Il movimento della storia degli uomini non corrisponde a uno sviluppo lineare, il genere umano, al contrario, nel processo del suo universalizzarsi e nel divenire cosciente della propria universalità percorre un moto contraddittorio all’interno del quale la interconnessione tra la vita dei popoli e delle classi sociali si sviluppa per effetto di contraddizioni, conflitti, equilibri precari ed estensioni di quegli stessi conflitti su scala sempre più larga. Il movimento di preparazione di questo importantissimo processo è quello della società divisa in classi poiché lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo coincide con lo sfruttamento da parte degli uomini della natura circostante, quindi il pensarla come mezzo per la realizzazione dei propri bisogni, cioè come mezzo per l’accrescimento del proprio potere, della propria volontà sulla volontà di altri uomini, in conflitto latente gli uni con gli altri. La soluzione di questo conflitto interno, spesso, non conduce a un ribaltamento dei rapporti di potere tra le classi ma a un equilibrio favorevole alla classe dominante e a un’estensione territoriale e generalizzata del conflitto che si estende ad altri popoli, che spinge gli uomini di territori e lingue diverse, appartenenti a culture distanti tra loro, a interagire, a scambiarsi i prodotti del lavoro sfruttato, a sottostare a leggi comuni, ad abbandonare parte o tutta la loro individualità per partecipare, più o meno consapevolmente al tortuoso processo di formazione del genere umano.
Nel percorso storico descritto il modo di produzione capitalistico, nonostante la sua intrinseca transitorietà e le sue insanabili contraddizioni, rappresenta lo stadio di sviluppo più evoluto a cui è giunta la società divisa in classi e la ragione della propria superiorità è data dal livello di concentrazione delle forze produttive disponibili, nonché dalla capacità di organizzarle al fine di accrescerle, aumentando le loro dimensioni, la velocità del processo di accumulazione e il grado di concentrazione. Il limite al loro sviluppo è dato, invece, proprio da ciò che il capitalismo ha ereditato dai precedenti rapporti sociali, quindi un rapporto tra uomini definito dalla divisione sociale del lavoro, quindi dal monopolio della proprietà dei mezzi di produzione a opera di una classe – più o meno ristretta – della società.
Grazie alla sua potenza, quindi, il modo di produzione capitalistico coinvolge nella sua orbita tutte le regioni del globo terrestre, impone a tutti i popoli del mondo, volenti o nolenti, le regole intrinseche del suo sviluppo, sconvolgendo la vita e le tradizioni di milioni di individui, costringendoli a subire un ritmo e un’evoluzione a cui non erano neanche lontanamente abituati. Pena la loro estinzione fisica e morale. Il capitalismo, tuttavia, non nasce dal nulla, il presupposto storico da cui prende le mosse, è quello dello Stato nazionale all’interno del quale si definisce progressivamente quel monopolio della forza militare che è essenziale per la sua ascesa e il suo sviluppo. Attraverso i prestiti e il debito pubblico la classe dei capitalisti arriva a controllare lo Stato e, nel periodo in cui si afferma e si consolida il potere della borghesia sulla società attraverso il ruolo dello Stato, la forma simbolica del potere tende sempre più a incarnarsi nella forma del denaro, l’equivalente generale delle merci. Il denaro, quindi, rappresenta plasticamente i rapporti sociali tra le persone e la sua accumulazione e concentrazione sancisce il prestigio e il potere di un gruppo sociale su un altro. L’apparenza, tuttavia, non corrisponde all’essenza, poiché il movimento del denaro, il suo processo di centralizzazione, dipende da come vengono messi in moto quei rapporti e non viceversa. Anche se il potere si incarna nella quantità di denaro accumulata è il rapporto sociale quello che conta, poiché è la relazione tra uomini l’elemento vivente, dinamico: il rapporto sociale di produzione definisce il processo, l’accumulazione del denaro è il risultato. Dentro questo processo l’imperialismo rappresenta lo stadio più evoluto del capitalismo. La crisi di sovrapproduzione connessa alla lotta di classe e alla lotta intestina tra capitali nel regime di concorrenza spinge la concentrazione di capitali a un livello sempre più avanzato. La fusione tra capitale bancario e capitale industriale accelera la centralizzazione che, a sua volta, agisce come leva potentissima di controllo sulla vita politica e sulle istituzioni dello Stato, ridotte sempre più a semplici comitati d’affari dei grandi gruppi monopolistici. Nello scontro mondiale tra capitali la guerra agisce sia come scontro per il controllo del mondo tra potenze imperialiste sia per la spartizione delle risorse e dei mercati, sia come distruzione delle forze produttive in eccesso (in primis i capitali) ma anche come leva potentissima per disinnescare la lotta tra classi per il controllo del potere politico all’interno dello Stato e per spezzare la solidarietà internazionale tra gli sfruttati, ovvero l’internazionalismo.
