Dall’esecutivo scaturito dalla folle estate (dalla Repubblica del Papeete al consolidamento dell’asse euro-quirinalizio), con un tratto sostanzialmente neo-conservatore e neo-centrista, che manovra finanziaria ci si può aspettare? Il documento di Economia e Finanza che l’esecutivo penta-dem(ocrisitiano) ha varato e che delinea i caratteri della prossima Legge di bilancio da portare nelle aule per i passaggi parlamentari è una manovra senza paradigmi, o piuttosto incardinata sulle compatibilità di sistema, ma elargendo qualche “mancetta” verso alcuni settori più sofferenti della popolazione.
La cifra neo-centrista dell’esecutivo è chiara: frutto di quell'accordo tra PPE e PSE (su cui c'è stata la convergenza dei 5 Stelle) che ha portato alla Presidenza della Commissione Europea Ursula von der Leyen, è in sostanziale continuità con la grosse koalition popolar-socialista responsabile delle politiche di austerity e di tagli alla spesa pubblica, a servizi sociali, sanità, istruzione, pensioni che per un paio di decenni ha funestato i popoli dell’Unione Europea, a partire dai greci. Al momento, a parte qualche promessa a mezza bocca di una maggiore attenzione e di una (limitata) flessibilità (garante il neo-commissario Gentiloni), non è stato neppure preso in considerazione che i parametri coercitivi della Commissione vengano ripensati: perciò, non ci possiamo aspettare dalla Legge di Bilancio per il 2020 nient’altro che qualche contenuta elargizione, ma nessun provvedimento che ripristini diritti e servizi massacrati dai governi degli ultimi venti anni.
La discontinuità pretesa da Zingaretti, dunque, non è stata che un elemento di propaganda: definire il governo penta-dem “il governo più a sinistra della storia della Repubblica” è un paradosso o una mistificazione che mira a rimuovere definitivamente qualsiasi opzione alternativa ai paradigmi neoliberisti. La rappresentazione cromatica giallo-rossa è una forma di mistificazione che nasconde la reale natura dell’esecutivo (ancora più accentuata dall’avventura renziana): neo-conservatore e liberista, sia pure con qualche mitigazione.
È chiaro che chiunque abbia una minima sensibilità democratica ha tirato un respiro di sollievo per la grottesca autoesclusione di Salvini dal posto di comando: non ripercorriamo le vicende di questa estate, ma certamente Capitan Maciste si è mosso maldestramente, correndo (inconsapevolmente?) verso un trappolone istituzionale in cui si è gettato con spirito autolesionistico. Il nuovo corso del bis-Conte è venuto da sé, tra mille contraddizioni annunciate, ma alla fine risolte in una impropria alleanza tra un movimento senza ideologia (e perciò perfettamente in grado di interpretare lo spirito popolano e antipolitico di gran parte della popolazione italiana) e un partito sostanzialmente liberal-democratico (che dunque può essere considerato di sinistra solo in un quadro politico dominato esclusivamente dalla borghesia). Gli interessi che difende il PD sono infatti quelli della grande borghesia imprenditoriale e finanziaria, che ambisce a collocarsi in uno scenario sovranazionale europeo per essere competitiva e mantenere i privilegi erosi da una crisi più che trentennale, acutizzatasi tra fine XX e inizio XXI secolo, e che è stata la giustificazione per il più grande attacco ai diritti sociali e del lavoro dalla seconda metà del Novecento; sul piano dei diritti civili invece il PD rappresenta (timidamente) le istanze di nuovi diritti civili radicali.
Tra un movimento populista, rabbioso e giustizialista e un partito liberal-democratico, per anni bersaglio dei 5S e che rappresenta la sinistra liberal sul piano dei diritti civili e le istanze liberiste su dimensione sovranazionale su quello delle politiche economico-sociali, non può che nascere un esecutivo dai tratti propagandistici e con un profilo centrista neo-conservatore. Il senso del pubblico che i pentastellati esprimono è superficiale e fragile, con una visione fortemente interclassista (vedi l'elargizione del reddito di cittadinanza).
