono prevalentemente di rendita finanziaria. Il quotidiano newyorkese evidenzia invece che, nello stesso periodo di tempo, il mercato immobiliare è rimasto molto più indietro. Una crescita, dunque, che ha beneficiato alcuni settori sociali e penalizzato altri, in questo caso i proprietari di immobili, soprattutto i piccoli e medi che non riescono a capitalizzare le proprietà in termini di speculazione finanziaria come fanno invece le grandi società.
È un conflitto che attraversa quindi gli stessi settori delle classi dominanti, e, ancora di più, la classe media, quella su cui si è sempre basata la stabilità sociale del paese. Tanto che questo “è il decennio in cui la disuguaglianza economica è aumentata più che in ogni altro periodo della storia degli USA” (affermazione del Prof. Moritz Schularick dell’Università di Bonn riportata dal New York Times).
Secondo dati pubblicati dall’Economic Policy Institute [2], la quota dei profitti delle aziende americane, al netto della tassazione, sul totale del PIL è cresciuta passando dal 6,7% nel 2017 al 7,4% nel primo trimestre del 2018. La dinamica è considerata anche come effetto della sopra citata riforma fiscale varata dall’Amministrazione Trump a dicembre 2017.
Altri dati ci informano inoltre che le aziende più grandi, nel decennio compreso tra il 2007 e il 2016, hanno distribuito ben il 93% dei loro utili in dividendi per gli azionisti, quando negli anni ’80 la tendenza era invece a distribuire non più della metà degli utili agli azionisti, ed il resto investito in azienda o distribuito in parte anche ai dipendenti.
Un altro studio, di ‘Just Capital’ [3], mostra che, tra le 1.000 aziende di maggiori dimensioni negli USA, il guadagno generato dai tagli della riforma fiscale è andato per il 57% in dividendi per gli azionisti, mentre solo il 7% in premi e incentivi ai lavoratori.
In un settore, quello della ristorazione, dove il 40% dei lavoratori vive sotto il livello della povertà, i manager e gli azionisti, dopo essersi distribuiti gran parte dei guadagni derivanti dalla riforma fiscale in dividendi e incrementi dei compensi, hanno investito il rimanente in operazioni di riacquisto delle azioni sul mercato dei titoli, generando ulteriori plusvalenze per le loro società. Si calcola che se la McDonald’s avesse destinato i risparmi generate dalla riforma fiscale in premi per i suoi quasi 2 milioni di dipendenti, questi avrebbero ottenuto un bonus individuale di circa 4.000 dollari ciascuno.
Questa tendenza all’accumulazione estrema da parte dei percettori di redditi da capitale trova una importante sintonia con la crescita esponenziale, potremmo dire stellare, dei compensi percepiti dagli alti dirigenti delle aziende private americane. Secondo dati divulgati sempre dall’Economic Policy Institute gli amministratori delegati delle 350 più grandi società statunitensi hanno percepito, nel 2017, stipendi pari a 312 volte il salario medio dei propri lavoratori.
In un quadro di disuguaglianza crescente e di estrema polarizzazione nella distribuzione dei profitti, delle rendite e dei redditi, è superfluo constatare che sono proprio i lavoratori la parte perdente di questi processi. I dati testimoniano che, in un contesto di crescita economica ormai stabile da quasi dieci anni, e malgrado l’accelerazione sotto la presidenza Trump, i salari reali sono stagnanti, a fronte di una produttività crescente. Nonostante il tasso di disoccupazione sia attestato (3,9%) ai suoi minimi storici dagli anni ’90, i salari reali non sono aumentati per la grande maggioranza dei lavoratori.
Il Dipartimento del Lavoro ha reso noto recentemente che mentre il costo della vita, tra luglio 2017 e luglio 2018, è cresciuto del 2,9%, i salari medi sono cresciuti soltanto del 2,7%. I lavoratori quindi si trovano addirittura in condizione di perdita netta del loro potere d’acquisto, in una fase di crescita economica. E gli stessi economisti del pensiero dominante, che, nei loro modelli econometrici teorici stimano nel +3,5% l’effetto di crescita dei salari dovuto alla bassa disoccupazione, sono smentiti dalla realtà. Potremmo dire che gli “spiriti animali” del capitalismo si sono beffati del loro tentativo di voler ricondurre la narrazione mistificata della realtà su un piano pseudo-scientifico.
Per noi marxisti la spiegazione invece è chiara e scientifica ed ha un nome ed un cognome: lotta di classe. Una lotta di classe che è sistematicamente condotta dalle classi dominanti a loro esclusivo vantaggio, sempre più polarizzate in una elite di percettori di rendite che, nel senso di onnipotenza crescente di cui si sono inebriati, non sentono più ormai la necessità di fare concessioni o compromessi con le altre classi sociali, né quella di dedicarsi ad investimenti in capitale industriale o reale. Il capitale finanziario li illude di riuscire a realizzare la valorizzazione del capitale senza passare dalla produzione di merce. Ovviamente noi sappiamo marxianamente che di illusione si tratta. Ma in questo momento il prezzo di questa illusione viene scaricato, sul piano interno, nell’inasprimento del conflitto di classe, e, sul piano internazionale, nell’inasprimento del conflitto imperialistico.
