La liberazione di Raqqa
La cartina del Risiko tra Siria e Iraq vede la progressiva rarefazione del colore nero: quello della bandiera dello Stato Islamico di Abu Bakr al Baghdadi. La capitale del Califfato proclamato il nell’estate del 2014, al Raqqa, è caduta nelle mani delle FDS, le Forze Democratiche Siriane: coalizione messa in piedi ed egemonizzata dalle YPG, le Unità di Autodifesa del Popolo, del Partito dell’Unione Democratica, PYD, formazione della sinistra curdo-siriana, gemella del Pkk di Abdullah Ocalan che gode dell’appoggio politico e militare degli Usa.
È un’ottima notizia. Fallisce così il tentativo iper-reazionario sostenuto dalle monarchie del Golfo di sfruttare la ribellione sunnita a cavallo della linea di confine, tracciata durante la prima guerra mondiale dall’accordo Sykes-Picot; iniziativa volta al fine di costruire uno Stato fondamentalista da contrapporre alla Mezza Luna sciita imperniata sull’Iran. Ma la caduta di Raqqa non porterà, purtroppo, automaticamente la pace in Iraq, in Siria e in tutto il Medio Oriente. Nuovi conflitti si stanno preparando o meglio vecchie rivalità si riaccendono, pur mutando sembianze e colori.
L’accerchiamento di Raqqa pare che non sia stato completato. Le FDS, coperte dall’alto dall’aviazione statunitense, hanno lasciato libero un varco a sud della città per consentire l’evacuazione dei profughi e, forse, di molti combattenti stranieri dell’ISIS. L’evento ha dato la stura su tutti i mass media occidentali e non (basti vedere i comunicati russi e francesi) a una polemica su una eventuale collaborazione tra Stato Islamico e forze curdo siriane.
L’allarme rosso scattato nelle capitali europee è caratterizzato dal timore dell’ondata di ritorno dei cosiddetti “foreign fighters”. Un singolare allarme la cui causa viene attribuita alla negligenza dei combattenti curdi, ma che solo con difficoltà viene invece identificata con il deserto sociale e umano prodotto dalle politiche liberiste e segregazioniste, praticate nelle banlieau francesi o nelle periferie di Londra.
Da parte russa e dell’esercito regolare di Damasco, invece, ci sono timori più fondati, dati alcuni degli ultimi sviluppi sul campo, che le forze del Califfato convergano più a sud per contrastare la loro avanzata. Quest’ultima a fine settembre ha permesso la liberazione di Deir Ezzor dal lunghissimo assedio a cui era sottoposta dai miliziani dell’ISIS.
Putin, il vincitore
È evidente la crescente preoccupazione di Bashar Al Assad per l’espansione curda e per la possibile e conseguente influenza statunitense nel suo paese. Preoccupazione che fa da pendant a quella turca e che dovrebbe condurre a breve l’esercito di Ankara ad occupare il territorio settentrionale di Idlib in coabitazione con i vari gruppi integralisti armati (più o meno alleati di Al Qaeda) che lì si sono rifugiati. Pur avendo emesso proteste formali, una equiparabile preoccupazione di Damasco per la presenza militare della Turchia nel proprio paese non si registra. Per ora il governo siriano si fa bastare le garanzie offerte da Vladimir Putin, autentico vincitore della guerra civile siriana e prossimo arbitro dei conflitti generati da quest’area turbolenta del mondo.
In realtà, l’indebolimento economico, militare e quindi politico dell’imperialismo occidentale sta consentendo a Mosca di giocare un ruolo assolutamente inedito. Il recente viaggio in Russia del monarca saudita Salman, durante il quale è stato siglato un accordo per la fornitura da parte russa di armi e tecnologia per tre miliardi di dollari (un altro miliardo per il comparto energia) sancisce un “piccolo” (Trump in primavera aveva comunque stretto un accordo di vendita di armi a Riad per 110 miliardi di dollari) salto di qualità nei rapporti bilaterali, visto che il tradizionale alleato russo nell’area è la Repubblica Islamica dell’Iran, tradizionale nemica dei sauditi.
