Il 6 dicembre scorso il presidente USA Donald Trump ha dichiarato di voler trasferire l’ambasciata USA in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo a quest’ultima lo status di capitale dello Stato ebraico. Nell’arco di una manciata di minuti, il tempo necessario a dare l’ “annuncio”, Donald Trump quindi pretende di risolvere unilateralmente una questione chiave nello scenario mai chiuso della guerra israelo-palestinese quale quella dello status giuridico della c.d. Città Santa, qualificandola, per giunta, come una decisione (unilaterale, è bene rimarcarlo continuamente) necessaria al raggiungimento della pace.
In attesa di comprendere se la “pace” di cui farnetica Donald Trump sia la stessa che costantemente minaccia di distruggere, assieme al suo governo, la Corea del Nord, ad esempio, oppure ogni qualvolta apra il suo account twitter per insultare ed umiliare le minoranze, le donne, i giovani, i lavoratori e le lavoratrici del suo paese, non si fa attendere l’entusiastica reazione del primo ministro israeliano, il sionista Benjamin Netanyahu, quello che qualche anno fa ha asserito che Hitler non volesse sterminare gli ebrei ma solo espellerli, ma venne purtroppo convinto dall’allora gran muftì di Gerusalemme a bruciarli e sterminarli (sic).
Materia grigia poca o nulla, insomma, compensata da ingenti quantità di arroganza, ignoranza, revisionismo storico, deliri di potenza. Un connubio pericolosissimo, visto il ruolo politico ricoperto da entrambi questi figuri, al comando di due corpi militari tra i più potenti e tecnologicamente avanzati al mondo. Ed infatti non stupisce la dura condanna proveniente dai palestinesi e dal mondo arabo e da gran parte della comunità internazionale di fronte a quella che viene correttamente interpretata come l’ennesima provocazione che ha già innescato una nuova escalation di violenza in Cisgiordania e Gaza, con morti e centinaia di feriti.
Gerusalemme, com’è noto, rappresenta una città contesa da tempo letteralmente immemore tra le tre grandi religioni monoteistiche: la compresenza, altrettanto risalente nel tempo, di etnie differenti, di sensibilità religiose differenti, di luoghi fisici sacri per motivi e tradizioni differenti, innestata in un contesto politico tra israeliani e palestinesi particolarmente teso e complicato, che in 70 anni ancora non è stato risolto, rende assai improbabile una definizione netta dello status da attribuire a questa città. Tanto più se essa è il frutto della improbabile presa di posizione unilaterale da parte dell’ancora più improbabile presidente di un Paese che, per giunta, dista più di diecimila chilometri da Israele. Il che fa inevitabilmente pensare al rapporto intercorrente tra una colonia e la sua madrepatria.
La delicatezza degli equilibri in gioco in relazione, nel caso specifico, alla città di Gerusalemme è tale che, sin dai tempi in cui, nel 1947, la Palestina venne ripartita a tavolino in uno stato arabo e l’altro ebraico dalla commissione UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine), la città di Gerusalemme non venne assegnata né all’una né all’altra parte ma messa sotto il controllo internazionale; non solamente, come purtroppo è risaputo, negli anni successivi questo accordo non è mai stato rispettato e lo Stato di Israele oggi occupa più dell’80% del territorio, relegando in un regime di vero e proprio apartheid la popolazione palestinese, per quanto oggi si pretende di far passare l’idea che l’accaparramento dalla sera alla mattina anche di Gerusalemme quale capitale dello stato d’Israele sia un fatto naturale e “ancestrale”.