Se riflettiamo profondamente sulla guerra contemporanea tra Stati – che, in forma più complessa ed elaborata, è il riflesso di una lotta tra capitali che tendono a raggiungere lo stadio monopolistico – comprendiamo che l’attitudine a identificare le sorti della propria classe con quelle dello Stato a cui si appartiene e, di conseguenza, al capitale finanziario che lo controlla, è un pericolo sempre imminente. Il fallimento dello Stato nella guerra per la spartizione del mondo può venir percepito come il proprio fallimento, o meglio il declassamento da una condizione di relativo privilegio a una condizione inferiore. L’aristocrazia operaia, inquadrando la lotta per il salario in termini esclusivamente riformisti e identificandosi con la superiorità culturale espressa dalla propria nazione, tende spontaneamente a riconoscersi con essa.
La storia del XX secolo, letta attraverso la chiave teorica del marxismo-leninismo, rappresenta una manifestazione concreta dello sviluppo e crisi dell’imperialismo, considerato come stadio più avanzato e putrescente del modo di produzione capitalistico. Le tappe della storia dell’imperialismo, volendole schematizzare in modo sintetico sono queste:
1) lotta per la spartizione del mondo nella Prima guerra mondiale tra le principali potenze europee coloniali, con ascesa e declino della Germania, rafforzamento degli Stati Uniti come paese più sviluppato tra le potenze imperialiste, rivoluzione socialista e antimperialista in Unione Sovietica e reazione rabbiosa di tutte le potenze imperialiste coalizzate.
2) Anni Trenta: ascesa delle forze fasciste in Italia, Germania e Giappone, favorita da Francia, Inghilterra e Stati Uniti in chiave anticomunista, sviluppo dell’URSS nonostante l’accerchiamento come paese guida dell’antimperialismo e delle lotte anticoloniali.
3) Seconda guerra mondiale: sconfitta dell’imperialismo tedesco, italiano e giapponese, alleanza tattica antifascista tra URSS e imperialismo britannico e USA. Ascesa degli USA come Stato guida delle potenze imperialiste, indebolimento relativo dell’imperialismo francese e inglese, subalternità politica e militare della Germania e del Giappone.
4) Secondo dopoguerra fino al 1989: Patto Atlantico, gli accordi di Bretton Woods definiscono un nuovo equilibrio tra potenze imperialiste all’interno del quale la conflittualità tra poli imperialisti (USA, Europa e Giappone) è mascherata dall’integrazione nella NATO, dall’enorme potere del dollaro come valuta di riferimento su scala mondiale e dalla lotta contro il nemico comune; dall’altro lato, vi sono i partiti comunisti, gli Stati in transizione al socialismo (URSS, Cina, Vietnam, Cuba) e la lotta dei popoli del terzo mondo contro il dominio coloniale.
5) Caduta dell’URSS accompagnata alla fine della convertibilità oro-dollaro, crescita esponenziale dell’apparato militare industriale negli USA e conseguente creazione dell’Euro-zona su principi mercantilisti e ordoliberisti. Ascesa della Cina come principale potenza manifatturiera del mondo. Questa fase è stata caratterizzata da una potentissimo processo di centralizzazione dei capitali, favorito dalla vittoria dell’imperialismo sia sugli esperimenti di transizione al socialismo nell’Europa dell’Est sia verso i popoli del terzo mondo che hanno visto arrestarsi temporaneamente quelle lotte di decolonizzazione sviluppatesi negli anni Cinquanta e Sessanta. I vincitori della guerra fredda hanno imposto al mondo le logiche spietate della rapina e della supremazia neocoloniale. Il mondo è divenuto il far east dei capitali in crisi di accumulazione. La banca centrale americana, grazie al sistema della non convertibilità dollaro-oro e dell’oro come valuta internazionale di riferimento, è divenuta il centro mondiale del mercato dei capitali. L’esportazione di capitali è stata funzionale a rallentare la caduta del saggio di profitto nei paesi occidentali – e in misura superiore gli USA – con lo scopo di accrescere la componente di capitale variabile su quello costante. Ciò si è realizzato grazie alle delocalizzazioni della produzione (Est Europa, Cina, India, Brasile ecc.), al controllo delle economie del terzo mondo attraverso i prestiti del FMI e della Banca mondiale, all’attivazione della speculazione sul debito degli Stati (la maggior parte dei paesi africani e asiatici), all’investimento massiccio di capitali in alcune regioni con bolle speculative e successivo rientro dei capitali in USA con conseguente crisi economica nei paesi coinvolti (Tigri asiatiche, Russia, anni novanta, Argentina ecc). Bisogna anche aggiungere la moltiplicazione dei paradisi fiscali con il fine di favorire ulteriormente il carattere privatistico dell’accumulazione capitalistica facendo pagare ai lavoratori e a una parte della piccola borghesia il grosso della tassazione per il funzionamento dello Stato.
