L’appello che Falcone e Montanari hanno lanciato per “Un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” ha dato una nuova accelerata - com’era naturale che fosse - al tema dell’unità della sinistra. La discussione - anche questo era abbastanza prevedibile - si è presto sviluppata per lo più tra facili entusiasmi e troppo semplici frustrazioni per quello che appare nell’immediato come una coazione a ripetere della politica della sinistra italiana, che da anni si muove stancamente in un circolo vizioso di appelli, adesioni, assemblee, discussioni e nuovi appelli che fanno ripartire il giro. Tempi e modi si somigliano tutti: i tempi sono dettati da imminenti elezioni; i modi sono sempre stati quelli di un’idea malcelata di primazia della cosiddetta società civile (che lancia un appello) su una società politica (che risponde). Ma sarebbe da evitare di porre la questione in maniera manichea: risposta all’appello sì o no; unità della sinistra sì o no. Per questo non è inutile sottolineare che tante delle questioni poste dall’appello sono molto condivisibili.
“L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano su risorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri”, ad esempio, non richiama solo una generica volontà di redistribuzione del reddito che è nelle proposte della sinistra troppo spesso in maniera acritica. Quel richiamo dell’appello di Falcone e Montanari rimanda all’uso delle risorse, alla necessità di un uso sociale delle stesse come premessa necessaria alla redistribuzione. Un passaggio molto più radicale di qualsiasi punto di programma che miri genericamente alla redistribuzione. Occorre prendere atto, quindi, di una maggiore radicalità di proposta, rispetto ad appelli che hanno preceduto quello di Falcone e Montanari.
Il suo limite principale è invece l’intenzione di costruire “una sinistra di popolo [che] non può che rinascere dal popolo”, partendo da un appello che si rivolge a qualunque soggetto politico a prescindere dalle esperienze che quei soggetti hanno caratterizzato. Prendete Articolo1-Mdp, tanto per fare un esempio. Rispondendo in un’intervista a Il Manifesto, il presidente della Toscana, Enrico Rossi ha annunciato la presenza all’assemblea indetta da Falcone e Montanari nonostante abbia votato Sì al referendum del 4 dicembre, perché, a suo dire, “Se guardiamo il passato di ciascuno non andiamo da nessuna parte”. Ma, ammesso e non concesso che si debba prescindere dalle storie politiche, il tema è: da che parte si vuole andare. Dobbiamo ricordarlo? Articolo1-Mdp nasce per volontà di personaggi politici (Bersani, D’Alema e compagnia cantando) che non solo hanno sostenuto, votato e approvato le peggiori misure antipopolari degli ultimi decenni, ma continuano a rivendicare quelle scelte. Già D’Alema all’assemblea di fine maggio di Articolo1-Mdp aveva rivendicato la necessità delle cosiddette missioni umanitarie, affermando di non essere “un pericoloso pacifista”, tanto da vantarsi di essere stato "l’unico Presidente del consiglio ad aver portato il Paese in guerra”, sottolineando che rifarebbe quella scelta. Solo pochi giorni fa, Bersani ha tenuto a ribadire di essere “più liberale di Renzi” e pertanto ha precisato che mai farà come Corbyn; Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana e tra i promotori di Articolo1-Mdp, a domanda secca: “Cancellerebbe il Jobs act?”, risponde in modo prolisso ma non afferma la necessità di cancellare quel decreto nefasto per i lavoratori. E sempre Articolo 1 - Mdp ha preferito uscire dall’aula del Senato per non esprimere un voto contrario alla fiducia sulla manovra correttiva che ha reintrodotto furbescamente i voucher. Si potrebbe continuare molto a lungo ricordando come tanti personaggi della sinistra indistinta abbiano promosso la liberalizzazione di settori strategici e la privatizzazione di aziende pubbliche; favorito la privatizzazione dell'acqua; approvato la legge Fornero; votato il pareggio di bilancio in Costituzione, il Jobs act, la Buona scuola, lo Sblocca Italia, il decreto Minniti-Orlando ed ogni fiducia ai peggiori governi degli ultimi anni. Eppure, a parte qualche eccezione come Pisapia o Rossi, la maggioranza di quelli cha hanno risposto “presente” all’appello di Falcone e Montanari hanno fatto campagna referendaria per il No alla controriforma costituzionale che Renzi ed il PD hanno cercato di imporre.
È evidente, quindi, che il richiamo alla attuazione della Costituzione non formula immediatamente un programma politico. La questione da chiarire, allora, diventa non solo chi risponde all’appello, ma se in un ambito del genere esiste una sinistra capace di tradurre il generico richiamo all’attuazione della Costituzione in un programma politico ed elettorale che sia adeguato alla attuale fase politica e sociale. Insomma, come giustamente sottolineato dai compagni del collettivo Je so’ pazzo, è necessaria una capacità di fare più che “accrocchi elettorali”, “una vera campagna politica che attraversi il dibattito elettorale. Una campagna che ci porti a un maggiore livello di coordinamento a partire dalle pratiche, che ci faccia animare il dibattito e imponga dal basso il nostro ordine del giorno”. Si tratta, certo, come invita giustamente a fare la risposta dell’ex Opg Je so’ pazzo, di imporre nel dibattito e nelle pratiche, “poche cose ma chiare” ma appunto che siano non riflettute nel chiuso di una stanza e scritte a tavolino (come troppo spesso accaduto) ma necessità concrete, sentite, costruite in esperienze di lotta e che nelle lotte possono dialetticamente svilupparsi. Tenendo conto che una sinistra popolare non può che muoversi su una prospettiva di classe, di rottura sistemica.
