La questione dell’unità dei comunisti

Gli oppressi e i subalterni potranno aver successo, in un conflitto in cui contano essenzialmente e necessariamente i soli rapporti di forza, esclusivamente se saranno in grado di costruire un blocco sociale antagonista a quello dominante molto più ampio e unitario dal punto di vista nazionale e internazionale.


La questione dell’unità dei comunisti

È indubbiamente giusto quanto auspica Andrea Catone, nell’ultimo editoriale di “MarxVentuno”, ovvero che fra comunisti è necessario tenere sempre ben ferma la distinzione, sottolineata da Mao Zedong, fra contraddizione principale e contraddizioni secondarie. Nel caso specifico, naturalmente, la contraddizione principale è quella che necessariamente contrappone i capitalisti alla forza lavoro, rispetto alla quale i comunisti ovunque collocati dovrebbero essere i più ferventi sostenitori dell’unità degli sfruttati per tenere testa agli sfruttatori. Questi ultimi, in effetti, nel loro Stato hanno il potere e, quindi, hanno – per così dire – il coltello dalla parte del manico. Perciò gli oppressi e i subalterni potranno aver successo, in un conflitto in cui contano essenzialmente e necessariamente i soli rapporti di forza, esclusivamente se saranno in grado di costruire un blocco sociale antagonista a quello dominante molto più ampio e unitario dal punto di vista nazionale e internazionale. In caso contrario, è evidente che le sorti del conflitto saranno necessariamente compromesse e le differenze sociali fra pochi super ricchi e la massa del proletariato non potrà che aumentare sempre di più.

Altra cosa sono le contraddizioni secondarie, nel caso specifico le contraddizioni in seno al popolo, che in particolare in Italia impediscono ai comunisti di essere uniti e di unificare, di conseguenza, la classe proletaria nel conflitto sociale contro i capitalisti. Purtroppo, non di rado, negli ultimi anni nel nostro paese tali contraddizioni in seno al popolo hanno preso il sopravvento, chiaro esempio dello spirito settario che si è venuto imponendo fra le molteplici organizzazioni che si richiamano al comunismo. Anzi, per molte di esse, andrebbe combattuta nel modo più netto ogni appello all’unità dei comunisti, in quanto le contraddizioni in seno al popolo non sarebbero risolvibili, almeno dal punto di vista dialogico.

In quest’ultimo caso c’è evidentemente una completa incomprensione del concetto gramsciano di spirito di scissione. In quanto non lo si è inteso nel suo reale e sempre attuale significato di rottura completa dei comunisti con quelle forze sedicenti riformiste e socialdemocratiche, che da tempo non costituiscono più l’ala destra del movimento proletario, ma si sono riposizionate come ala sinistra del blocco sociale borghese dominante, ovvero dello schieramento padronale e filoimperialista. In questa accezione, propriamente gramsciana, lo spirito di scissione resta assolutamente decisivo, se si vuole mantenere la necessaria connessione sentimentale fra gli intellettuali (auspicabilmente organici) che dovrebbero essere l’avanguardia del proletariato, ossia i comunisti, e le masse proletarie oppresse, sfruttate e subalterne

Ciò è emerso – in modo particolarmente esemplare – nel momento in cui la principale organizzazione, sedicente comunista, decise di partecipare in posizione subalterna al governo riformista di centro-sinistra, il così detto governo Prodi bis. Non a caso l’aver preso parte direttamente a un governo antiproletario e filoimperialista non poteva che provocare la gravissima rottura della connessione sentimentale con la classe di riferimento, tanto che quest’ultima – sentendosi tradita e non più riconosciuta dalla propria sedicente avanguardia – le ha voltato le spalle, non riconoscendola a propria volta. Da allora il nemico è sempre rimasto alla testa delle masse umiliate e offese, che hanno perso con la bussola ogni punto di riferimento, condannando di conseguenza i “comunisti” o presunti tali a rimanere degli impotenti generali privi di esercito.