Ho posto qui solo alcuni – ma probabilmente i più importanti – meccanismi di controllo coercitivo del capitale finanziario nel mondo post 1989. Manca il presupposto militare. Il signoraggio del dollaro come valuta internazionale di riferimento è stato possibile grazie all’accrescimento esponenziale dell’apparato militare industriale negli Stati Uniti. Ronald Reagan è il presidente che più di tutti rappresenta la sintesi politica ed economica di questo ordine mondiale, basato sulla crescita esponenziale delle spese militari, quindi dell’apparato militare-industriale e sulla politica di abbattimento delle imposte per i capitali investiti in uno Stato. In poche parole ordoliberismo in economia associato a una politica estremamente aggressiva sul terreno militare.
L’unione Europea è sorta sugli stessi principi, con la differenza che la Germania, essendo un paese esportatore di merci ad alto contenuto tecnologico (con caratteristiche differenti dagli USA rispetto alla capacità di attrarre capitali) ha collegato i principi del liberismo economico con quelli del mercantilismo, costruendo un’unione monetaria plasmata sulle necessità d’esportazione. Lo scontro tra i due poli imperialistici fondamentali – USA e Unione Europea, a cui va aggiunto il Giappone – agisce sotto traccia, non emerge in superficie, poiché la supremazia del dollaro l’ha parzialmente occultato; in realtà l’imperialismo dei principali paesi dell’area Euro – Germania, Francia, Italia, Olanda – ha operato attivamente in questi anni, ritagliandosi uno spazio nelle logiche di spartizione del mondo del dopo 1989. La Germania ha creato un’area di libero scambio in tutta l’Europa dell’Est, integrando nella propria economia buona parte dei paesi dell’ Est europeo, utilizzati come valvola di sfogo per la crisi di sovrapproduzione, l’esportazione di capitali e l’utilizzo di manodopera a basso costo, utilizzando la Russia come fornitore di materie prime a prezzi vantaggiosi. La borghesia imperialista italiana ha tentato di seguire la Germania, mentre le sue mire nel Mediterraneo sono state stravolte dall’attivismo francese, inglese e statunitense in Africa. Infine, la Francia ha tentato di spremere quanto possibile le ex colonie africane imponendo ai paesi francofoni la dittatura monetaria del franco sefa. Questo è stato il “tesoro” che l’imperialismo francese ha portato in dote alla Germania per entrare a far parte dell’UE come paese dominante. Nei confronti dei popoli del terzo mondo – con tutte le differenze di regimi e contraddizioni che lo attraversano – l’imperialismo europeo e quello americano hanno occultato le differenze e le conflittualità tra i loro interessi – inquadrandoli sotto la bandiera neocolonialista della supremazia occidentale, dei valori del mondo libero.
In tutte le guerre combattute dopo il 1989, a prescindere da quali fossero gli attori prevalentemente interessati all’azione di rapina, europei e statunitensi si sono presentati al mondo muovendosi in un'unica coalizione militare punitiva contro il dittatore di turno: la direzione era statunitense, la coalizione prevalentemente occidentale. D’altro canto, tutti i tentativi di trasformazione sociale in chiave socialista, manifestatesi in maniera più massiccia in Sudamerica, sono stati decisamente contrastati – con l’intento esplicito del soffocamento – dalla medesima coalizione di Stati. Lo stesso processo di soffocamento si è tentato con la Siria, con l'avallo della Turchia e delle petromonarchie arabe.
Questo è il mondo nel quale viviamo, questa è l’epoca che stiamo attraversando, e non dobbiamo mai dimenticare che il paradigma dell’unità dell’Occidente ha rappresentato una potentissima leva di ricatto, non solo per i popoli del terzo mondo ma anche per le classi popolari del primo. L’idea che esista un unico orizzonte possibile – il capitalismo – e che, all’interno di questo sistema i popoli che vivono nei paesi imperialisti godano di uno status privilegiato, nonostante gli attacchi che quotidianamente subiscono dai loro padroni, riduce notevolmente la combattività di queste classi sociali. Le sanzioni economiche agli Stati che, a prescindere dai loro regimi, non accettano la logica neocoloniale imposta dai paesi imperialisti, agisce anche come forma di ricatto ideologico verso i lavoratori che, al limite, possono lottare per ridurre la portata dell’attacco sociale che subiscono, ma mai per mettere in discussione la politica generale dello Stato in cui vivono.
