Nel corso degli ultimi dieci anni, ed in particolare quest’anno, stiamo assistendo ad una perdita di potere e di egemonia dell’imperialismo occidentale, sia sul piano politico internazionale che su quello delle idee. All’attuale sconfitta sul piano militare in Ucraina si aggiunge una perdita progressiva del consenso delle potenze occidentali per la ferocia e la brutalità con cui Israele sta conducendo un vero e proprio genocidio nei confronti della popolazione palestinese; un’iniziativa che ha prodotto un forte movimento di protesta, soprattutto nelle università e tra i giovani di tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti. Questi ultimi due anni di politiche di guerra, a partire dal 24 Febbraio 2022, inoltre, hanno determinato un impoverimento progressivo delle classi popolari, a partire dai lavoratori dipendenti, che ha visto accrescersi ancora di più la forbice sociale nel paese. Il divario tra ricchezza e povertà è ulteriormente cresciuto: gli extra-profitti ricavati nel settore energetico, in quello bancario ed in una parte del settore industriale non sono stati minimamente tassati, mentre la crisi di sovrapproduzione perenne in area euro – con un tasso di crescita che è mediamente inferiore al 2% - determina un costante blocco degli investimenti che produce effetti devastanti sulla disoccupazione e, di conseguenza, sull’offerta di lavoro e sulla dinamica dei salari. Se una parte consistente e crescente dell’opinione pubblica italiana non si riconosce affatto nelle politiche belliciste della classe dirigente, dall’altro lato questa disaffezione non si traduce quasi mai né in conflitto sociale né tantomeno in un progetto politico alternativo forte, di massa, che prefiguri concretamente l’ipotesi di uscita dalla guerra permanente e dall’economia di guerra che ci propongono le élite europee, il Governo Meloni ed il sistema dei media. Non avendo altra via d’uscita dalla crisi di sovrapproduzione se non l’economia di guerra, la classe politica dirigente europea ha cominciato a dichiarare – prima in sordina, poi sempre più esplicitamente – che bisogna convertire l’intera economia del vecchio continente in una economia di guerra. Ciò significa, non solo che gli Stati europei debbono accrescere la percentuale del PIL da destinare alle spese militari, ma anche che il confronto politico-militare con la Russia spetta all’Europa; quindi, a partire dalla Danimarca, si comincia a parlare di leva obbligatoria, maschile e femminile. Crescono esponenzialmente le collaborazioni tra il settore militare, la ricerca e la scuola, come ha dimostrato efficacemente l’osservatorio sulla militarizzazione nelle scuole. Ciò che appare paradossale all’opinione pubblica: “l’accrescimento della politica bellicista a difesa del fortino occidentale ed europeo”, non solo viene richiamato ossessivamente come un dogma ma si sviluppano una serie d’iniziative concrete, materiali, volte ad approfondire sempre di più i legami materiali, concreti, tra la vita economica e civile degli europei con le dinamiche di guerra. La domanda che ci dovremmo porre, a questo punto, la domanda fondamentale, è solo una: perché il peggioramento materiale delle condizioni di vita dei lavoratori italiani, accompagnato ad una perdita d’egemonia culturale dell’ideologia bellicista e suprematista delle classi dirigenti, non produce una significativa riaggregazione sociale e politica dei ceti subalterni tale da far intravedere una fuoriuscita possibile da questo quadro inquietante? Perché quest’orizzonte futuro che ci vedrebbe impegnati in uno scontro totale con Russia, Cina e Terzo Mondo che non ci appassiona per nulla, anzi ci vede sempre più impoveriti ed umiliati sia nelle nostre condizioni materiali che nelle prospettive ideali e di senso, non riesce a produrre un’azione collettiva capace di modificare radicalmente i rapporti di forza nonché, in prospettiva futura, la collocazione dell’Italia a livello internazionale?
Non si tratta di una domanda semplice a cui un singolo soggetto può dare facilmente risposta; possiamo solo provare ad abbozzare delle chiavi di lettura che, con il tempo, e con l’evolversi stesso della realtà sociale, potranno essere approfondite e sviluppate. Il punto da cui mi sento di partire, tuttavia, è piuttosto evidente se si ragiona sull’ideologia dominante in Italia negli ultimi trent’anni: a mio avviso il morbo terribile e fatale dell’ipertrofia dell’Io, dell’esaltazione acritica dell’individuo, del singolo, completamente sganciato dai corpi intermedi, sociali e di classe a cui appartiene, ha infettato tutte le organizzazioni della sinistra, sia sindacali che politiche, sia moderate che radicali, esasperando in tal modo la logica dell’appartenenza, la forma mentis del gruppo o dell’organizzazione a danno della comprensione dei bisogni più profondi della classe che si vuole rappresentare.
Riconoscere che si è parte e non totalità, comprendere che le classi subalterne necessitano di un soggetto credibile che ne rappresenti in termini generali le aspirazioni, e che questo soggetto non può che prodursi come una sintesi di posizioni diverse; e che può nascere solo da un compromesso con componenti piccolo-borghesi è un fatto fondamentale, anzi rappresenta una forma mentis senza la quale è impossibile qualsiasi passo in avanti per una sinistra che si voglia definire anticapitalista e antimperialista in Italia.
Per questo motivo, in questa fase, sosteniamo la lista Pace, Terra e Dignità alle elezioni europee. E’ evidente che dal nostro punto di vista il richiamo generico alla ricerca della pace senza definire un percorso di trasformazione interna dell’economia e della società appare un limite, ma è anche vero che la lista prende le mosse in assenza di conflitto sociale rilevante, dove l’unico elemento significativo su cui c’è stata mobilitazione è stato proprio quello della fine dei bombardamenti, della fuoriuscita di ogni coinvolgimento dell’Italia da questo micidiale genocidio in atto e dall’esasperazione della guerra in Ucraina. Per questo il richiamo generico alla ricerca della pace rappresenta il denominatore comune delle paure di molti italiani che deve essere rappresentato. Il tema del conflitto sociale, in questa fase iniziale della guerra mondiale, è ostacolato proprio dalle logiche della frammentazione, oltre che dall’acuirsi della crisi di sovrapproduzione e dalle dinamiche di fuoriuscita per mezzo della guerra. Abbozzare teoricamente una via d’uscita alternativa, concretamente praticabile, in questo momento, non è una cosa semplice, soprattutto dal punto di vista delle politiche economiche, poiché quest’ultime vanno pensate in un’ottica di uscita dal sistema di blocchi contrapposti architettato e fomentato quotidianamente dall’imperialismo occidentale. Se non si parte da una critica alla guerra, è anche difficile intervenire nel conflitto sociale tentando di orientarne la direzione, favorendone, quando questo si verificherà, le prospettive di allargamento e generalizzazione. Il principale alleato della classe dominante contro l’esplicitarsi di questa prospettiva risiede proprio nell’atomizzazione pulviscolare della classe dominata, ed è proprio questa disorganizzazione che fa apparire le contraddizioni sociali ed economiche prodotte dall’economia di guerra come non prevedibili meccanicamente, ma solo come tendenze presenti potenzialmente dall’economia in crisi; senza la ricostruzione costante e progressiva della soggettività che le interpreta e cerca di accompagnarle ed indirizzarle, senza forzarle solipsisticamente, è estremamente difficile concepire e realizzare una via d’uscita progressiva dalla crisi in Italia.