Ma il fattore fondamentale, che determina l’attuale rapporto di forza a favore del capitale sul lavoro, è più che mai rappresentato dal soffocamento preventivo di ogni possibile emergenza di un barlume di coscienza di classe, e quindi dal rischio di una conflittualità sociale da parte delle classi dominate. Un ruolo determinante è svolto in tal senso dal sistema mediatico e culturale dominante e pervasivo, che non smette mai di produrre mistificazione e imbonimento.
Gli esempi sono dei più vari. Molto interessante, ed emblematico, un articolo pubblicato sul blog del marxista Michael Roberts [4] che riporta l’iniziativa di una senatrice del Partito Democratico, Elizabeth Warren, che ha presentato un progetto di legge denominato “Capitalismo Responsabile” e che, intervistata dal Wall Street Journal denuncia quella che definisce una “ossessione”, da parte delle grandi aziende private, nel voler massimizzare i ritorni per gli azionisti rendendosi quindi responsabili di aver aumentato la disuguaglianza in America e facendo i ricchi sempre più ricchi.
Ma il tentativo di fondo è soltanto uno: salvare il capitalismo da sé stesso. Come la “superstar” degli economisti “riformisti” dominanti, Thomas Piketty, autore del “Capitale nel XXI secolo”, che in un’intervista al Financial Times professa la sua fede nel capitalismo, nel mercato e nella proprietà privata e che ritiene che nella disuguaglianza crescente vede una minaccia per la sopravvivenza del sistema e teme che anche la proposta di una tassa sulla ricchezza possa essere un’utopia. Vittima della sua stessa contraddizione. O come Lady Rothschild che propone che gli azionisti delle grandi società si sollevino e mettano un freno ai compensi che gli amministratori delegati si attribuiscono, e che invece investano in politiche “etiche” e “ambientali”. E sulla stessa scia di questi mistificatori e imbonitori, la Senatrice Warren propone che i lavoratori siedano nei consigli di amministrazione delle aziende, qualcosa che peraltro in Germania esiste da decenni ma con evidenti scarsi risultati.
Accade poi che lo stesso New York Times, che da una parte pubblica i dati sui profitti di borsa (per rassicurare dai rischi di una nuova crisi derivante da una bolla speculativa), cerca al contempo di sottolineare che questa volta non c’è un’euforia borsistica che abbia contagiato gli investitori, soprattutto i piccoli risparmiatori, come nelle volte passate. Questo consentirebbe di evitare che tale euforia faccia lievitare a dismisura le quotazioni di titoli di aziende al di là del loro valore reale. Ma questa analisi appare piuttosto singolare e anche monca. E peraltro il fatto che la massa dei risparmiatori non sia in preda ad euforia borsistica è forse segno che a livello delle classi medie si è verificato un impoverimento reale e che quindi il risparmio venga utilizzato come riserva di reddito per futuri periodi di recessione.
Il Wall Street Journal [5], dal canto suo, si addentra addirittura in un’improbabile analisi sul tema delle disuguaglianze, pubblicando un articolo che effettua una comparazione delle statistiche sul Coefficiente di Gini, un indicatore economico che raramente compare su quelle pagine. Si tratta probabilmente di un classico caso di ‘excusatio non petita’. I due analisti infatti si cimentano nel voler fornire una risposta scientificamente fondata a quelli che definiscono genericamente ‘critici’ e che hanno il torto di voler descrivere gli USA come un’economia caratterizzata da un tasso di diseguaglianza superiore a quelli degli altri paesi occidentali a economia di mercato. Questi critici, a dire dei due analisti del Wall Street Journal, si basano su dati del’OCSE, quindi non di un fazioso covo di comunisti. E tuttavia viene contestato il fatto che il coefficiente USA sia stimato dall’OCSE in 0,39, più alto della media degli altri paesi OCSE (organizzazione che raggruppa i principali paesi ad economia di mercato). I due analisti, a sostegno della loro tesi, dimostrano che in realtà, se si tiene presente l’effetto di redistribuzione causato dal programma sanitario “Medicare” a beneficio degli americani più poveri, il coefficiente di Gini per gli USA si attesterebbe allo 0,32, più vicino alla media dei paesi OCSE che è dello 0,29. Appare paradossale che il tanto bistrattato Medicare, che sulle pagine dello stesso giornale molti analisti vorrebbero veder abrogato da anni, diventi adesso lo strumento per sostenere che negli USA i più ricchi sostengono una privazione del loro reddito a vantaggio dei più poveri.
Segni palpabili del clima culturale dominante. La mistificazione e l’inganno al massimo livello. Ma quanto a lungo potrà durare questo gioco? Quanto a lungo la massa sempre più impoverita di americani, classi medie e lavoratori, rimarrà preda di questo inganno? Una massa sulle cui spalle grava un debito di 1,5 trilioni di dollari per consentire ai propri figli gli studi universitari, che non riesce ad arrivare alla fine del mese con buste paghe sempre più modeste, che non riesce a sostenere le spese mediche e che, durante la crisi finanziaria del 2008 ha visto dileguarsi i risparmi accantonati per potersi permettere una pensione dignitosa. Il risveglio dal sonno potrebbe non essere poi così lontano, e chissà che gli spiriti animali di questa élite parassitaria, personificazione vivente del capitale, non possano addirittura accelerare questa necessaria presa di coscienza.
Note:
[1] The New York Times.
[2] The Economic Policy Institute.
[3] The Socialist Worker.
[4] Michael Roberts Blog.
[5] The Wall Street Journal, The Myth of American Inequality, 10 agosto 2018