Con la guerra in Ucraina le contraddizioni dell’apparente mondo unipolare uscito dal post-1989 sono venute alla luce. Le velleità della Federazione Russa di entrare a far parte del club degli Stati imperialisti sono venute meno già dalla fine del primo decennio del XXI secolo, in parte perché la classe dirigente di questo immenso Stato riprendeva il controllo (in chiave capitalistica) delle proprie risorse, poi per la reazione netta dell’opinione pubblica, ma anche per la volontà di USA, UE e Giappone di escluderla dal club dei ricchi. La Repubblica Popolare Cinese, la cui economia è cresciuta impetuosamente con le regole ferree del mondo uscito dalla caduta del socialismo reale, ha svolto il ruolo di manifattura del mondo, acquisendo un potere e una centralità che nessun paese del terzo mondo aveva finora avuto prima – a eccezione, in parte dell’imperialismo giapponese. La classe dirigente statunitense, seriamente preoccupata per l’enorme spostamento di ricchezza verso est che lei stessa aveva contribuito a far crescere, per mantenere il proprio primato mondiale (soprattutto nei settori tecnologicamente più avanzati), ha virato in maniera sempre più netta verso una politica decisamente protezionistica. Ciò è avvenuto in maniera sempre più marcata dalla presidenza Trump ed è esplosa con la presidenza Biden e le conseguenze della guerra in Ucraina.
La Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese, avendo vissuto la loro crescita in una fase di profonda stagnazione del conflitto di classe e delle lotte anticoloniali, si fanno interpreti degli interessi che si sono sviluppati e sono cresciuti all’ombra di quella fase di restaurazione che è il mondo uscito dalla crisi del socialismo reale, per questa ragione alzano il vessillo del multipolarismo, ovvero di un mondo dominato dal modo di produzione capitalistico in cui vigano le leggi del diritto internazionale e non l’arbitrio e la legge del più forte, che si concretizza nelle sanzioni unilaterali, nel doppio standard delle regole applicate ai paesi alleati o meno dell’imperialismo. Da un punto di vista prettamente scientifico, quindi della razionalità della storia, questa parola d’ordine è utopistica poiché a lungo termine non risolve affatto le spaventose contraddizioni in cui s’imbatte il modo di produzione capitalistico; inoltre, nascondendo gli interessi specifici delle classi dirigenti che guidano questi Stati, può trasformarsi in un prossimo futuro, nella volontà di sostituirsi o di partecipare alla suddivisione del bottino con le classi dominanti di UE e USA. Tuttavia, aprendo un cuneo nell’ideologia dominante degli ultimi trent’anni, soprattutto in occidente, apre delle possibilità alla lotta di classe anche in Europa poiché mette in crisi quella visione dogmatica e assolutistica per cui non esistono alternative al dominio incontrastato del capitale finanziario, alla superiorità morale dell’uomo occidentale e a tutto il portato razzistico e oscurantista che si cela dietro questa categoria.
Per concludere: la guerra ingaggiata dagli USA e dall’Europa contro Russia e Cina, come tutte le guerre mondiali, definisce anche un riequilibrio dei rapporti di forza tra Stati imperialisti, dove il più forte tenta di scaricare sul più debole gli effetti della crisi di sovrapproduzione. In questa chiave vanno letti gli attentati terroristici USA al North Stream 1 e 2 e l’impennata inflazionistica nei paesi dell’Eurozona. Il blocco protezionista USA, UE e Giappone non poteva che avere queste drammatiche conseguenze sulle classi popolari di questi Stati, e in particolare sugli Stati europei. Questo dato, congiunto con la tenuta dell’economia russa alle sanzioni occidentali, ha indebolito progressivamente le ragioni dei fautori della guerra di civiltà in Europa, e in misura crescente in Italia e Germania. Le contraddizioni legate all’economia di guerra e al progressivo indebolimento delle potenze decadenti dell’area imperialista – Francia e Regno Unito – hanno attivato meccanismi di intensa lotta di classe che, invece, ancora non si sono manifestati in Italia. Per queste ragioni non possiamo interpretare la fase bellica attuale come era stata interpretata la Prima guerra mondiale: il contesto è completamente diverso, ma neanche possiamo crearci illusioni sulle sorti progressive del multipolarismo.
Il perno della storia è la lotta di classe e nessuno può risolverla al posto nostro. Tuttavia, data la crisi che il mondo sta attraversando, la sconfitta del sistema di rapina delle classi dirigenti dei paesi occidentali che si è verificato in questi anni può rappresentare un orizzonte all’interno del quale è possibile inquadrare un meccanismo di ribaltamento dei rapporti di forza tra le classi anche negli Stati occidentali, ovvero riaprire la questione della rivoluzione in occidente ipotizzata da Gramsci.