Così, a partire dal 2008 – quando è emerso chiaramente come ormai i comunisti hanno perso il loro ruolo di avanguardia e rischiano, fino ai nostri giorni, di divenire ininfluenti – il tema centrale è l’unità dei comunisti con lo scopo di riaprire una fase costituente, propedeutica alla ricostruzione di un reale partito comunista, di quadri, capaci di avere l’egemonia su ampie masse di proletari e di ceti medi in via di proletarizzazione. Tanto più che la storia, unica maestra di vita, avrebbe dovuto insegnarci che, in fasi di crisi – in cui la lotta di classe è condotta unilateralmente dalla borghesia – la cosa più semplice è continuare a dividersi in delle sette sempre più ininfluenti. Da questo punto di vista si potrebbe dire che lo spirito settario costituisce la versione farsesca dello spirito di scissione incentrato, al contrario del primo, sulla contraddizione fondamentale.

Naturalmente molto più difficile è costruire, in controtendenza e in contrasto con gli interessi della classe dominante borghese, momenti di unità fra i comunisti e/o aspiranti tali. In effetti, i comunisti sono reali solo all’interno di un partito, necessariamente rivoluzionario, in mancanza del quale dovrebbero considerarsi come degli aspiranti. Allo stesso modo i comunisti per essere reali debbono essere avanguardie riconosciute quantomeno dalla propria classe di riferimento, il proletariato moderno, in caso contrario sarebbe più corretto parlare di aspiranti comunisti.

Per rimettere in moto un processo ricompositivo, necessariamente controcorrente in questa fase, è indispensabile – come dovrebbe essere ovvio – mettere in primo piano gli aspetti su cui, in quanto comunisti, non si può non essere d’accordo, ovvero le questioni concernenti le contraddizioni fondamentali, alla base della lotta di classe. Mentre andrebbe necessariamente posto in secondo piano, almeno in un primo momento, ciò che divide i comunisti, tanto più che si tratta di contraddizioni secondarie, di contraddizioni in seno al popolo.

Inoltre essendo i comunisti dei filosofi della prassi, dovrebbero – in un primo momento – mettere da parte le questioni teoriche astratte, su cui è facilissimo rimanere divisi, e sforzarsi di costruire momenti di unità a partire dalla prassi, ovvero dal conflitto a tutti i livelli fra capitalisti e forza lavoro. Del resto, se si partisse dalla contraddizione fondamentale – lasciando inizialmente in secondo piano le contraddizioni in seno al popolo – ci si potrebbe rendere abbastanza facilmente conto che sulla maggior parte delle cose si è, di necessità, in quanto comunisti d’accordo, mentre sul restante 20% sarebbe il caso di approfondire il dibattito e il confronto, nel modo più dialettico possibile, evitando sempre di personalizzare i necessari dissensi. Tenendo sempre ben presente, come del resto dovrebbe necessariamente fare ogni autentico marxista, che nessuno può pretendere di avere in tasca la verità assoluta, di possedere il verbo che andrebbe semplicemente fatto conoscere agli altri che ne sarebbero privi. Come è noto, in effetti, il singolo non può che avere una visione particolare e limitata del mondo, soltanto il reale Partito e non le sue caricature settarie ha una visione d’insieme, complessiva delle cose, che è in grado di cogliere dal punto di vista della totalità. Perciò, è solo dal confronto dialogico fra compagni che si può sviluppare una visione d’insieme e non unilaterale della realtà.

Peraltro, non bisognerebbe mai dimenticare che l’unità dei comunisti è oggi quanto mai decisiva vista la crescente crisi del modo di produzione capitalistico, dal momento che la prospettiva comunista è l’unica reale alternativa progressista alla comune rovina delle classi in lotta, che ci travolgerà tutti se non saremo in grado di superare dialetticamente il capitalismo in senso socialista.

Come abbiamo potuto sperimentare in questi ultimi decenni e, in modo particolare negli ultimi anni, più i comunisti sono divisi e più sono deboli, più sono inefficaci e più le cose vanno male, non solo per gli oppressi, ma per l’intera società. 

