Dopo aver trattato nel numero scorso il significato del Primo Maggio e la progressiva erosione dei diritti dei lavoratori, ci tocca ora, a conferma che le condizioni dei lavoratori vanno peggiorando su tutti i fronti, il triste compito di commentare la morte sul lavoro della ventiduenne operaia di Prato Luana D’orazio, rimasta imbrigliata in una macchina. Parrebbe che, per snellire la produzione, siano stati disabilitati dei dispositivi di sicurezza che avrebbero consentito di evitare il dramma. Mentre stiamo scrivendo, giunge la notizia di un’altra luttuosa notizia: un uomo di 46 anni, Maurizio Gritti, è morto schiacciato da un carico mentre era al lavoro in un cantiere a Pagazzano, nel Nord Italia.
Più volte abbiamo dovuto commentare in questo giornale episodi simili, li abbiamo definiti i morti per il profitto perché ogni decesso avvenuto nei luoghi di lavoro non è certo imputabile a mera fatalità. Non esiste il fato infatti perché quasi sempre siamo in presenza di incidenti evitabili solo adottando le necessarie misure di prevenzione, adeguando i luoghi di lavoro e gli impianti, fornendo al lavoratore le necessarie istruzioni (ricordate il motto della legge 626.informare e prevenire?), contenendo i ritmi di lavoro, attivando infine severi controlli e sanzioni per i trasgressori.
Il capitalismo mette al primo posto i profitti e la competitività e in nome della ottimizzazione e del risparmio. Determinati costi, come quelli legati alla prevenzione, alla salute e alla sicurezza vanno ridotti ai minimi termini se non proprio tagliati.
Anche lo Stato deve ridurre i suoi costi e dedica sempre meno risorse alla prevenzione e ai controlli preferendo investire in strumenti di morte o pensando che la tutela dei lavoratori sia possibile solo accrescendo elargizioni al sistema delle imprese secondo quel vecchio principio, caro a M Thatcher, che elogiava l'arricchimento delle élite per far piovere, a cascata, qualche briciola sulle classi sociali meno abbienti.
Il profitto si accresce tanto più quanto più il lavoratore è ricattabile, precario e disorganizzato, perché così si abbatte il costo del lavoro. Ma in questa situazione l’operaio non può rivendicare condizioni più sane di lavoro soprattutto in momenti di crisi economica e quando l'occupazione è a rischio.
Esiste una forte correlazione fra il numero di incidenti e la condizione precaria dei lavoratori, precarietà lavorativa ed esistenziale, tuttavia. Lo Stato fin qui ha ignorato questo aspetto e ha legiferato per rendere sempre più “flessibile” il rapporto di lavoro e agevolare i licenziamenti.
Partiamo dal mero dato statistico: dal 1°gennaio al 3 Maggio 2021 i morti sul lavoro sono già 222 ai quali occorre aggiungere 228 deceduti durante il trasferimento dall’abitazione al lavoro e viceversa. Sono ben 88 i medici morti di Coronavirus, 80 gli infermieri e di questi l’80% sono donne. Nell’anno 2020 i morti sul lavoro sono stati 1172.
Sono numeri impressionanti se pensiamo che nell’anno 2020, per molti mesi, abbiamo avuto milioni di lavoratori e lavoratrici in ammortizzatore sociale o in smart working ma, nonostante la diminuzione delle ore lavorate, il numero degli infortuni e delle morti si mantiene a livelli elevati.
Le considerazioni possono essere innumerevoli, vediamone alcune.
- Gran parte della forza lavoro è stata costretta a produrre anche quando le condizioni di salute e sicurezza non erano garantite e di conseguenza in molti sono stati contagiati nell’ambito produttivo anche se, in virtù delle circolari Inail, non è facile dimostrare l’avvenuto contagio in azienda.
- Infortuni e morti sul lavoro continuano a essere numerosi a causa della pandemia da Covid.
Ma come la mettiamo con la riduzione delle ore lavorate? In proporzione anche il numero degli infortuni e delle morti dovrebbe essere assai inferiore alle statistiche ufficiali. Senza considerare che non vengono conteggiati i lavoratori al nero che in alcune Regioni del paese costituiscono una parte rilevante della forza lavoro.
In qualunque modo si voglia affrontare il problema restano alcuni dati incontrovertibili.
- Numerose Regioni, tra cui quelle in cui sono avvenuti questi ultimi incidenti (Toscana e Lombardia), nel corso degli anni hanno depotenziato gli uffici o gli sportelli competenti in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro. L’organico degli ispettori Asl e della direzione territoriale del lavoro è arrivato ai minimi storici, il che determina controlli ridotti, un numero inferiore di sanzioni e irregolarità documentate e minore pressione sulle imprese perché rispettino le normative in materia di salute e sicurezza.