La manovra economica che ne scaturirà ha perciò il tratto della compatibilità: archiviata (momentaneamente) la propaganda sovranista, il governo sta costruendo un quadro di provvedimenti che incarna il liberalismo nella sua essenza temperata. La manovra del bis-Conte ha una linea economico-sociale che non ha niente di espansivo, né di sinistra: non tocca minimamente i capisaldi del sistema dell’austerity e di un sistema di concorrenza tra pubblico e privato, non ripristina alcun elemento di difesa e dignità del lavoro, non ripristina servizi che sono stati via via cancellati (sanità, istruzione, previdenza, trasporti) ma elargisce qualche mancia verso alcune categorie di lavoratori con una decompressione del peso fiscale rispetto al lavoro dipendente, introduce alcune agevolazioni per le detrazioni, l'eliminazione di spese mediche (i cosiddetti superticket) in un regime di tagli complessivi alla sanità che non vengono minimamente recuperati.
La “manovra qualunque” del governo “senza qualità” affronta il problema della crisi economica delle fasce più povere o impoveritesi della popolazione con qualche ritocco sul cosiddetto “cuneo fiscale”: le imprese pagheranno meno contributi e tasse sul lavoro, che i dipendenti si troveranno in parte in busta paga, ma non c’è alcun provvedimento sui grandi patrimoni e sulle rendite. La cosiddetta “patrimoniale” – che dovrebbe essere fortemente progressiva secondo la Costituzione – non è avvistabile. Un provvedimento non dico bolscevico, ma di impostazione riformista e socialdemocratica, non è all’ordine del giorno: cosa dovrebbe dunque contraddistinguerlo come un governo di sinistra?
Li abbiamo citati, ma ribadiamo: non ci sono nuovi investimenti per la sanità o per l’istruzione, se non con il contagocce, non è minimamente messo in discussione il provvedimento più chiaramente di destra dei governi dell’epoca renziana (il Jobs Act, la manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori), non c’è traccia di una riforma profonda della controriforma Fornero sulle pensioni (una cura palliativa l’aveva fatta introdurre in chiave propagandistica la Lega nel precedente esecutivo), non c’è traccia di una diminuzione delle spese militari. Questi provvedimenti sono privi di criteri anche solo parzialmente “di sinistra”: è una manovra finanziaria improntata a rimediare con qualche cerotto la devastazione di cui è stato oggetto in questi anni lo Stato sociale, con un trasferimento massiccio di risorse da salari, pensioni (salario differito), servizi (salario indiretto) ai profitti, accentuati dalla fuga di capitali dall’economia produttiva (in crisi da sovrapproduzione trentennale) verso la finanza tossica (altrettanto in crisi, come dimostrano i ripetuti crolli di bolle speculative nel sistema finanziario che fa capo alle potenze imperialiste occidentali).
Il sistema liberista, che non è altro se non la faccia più selvaggia, mostruosa e perversa, del capitalismo: imperniato sulla difesa ad oltranza degli interessi della proprietà privata e del libero mercato, nonché sul disimpegno dello Stato dal governo dell’economia e della società, ha come corollario l’austerità. La spesa eccessiva, che la propaganda liberista imputa agli Stati per gli interventi nel sociale, o la concorrenza sleale per il sostegno statale a imprese private, pubbliche o partecipate sono considerazioni che nascono da una concezione fondata sul profitto come logica economica e sull’individualismo come logica sociale. Il liberismo impone infatti che si abbatta qualunque forma diretta di intervento pubblico (sia sul piano sociale che economico) eliminando i monopoli dei servizi che devono essere fondati sui principi di sussidiarietà (dove non arriva il pubblico, arriva il privato) e di concorrenza che produrrebbero maggiore qualità dei servizi stessi (è dimostrato invece dopo anni di esternalizzazioni che non è vero che costino meno, né che siano più efficienti). Salvo poi pagare ogni anno oltre sessanta miliardi di euro (a seconda dello spread…) per gli interessi dei titoli di Stato a privati nazionali ed esteri, a banche e agenzie finanziarie. Niente di tutto questo viene intaccato dalla Legge di Bilancio del bis-Conte.