Vanno in questo senso: la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, la rottura del comando capitalistico imposto dall’Ue, la cancellazione delle norme che hanno distrutto i diritti dei lavoratori e la messa in atto di nuovi ed efficaci strumenti di democrazia reale nei luoghi di lavoro, una scuola che sappia dare una formazione critica e non una preparazione alla precarietà di lavoro e di vita, l’attacco ai grandi patrimoni, un sistema di welfare che garantisca la giustizia sociale. Ma per un programma di vera rottura non basterà - com’è nelle intenzioni dell’appello - “costruire una nuova rappresentanza” ed un programma con cui “chiamare le italiane e gli italiani a votare”.
Sarà piuttosto necessario tornare a unire coerentemente teoria politica e azione politica, anche andando a verificare le analisi e le proposte sporcandosi le mani nella stessa merda in cui è costretta la stragrande maggioranza delle persone. È questo, tra l'altro, il modo più efficace per riacquistare credibilità e la fiducia delle classi popolari e per dare corpo a quella sinistra di popolo che nasce dal popolo. Tenendo conto, però, che a certi personaggi sporcarsi le mani non può bastare, perché senza una vera, profonda riconsiderazione di quanto votato, approvato, sostenuto in passato, il semplice sporcarsi le mani risulterebbe demagogico, funzionale alla tornata elettorale. E diciamocelo in tutta onestà: molta sinistra ha smesso di capire l'importanza dello sporcarsi le mani, cioè dello stare nei luoghi dove si produce lo sfruttamento padronale per capirne l'essenza, le nuove modalità di sfruttamento, le forme di alienazione. E senza questa comprensione non è possibile alcun soggetto politico che si ponga davvero il tema della necessità di accumulare le forze per modificare i rapporti sociali di potere attuali. E senza quella comprensione, al massimo si può aspirare a mantenersi vivi ad ogni elezione. Ed è quello che la sinistra deve smettere di fare.
Come? Invertendo l’atteggiamento perseguito da troppi anni in qua, per cui si è troppo spesso sacrificata l’autonomia della sinistra (di classe, popolare) alle necessità elettorali del momento, laddove per autonomia si deve intendere (non in ordine di priorità o atto pratico): studiare il contesto dove agire; porsi un progetto politico rispetto alla società dove si opera ed in funzione della propria idea di società; agire di conseguenza stando dentro le lotte; organizzarsi per poter agire politicamente; verificare anche con l'azione politica la validità delle proprie tesi, del proprio progetto, delle proprie proposte, che non devono essere un generico “lottiamo per un futuro migliore”, ma di risoluzione concreta dei problemi concretamente vissuti dalle persone. Gramsci sosteneva che qualora anche uno solo dei problemi quotidiani da cui sono afflitte le persone comuni “deve essere risolto anche solo in un villaggio di cento abitanti”, “l'entusiasmo verbale e la sfrenatezza fraseologica fanno ridere (o piangere)”. E se vogliamo essere credibili e riconquistare la fiducia delle classi sociali più fragili per costruire una sinistra popolare, dobbiamo essere spietatamente autocritici e constatare che spesso la sinistra ha fatto ridere (o piangere) in quel senso gramsciano mentre era assorbita nel vortice di appelli ed elezioni ed intanto si lanciava con “entusiasmo verbale” in generici richiami dell’unità della sinistra, tutti in funzione elettorale.
Un’autonomia della sinistra di classe, popolare è allora necessaria, perché senza quella la stessa sinistra sarebbe in balia dell’elettoralismo e della discussione del momento, da rincorrere per stare sul pezzo, per marcare una presenza e non necessariamente di rottura di sistema e di rottura della costruzione di un senso comune fatto spesso di quel senso di responsabilità con il quale si giustificano le politiche antipopolari. È perciò chiaro che senza una reale autonomia non è possibile alcuna sinistra popolare che nasca dal popolo, perché per quella via si produrrebbe molto più facilmente una coalizione purché sia o purché sia alternativa al PD ma costruita su compromessi tali per cui non può aspirare nemmeno ad opporre una flebile resistenza alle politiche neoliberiste.
Certo, si tratta di mettersi in testa che occorre un lavoro lungo, che non può risolversi nei tempi dettati dalle scadenze elettorali, che magari non darà risultati immediati ed implica una scelta in termini di priorità e quindi di approccio alla politica e di significato che si vuole dare alla costruzione di una soggettività di sinistra popolare; una scelta tra l’impegnare le maggiori energie in via prioritaria sull’unità dei soggetti elettorali, come fatto finora, oppure lavorare all’allargamento dell’unione dei soggetti sociali più deboli e rispetto alla quale il momento elettorale costituisce un passaggio, certo importante, ma un aspetto per raggiungere un risultato ben più ampio e significativo.
Una strada che impegnerà per molto tempo, questo è certo; ma è senz'altro indubbio che l'elettoralismo finora perseguito ha già dimostrato di essere una perdita di tempo e di forze. Cominciamo, quindi, da ora a marcare una rottura con l’elettoralismo che ha caratterizzato il recente passato della sinistra: restituiamo autonomia alla sinistra che vuole essere popolare e su queste basi facciamola rinascere.