- L’elevato numero di infortuni e morti sul lavoro nel nostro paese dimostra che siamo decisamente indietro rispetto ad altre nazioni nella prevenzione e sicurezza. La logica dominante della riduzione del costo del lavoro accomuna ormai imprese e politica e include anche gli oneri in materia di salute e sicurezza. Come accade nella pandemia, è ormai scontato che si tengano aperti magazzini e fabbriche anche nei momenti più critici dei contagi. A evitare il virus dovranno pensare i lavoratori attraverso il distanziamento sociale o i Dpi (dispositivi di protezione individuale) che dovrebbero essere distribuiti con i requisiti previsti dalle normative, mentre alcune inchieste della Magistratura vanno accertando, per esempio, la presenza di mascherine farlocche.
- È stata progressivamente smantellata la medicina del lavoro che negli anni sessanta e settanta aveva rappresentato uno strumento importante per la messa a bando di sostanze nocive nonché per il riconoscimento di alcune malattie professionali.
Quando si ritiene che l’innovazione sia secondaria rispetto al contenimento dei costi, questo obiettivo viene perseguito non solo abbattendo le spese sociali o per la istruzione ma anche operando tagli in ambito sanitario. Si lancia così un messaggio contraddittorio che spinge verso il depotenziamento degli interventi (aziendali e statali) preventivi in materia di salute e sicurezza. E se i lavoratori contrastano queste scelte c’è sempre il ricatto delle delocalizzazioni.
Se fino agli anni settanta la legislazione riguardava prevalentemente le macchine, a partire dalla metà degli anni ottanta si guarda soprattutto ai lavoratori ma, guarda caso, iniziano proprio da allora le scelte politiche miranti a ridurre le sanzioni a carico dei datori di lavoro inosservanti delle normative.
Senza addentrarci nelle casistiche di infortuni e morti possiamo sicuramente asserire quanto segue.
- Cedere alla logica del contenimento dei costi ha immediate ripercussioni sulle condizioni salariali e lavorative, accresce il rischio di infortuni e paradossalmente non permette di capire che investire in sicurezza comporterebbe benefici maggiori per le stesse aziende. Perché non si investe? La risposta è semplice, i controlli sono pochi e nel corso degli anni i soldi risparmiati sono decisamente maggiori e più redditizi degli investimenti o delle eventuali ipotetiche sanzìioni.
- Gli appalti pubblici dovrebbero premiare le offerte tecniche capaci di includere anche dei documenti di valutazione del rischio tali da favorire quello che impropriamente viene definito benessere organizzativo.
- Le malattie professionali rappresentano un segnale di allarme per la cittadinanza tutta e non solo per la forza lavoro. Perciò la sfida è quella di investire nella ricerca e nel costante monitoraggio delle condizioni di lavoro. Accertate alcune malattie professionali si sono studiati gli impatti ambientali di certe produzioni appurandone l’estrema pericolosità per l’uomo e l’ambiente. Ma parliamo ormai di 40 anni fa quando i rapporti di forza erano decisamente più favorevoli per il movimento operaio. Successivamente i passi compiuti sono stati solo all’indietro.
Tra i lavoratori e le lavoratrici si è affermata la cultura della subalternità ai datori e molti di loro ormai ritengono una perdita di tempo l’adozione delle misure di sicurezza. Lo scarso potere d’acquisto dei salari spinge a monetizzare il rischio e ad accettare, anche attraverso accordi di secondo livello, condizioni lavorative peggiori. Poi un discorso a parte meriterebbero i corsi obbligatori in materia di sicurezza, corsi per lo più nozionistici e avulsi dalle attività reali svolte. E così le problematiche della sicurezza sono sempre più scisse da una rivendicazione complessiva che metta salute, prevenzione e salario sullo stesso piano. Per anni si è pensato (erroneamente!) che il compito degli Rls (rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza) dovesse essere di mera collaborazione con i responsabili aziendali del servizio prevenzione e protezione, così facendo abbiamo marginalizzato e depotenziato il ruolo di queste figure sindacali che avrebbero dovuto essere invece un momento importante di controllo, anche conflittuale se necessario.
È questo ritorno alla conflittualità che potrebbe essere la stella polare per ristabilire un maggiore equilibrio di poteri all’interno dei luoghi di lavoro. Ma questo richiederebbe un sindacalismo conflittuale non frammentato come lo è oggi e un partito che effettivamente fosse espressione dei lavoratori.