Tornando alla manovra finanziaria: l’attuale esecutivo è nato sostanzialmente con l’obiettivo prioritario di sterilizzare l’aumento dell’IVA e costruire nuovi scenari politici, con alleanze spurie tra PD e M5S che si vanno configurando per impedire il dilagare del centrodestra nei prossimi appuntamenti elettorali (regionali). Entrambi gli obiettivi appaiono di difficile realizzazione, tanto che è stato imputato a Salvini e alla Lega un diabolico piano per rinunciare a governare questa fase per l'impossibilità conclamata di mantenere le promesse soprattutto sulle tasse: la flat-tax, così come immaginata da Salvini, sarebbe stata impraticabile, oppure avrebbe portato a due scenari non gestibili. Da una parte, avrebbe potuto provocare la reazione della Commissione europea con conseguente probabile (anzi quasi certa procedura d’infrazione); dall’altra, un pesante impoverimento sociale dovuto alla diminuzione del gettito fiscale dai redditi più alti con conseguenti tagli verticali a sanità, istruzione, previdenza, che avrebbe provocato l’emergere di uno scenario analogo a quello che possiamo vedere in questi giorni in Cile. Provvedimenti che avrebbero accentuato le disparità di ricchezza e gettato nel baratro (ancor più di quanto non accada adesso) le masse popolari: settori di classi lavoratrici della manifattura, strati intellettuali e cognitivi della ricerca istruzione formazione - ex ceto medio impoverito.
I dati generali parlano chiaro: in un rapporto Eurostat di qualche mese fa si evidenzia che un quarto del reddito nazionale va ad un decimo degli italiani, mentre sedici milioni e mezzo di persone sono sotto la soglia della povertà; inoltre, da un ulteriore rapporto INPS sulla distribuzione della ricchezza, si scopre come essa sia concentrata nelle mani dello 0,1% della popolazione, e sia dislocata prevalentemente nelle aree urbane del nord Italia, soprattutto a Milano. Questi due dati evidenziano che continua ad accentuarsi il divario della ricchezza tra classi sociali, e soprattutto chiariscono chi avrebbe tutti i vantaggi dalla regionalizzazione, o autonomia differenziata, definita giustamente la “secessione dei ricchi”. Non si capisce dunque quale argomento “di sinistra” potrebbe essere utilizzato da questa alleanza, visto che nel governo Conte ci sono noti esponenti del PD (Boccia) che spingono per proseguire su questa strada.
L’effetto complessivo sarà dunque, ancora una volta, l’aumento esponenziale delle disparità economiche, dunque sociali, tra le classi. Il cambiamento di paradigma che ha prodotto la svolta liberista e lo smantellamento dei servizi è l’unica reale e devastante discontinuità prodottasi in questi decenni, con le conseguenze di un impoverimento di massa, della concentrazione della ricchezza in un sempre più esiguo strato di persone, della crisi più devastante dalla Grande Depressione del 1929.
L’unico cambiamento possibile, che non sia completamente appiattito su una concezione di pseudo-sinistra paralizzata nel simulacro della governance, cioè dalla pura tecnica di gestione dell’esistente, o dal potere personale di singoli individui (come Conte, che si candida a interpretare la figura di stabilizzatore), è rovesciare il paradigma neoliberista, e con esso attaccare i fondamenti del sistema capitalistico stesso. Non è più sufficiente un riformismo pallido, incapace di scardinare i perni del liberismo: le crisi che si vanno annunciando, e che le rivolte in tutto il mondo annunciano come messaggeri di sconvolgimenti sociali e politici, non possono più essere affrontate con blande soluzioni palliative, ma occorre che nasca un movimento popolare, di classe, che si ponga l’obiettivo di abbattere l’ormai logoro sistema di potere delle élite nazionali ed europee.
Occorre lavorare per unificare il fronte anticapitalista e comunista, sottraendosi all’attrazione centrista che il nuovo corso dell’alleanza senza qualità PD-M5S sta esercitando su pezzi della cosiddetta “sinistra alternativa”, con l’obiettivo di evitare che le crisi provochino un ulteriore inasprimento di razzismo e xenofobia nei ceti popolari, e una deriva sempre più accentuata verso forze politiche che aggraverebbero le condizioni delle classi popolari con politiche ferocemente liberiste (vantaggiose per le piccole e medie imprese: libertà di licenziamento, abbattimento delle tasse, compressione dei salari…).