Ma la sensazione che si stiano ridistribuendo le carte nell’area è davvero forte: gli Stati Uniti a partire dall’inizio degli anni ’90 hanno tentato con due guerre di imporre il loro controllo egemonico e militare su questa zona cruciale per il rifornimento energetico del mondo. Ma ormai si può affermare che hanno fallito. Le due guerre americane contro l’Iraq hanno spezzato il monopolio politico dei sunniti in quel paese (la caduta di Saddam e del partito Baath), ma hanno sancito l’ascesa degli sciiti e dell’Iran. Gli Usa non hanno però più le risorse economiche e militari per vincere questa partita: possono limitarsi a difendere la politica coloniale di Israele, ma non di più. L’Iran si ritrova al centro di una alleanza con il nuovo Iraq sciita, con gli Hezbollah libanesi, con la Siria di Assad e quindi con la Russia di Putin. La Turchia di Erdogan, spaventata dalla sconfitta subita nella guerra civile siriana, si è volta a baciare la mano del potente vicino russo. Anche le monarchie del Golfo avvertono il vuoto di potere americano. Putin ha ora la possibilità di costruire un proprio tentativo di riassetto dell’area.
Le variabili curde
La questione curda diviene centrale in questo momento e per questi motivi: per gli Stati Uniti essi (nelle due varianti della Sinistra curdo-siriana e del PDK di Barzani nel Kurdistan iracheno) sono l’ultima stampella per una residua influenza nell’area; per i russi sono una variabile che complica il quadro delle loro alleanze e della loro egemonia nella regione; per sé stessi i curdi sono i vincitori della battaglia simbolo di Kobane, dispongono di un esercito di circa 40mila combattenti nella Rojava, nel Kurdistan iracheno ormai possiedono un mini Stato indipendente dopo il referendum del 25 settembre scorso e, soprattutto, in Siria sono i portatori dell’unica idea in grado di risolvere strutturalmente i conflitti dell’area, il Confederalismo Democratico teorizzato da Ocalan.
Nel momento in cui viene scritto questo articolo sono in corso sviluppi drammatici in quanto il governo di Baghdad avrebbe attaccato le truppe curde peshmerga che difendono la città petrolifera di Kirkuk nel nord dell’Iraq. Questi scontri potrebbero anche ridare un po’ di fiato alle residue forze dell’ISIS. Il problema costituito dal piccolo nazionalismo feudale rappresentato dal governo di Barzani era stato recentemente denunciato anche dalla Sinistra curda e dal PKK. Ma dinanzi a un accerchiamento e al tentativo di strangolare l’autonomia regionale in Iraq i due tronconi del mondo curdo si riunificheranno certamente. Gli Stati Uniti di Trump per ora si sfilano da questo conflitto e propongono un dialogo tra le parti, difficilmente potranno però abbandonare i loro tradizionali alleati curdo iracheni, pena l’ulteriore ininfluenza sui futuri riassetti regionali.
Come abbiamo più volte scritto in questo giornale, l’alleanza con l’imperialismo Usa e in particolare con l’amministrazione Trump, espone la Sinistra curda e la sua esperienza di autogoverno nel nord della Siria a gravi pericoli di isolamento. La soluzione come correttamente hanno più volte dichiarato il PKK e il PYD non può essere nella costituzione dell’ennesimo staterello etnicamente puro, come lo vorrebbe creare Barzani nel nord dell’Iraq, ma nell’auto governo dei popoli della regione, minoranze etniche e religiose incluse. Per far ciò non è necessario mettere in discussione i fragili confini disegnati a suo tempo dalle potenze coloniali. È invece necessario e urgente la ripresa del dialogo tra il governo iracheno e quello regionale curdo di Erbil, ma soprattutto tra la regione della Rojava e il governo siriano di Assad. Solo con un accordo su un futuro federale e democratico della Siria sarà possibile evitare nuove guerre, tagliando le unghie all’ormai prossimo intervento militare turco, alla subordinazione all’imperialismo Usa e in generale agli interessi delle potenze straniere.
Sitografia:
Sulla battaglia di Raqqa:
http://www.huffingtonpost.it/2017/10/15/a-raqqa-la-fine-e-il-nuovo-inizio-per-lisis-2-0_a_23243851/
Sull’accordo commerciale tra Russia e Arabia Saudita:
Sugli scontri tra Baghdad ed Erbil:
http://www.ilpost.it/2017/10/16/attacco-iraq-kurdistan-kirkuk/
https://www.retekurdistan.it/2017/10/16/hdp-lattacco-a-kirkuk-e-inaccettabile/