Il 6 ottobre si è aperta una voragine nel già farraginoso terreno della contrattazione collettiva. L’Ad di Telecom Italia, Flavio Cattaneo, ha liberato tutti i suoi peggiori appetiti, solleticati dalle invitanti ricette del Jobs Act e normative precedenti, come quelle sulle deroghe contrattuali del 2011. Una trattativa aziendale (se cosi si possono ancora chiamare gli incontri di relazioni sindacali) che di aziendale ha ben poco, considerato che tratta temi che spaziano dalla cancellazione dello Statuto dei Lavoratori alle più basilari norme per la tutela dei diritti.
La Telecom Italia, infatti, per voce del suo Responsabile delle Relazioni Sindacali, dott. Miceli, nello stesso incontro ha disdetto il contratto integrativo e contestualmente “proposto” un nuovo accordo aziendale che solo per titoli potremmo riassumere in questi punti: 1) Demansionamento fino a 2 livelli contrattuali con relativa riduzione economica; 2) blocco scatti di anzianità; 3) aumento della quota salariale legato alla produttività; 4) controllo a distanza sia sui sistemi di produzione aziendale sia su sistemi informatici con utilizzo promiscuo (Pc, Web, Mail, Sistemi operativi, ecc) 5) aumento effettivo dell’orario di lavoro 6) erosione in vari punti del salario accessorio, 6) corresponsione di premi salariali legati alla produttività individuale (cottimo).
L’enorme attacco al costo del lavoro porterà sicuramente a scatenare il dumping in tutto il settore e non passerà inosservato in tutta Confindustria una volta trovato l’accordo sindacale, qualora si trovi qualche organizzazione sindacale disposta a condividerlo.
Anche perché, teoricamente, per approdare a certi devastanti risultati sarebbe necessario un CCNL rinnovato che abbia individuato specificatamente i punti contrattuali sui quali è possibile derogare negli accordi di II livello. Pertanto, nelle TLC, dove la discussione sul rinnovo del CCNL è appena iniziata ed è tutt’altro che vicina alla conclusione, parrebbe strano la più grande azienda del settore si sia spinta cosi oltre e con l’intimazione a concludere la trattativa in 15 giorni, dimostrando una voracità pari solo alla ferocia.
Ma forse, tanto strano non è. Confindustria da tempo sta spingendo per la distruzione del CCNL a favore di accordi aziendali che liberino le mani aziendali dalle diverse esigenze di organizzazione del lavoro a favore di un cospicuo abbattimento del costo di esso, e scompongano definitivamente le vertenze disarticolando completamente i punti comuni di ogni lavoratore dipendente. Il fatto stesso che un colosso come Telecom Italia forzi tempi e leggi per ottenere questo risultato è la conferma della solita politica confindustriale degli ultimi 30 anni. Imporre prima, nei fatti, uno status e poi certificarlo normativamente ex post. Non è un caso che la riforma costituzionale che Renzi e i suoi compari vogliono imporre, porterebbe ad un irrigidimento del dibattito parlamentare per agevolare le desiderata padronali più velocemente.
Per questi motivi, non solo è necessario contrastare con ogni mezzo il disegno di Confindustria sulle trincee del fronte aziendale o settoriale che sia, ma è indispensabile comprendere come ogni singola vertenza non è né scollegata dal quadro complessivo né può essere trattata come una specificità.
Come telecomunicazioni lo sforzo necessario sarà quello di costruire una mobilitazione immediatamente di settore, traducendo quanto accade in Telecom come contraltare di quanto sta accadendo in Almaviva con la chiusura di due sedi (Roma e Napoli) e la messa in strada di migliaia di lavoratori. Motivo scatenante per la proprietà di Almaviva è stato il costo troppo alto del lavoro per un call center in quanto i dipendenti non hanno accettato la proposta di controllo a distanza formulata mesi fa. Guarda caso, una richiesta riproposta da Telecom nell’accordo di cui sopra. Oppure chiamando a scendere insieme in piazza i lavoratori di WIND e VODAFONE prossimi bersagli di un concorrente che non vorrà farsi sfuggire l’occasione creata dalla voragine TELECOM.
In ogni caso tutto ciò potrà servire soltanto ad accendere la miccia, perché senza una reale ed efficace mobilitazione di tutti i lavoratori (occupati, atipici, pensionati, disoccupati, ecc) non riusciremo a rigettare i piani padronali. Abbiamo necessità di un’opposizione che costringa alla cancellazione delle Leggi come il Jobs Act, ma anche di una riforma che restituisca il diritto e la sostenibilità della pensione che con l’ennesima proposta dell’APE vengono negati entrambi.
Questa opposizione non può che partire dalla reciproca riconoscibilità dei soggetti sociali e sindacali disposti realmente a crearla, maturando come obiettivo imprescindibile l’abbattimento di questa politica che vede il costo del lavoro un mero intralcio, i diritti solo degli ostacoli alla produttività e la crescita del profitto come unico orizzonte a scapito di tutto quanto abbiamo costruito e conquistato in 70 anni di Repubblica e altrettanti di conflitti.
Intendiamo per questo sottolineare la necessità di organizzare una dura vertenza contro questa proposta di Telecom Italia, un invito non più procrastinabile alla realizzazione di questa vasta e determinata opposizione, perché siamo certi che un Cda composto da capitale francese, banche italiane e palazzinari romani non provi una fuga in avanti se non strettamente concertata su un piano strategico più complessivo. L’attacco condotto da Telecom Italia, infatti, non è riducibile alla linea di condotta di un solo Management Industriale ma un vero tentativo di cui Telecom si rende punta di lancia nelle ultime sacche di lavoro della grande industria, inquadrato con CCNL, per renderlo vulnerabile e malleabile come il nuovo lavoro salariato dominato dal Jobs Act.
Senza contare, e lo ripetiamo da tempo, che misure che mirano alla sola riduzione dei costi lineari e all’incremento mera produttività individuale teorica stanno invizzendo un’azienda che non investe in strutture, impianti e formazione professionale da anni e che è totalmente priva di un piano industriale. Tale inaridimento non costerà solo migliaia di posti di lavoro nel perimetro aziendale e nell’indotto che questo gruppo muove, ma trasversalmente in molti settori che pagano un gap tecnologico inarrivabile senza un cospicuo investimento nelle infrastrutture di telecomunicazioni. Investimento che non può essere solo pensato in termini direttamente remunerativi come sta propagandando l’azienda a fronte di un piano di sviluppo fibra che ha non poche difficoltà a marciare, ma sarebbe dovere di uno Stato garantire direttamente o indirettamente la copertura di una rete di telecomunicazioni all’altezza del 2016. Invece, il Governo, più volte sollecitato anche da diversi disegni di legge e dalle parole d’ordine delle nostre mobilitazioni da almeno 15 anni, sta garantendo la totale e incondizionata libertà delle Aziende di fare delle nostre vite ciò che vogliono.
Se tutto ciò lo riteniamo inaccettabile: mandiamo a casa il Governo, respingiamo i piani aziendali!