Altrettanto importante è l’invito che rivolge Catone, sempre dall’editoriale di “MarxVentuno”, a riflettere collettivamente e autocriticamente su cosa ha condotto noi comunisti italiani a un livello così poco influente nonostante – aggiungiamo noi – la crescente crisi strutturale del blocco sociale dominante. Da questo punto di vista dobbiamo sempre ricordare che, come non si stancava di sottolineare Lenin, sbagliare è umano – dunque ognuno di noi compie inevitabilmente degli errori – ma perseverare nel proprio errore è diabolico. È proprio ciò che dobbiamo assolutamente smettere di fare, ovvero sarebbe certamente meglio cercare quantomeno di fare nuovi errori – anche perché l’uomo soltanto sbagliando è in grado di accrescere le proprie conoscenze e competenze – ma non continuare a ripetere tafazzianamente gli errori del passato.

Perciò, è quanto mai essenziale non cercare nuovamente di risolvere la decisiva e impellente questione dell’unità dei comunisti soltanto dall’alto, ovvero soltanto mediante appelli promossi da intellettuali e volti generalmente alla mera cooptazione di un gruppo più piccolo, in uno appena un po’ più ampio. Egualmente più volte sperimentata, con esiti sempre negativi, è la prospettiva dell’inter-gruppi, ovvero di un patto di azione per cercare di praticare obiettivi comuni fra tante piccole organizzazioni (fondamentalmente delle sette), che cercano di superare il deficit strutturale dei comunisti in Italia mettendo insieme i propri limiti e le proprie debolezze. Senza comprendere che la dimensione settaria è necessariamente parte del problema (l’essere divenuti più o meno tutti generali privi di esercito), piuttosto che della sua soluzione, ossia ricostruire un reale, credibile e vincente Partito comunista.

Dalla consapevolezza dei limiti, più volte sperimentati di tali tentativi, diviene necessario provare a sperimentare il processo di unificazione dei comunisti, della costituente comunista, muovendo più dal basso, per così dire, che dall’alto.

Per far meglio comprendere cosa intendiamo, possiamo fare riferimento ad almeno un paio di tentativi che – in qualche modo – consideriamo esemplari, esperimenti che stiamo portando avanti insieme ad altri comunisti, ovunque collocati, per ricostruire un’unità di azione in cui sperimentare momenti di unità progressivamente superiori. Si tratta di due tentativi di riavvicinare i comunisti a partire da una prassi condivisa a cominciare da due aspetti quanto mai diversi del conflitto di classe, quello condotto a livello delle idee e quello condotto a partire dalla forma più immediata e pratica del conflitto sociale nei luoghi di sfruttamento della forza lavoro.

Dal punto di vista della lotta per l’egemonia sulla società civile – intesa come battaglia delle idee, e formazione dei futuri militanti-quadri e degli intellettuali organici – abbiamo promosso un percorso di formazione continua mediante l’Università popolare Antonio Gramsci che, partendo dall’esperienza del Lazio, si sta ampliando in modo autonomo, ma coordinato, in altre regioni e che vede il concreto impegno di comunisti o aspiranti tali ovunque collocati.

Il secondo esempio che ci piace menzionare – in quanto pur nei suoi limiti ci pare, in qualche modo esemplare, – è la Conferenza nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori comunisti ovunque collocati. Tale strumento mira a unire concretamente dal basso i lavoratori comunisti a partire dai luoghi di lavoro, dove vi è la contraddizione maggiore e l’aspetto strutturale della lotta di classe. Provando, in tal modo, a costruire – insieme anche a compagni ex lavoratori, oggi attivi fra i pensionati, e giovane forza-lavoro in formazione – un dibattito franco e aperto su come ricostruire un’unità di azione a partire dalle lotte. Cercando di costruire momenti di unità di azione e riflessione fra lavoratori comunisti operanti negli stessi settori o all’interno del sindacato.

In entrambi i casi si è tentato o si sta tentando di organizzare anche momenti di mobilitazione comune, con iniziative pubbliche, volte alla battaglia delle idee necessaria a riconquistare le casematte della società civile, o a unire i lavoratori con maggiore coscienza di classe per costringere i sindacati a riprendere a difendere in modo unitario l’interesse dell’intero blocco sociale alternativo e antagonista che si tratta di ricostruire.

09/07/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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