Particolarmente illuminanti in questo senso appaiono le parole del Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, la più antica d’Europa, che, sulle pagine de La Stampa del 9 dicembre fa riferimento alla vicenda di Gerusalemme attraverso una lente che focalizza la “centralità ebraica”. Però, stando alle argomentazioni, questa centralità suona più come una priorità ebraica o un generico diritto di prelazione maturato sulla base di una “continua e intensa attenzione ebraica su Gerusalemme”. E continua: “La prospettiva storica e religiosa è indispensabile per capire la vera entità della questione e i meccanismi profondi e ancestrali che si attivano. Da una parte la centralità ebraica, di cui si è detto. Dall'altra l'opposizione reale e dura delle altre religioni, al di là del politically correct. Per i musulmani, in termini teologici e politici, per loro difficilmente distinguibili, la sovranità e l'indipendenza ebraica, tanto più su Gerusalemme, sono semplicemente intollerabili, gli ebrei al massimo possono essere sottomessi. E in termini cristiani pesa ancora l'idea dell'esilio ebraico e della perdita della terra e di Gerusalemme come punizione per il mancato riconoscimento della verità cristiana. Questa idea è presente fin dalle origini e rimane ufficiale fino al XX secolo. In altri termini anche il cristianesimo, con tutte le sue recenti aperture all'ebraismo, non ha del tutto elaborato l'idea della sovranità ebraica, dello Stato di Israele (si parla sempre di ‘terra santa’) e tanto più di Gerusalemme capitale ebraica. Se la reazione alla dichiarazione di Trump è stata così forte e persino viscerale, ciascuno, anche non credente, si interroghi sulle sue motivazioni più o meno inconsce, sull'educazione ricevuta, sulla riluttanza a riconoscere al popolo ebraico i diritti che per altri sarebbero scontati” (R. Di Segni, “Gerusalemme e la centralità ebraica, storica e religiosa”, La Stampa, 9 dicembre 2017, pag. 24).
Una retorica, questa, che oscilla tra il vittimismo e la rivincita, in cui rilevano unicamente motivazioni di carattere confessionale tra religioni: quella islamica, presentata come intollerante per antonomasia, e quella cristiana come la più prevaricatrice. L’autore sostiene che “il putiferio scatenato dalle dichiarazioni del presidente Trump su Gerusalemme non può essere spiegato solo in termini politici”. Forse, però, anche inquadrando la questione nei termini proposti, rischia di rivelarsi un pelo fuorviante e ben lungi dal ricercare quel dialogo, quell’accordo, che difficilmente verrà sostituito senza conseguenze dolorose dall’asserzione unilaterale della presunta superiorità o priorità delle motivazioni apportate da una sola delle parti in causa.
Poco importa, poi, se parte di quello stesso popolo ebraico che vive in Israele riconosca l’assurdità e la pericolosità delle asserzioni USA sulla questione Gerusalemme, come ha fatto ad esempio il Partito comunista di Israele (MAKI, partito egemone nella coalizione della sinistra radicale israeliana, Hadash) che ha annunciato in un comunicato la propria posizione in merito e di avere organizzato nei giorni scorsi delle proteste a Nazareth, a Wadi ‘Ara e sotto l’ambasciata americana a Tel Aviv.
Quello che non va mai dimenticato e che troppo spesso viene sottaciuto ed ignorato, infatti, è il dramma che ormai da decenni vive la popolazione palestinese, relegata a vivere in condizioni degradanti in un fazzoletto di terra, cui viene negato il diritto di autodeterminarsi liberamente, il diritto ad una vita dignitosa, addirittura l’accesso all’acqua, il diritto di avere un futuro al pari degli altri popoli, il diritto di esistere, nella più completa omertà anche da parte di quella comunità internazionale che oggi rifiuta per ragioni di opportunismo la politica estera di Trump. Una popolazione condannata ad una resistenza senza fine e che non ha più altre armi all’infuori di qualche pietra, della denuncia instancabile dei crimini commessi dal sionismo, della solidarietà internazionalistica e, soprattutto, della lotta.
Inaccettabile, dunque, sotto tutti i punti di vista la dichiarazione di Trump, impossibile non scorgere un nuovo tentativo di imposizione e di violenza da parte dell’ alleanza tra imperialismo e sionismo.
Per questo motivo La Città Futura ribadisce con forza il proprio antisionismo e il proprio antimperialismo, in appoggio alla lotta del popolo palestinese che, come dichiara il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [1], sarà l’unico fattore in grado di decidere del destino di Gerusalemme e della sua gente. Viva la resistenza palestinese, viva la giustizia degli oppressi! Come diceva il compianto Vittorio Arrigoni, “restiamo umani”.
Note:
[1] Desideriamo, inoltre, ribadire la nostra più completa solidarietà anche alla compagna Leila Khaled, dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e figura leggendaria della resistenza palestinese, alla quale il 29 novembre scorso è stato negato l’accesso nel territorio italiano dove intendeva recarsi per partecipare ad un evento dedicato ai 50 anni dalla nascita del FPLP.