Da quando – attorno alla metà degli anni ’90 – la produttività del lavoro in Italia ha cominciato a stagnare, le ore di lavoro hanno preso ad aumentare. Le politiche del lavoro che, grazie all’aumentata flessibilità, hanno ridotto le garanzie dei lavoratori, non solo non hanno fatto crescere la produttività, ma hanno contribuito a frenarla.
Se si confronta il tasso di crescita del reddito pro-capite di un paese con i dati relativi a un periodo precedente e con quelli di altri paesi, si possono scoprire diversi elementi interessanti.
Tav. 1 Dinamica del reddito, della produttività e delle ore lavorate (dati: GGDC [1])
Reddito pro-capite (variazione) |
Produttività oraria (variazione) |
Ore lavorate pro-capite (variazione) |
||||
1970-1995 |
1995-2006 |
1970-1995 |
1995-2006 |
1970-1995 |
1995-2006 |
|
Francia |
1.9 |
1.7 |
3 |
1.8 |
-1.1 |
-0.2 |
Germania |
1.9 |
1.3 |
2.9 |
1.7 |
-0.9 |
-0.3 |
Italia |
2.3 |
1.2 |
2.7 |
0.4 |
-0.4 |
0.7 |
In primo luogo, ci si rende conto che in tutti e tre i paesi europei scelti per questo confronto, anche se a livelli diversi (la tendenza è molto più accentuata nel caso dell'Italia), la dinamica è la medesima: diminuisce il tasso di crescita del reddito pro-capite, cala il ritmo della produttività, aumentano (o rallenta il ritmo della loro diminuzione) le ore lavorate pro-capite. Tutto questo prima dell’ultima crisi.
Tav. 2 Scomposizione dei tassi di crescita del reddito pro-capite (Italia, 1970-2004)
Fonte: Daveri F., C. Jona-Lasinio (2005)
Tassi di crescita del reddito pro-capite |
Di cui dovuti alla variazione della produttività per ora lavorata |
Di cui dovuti alla variazione delle ore lavorate per persona in età lavorativa |
Di cui dovuti alla quota della Popolazione in età lavorativa sul totale |
|
1970-80 |
3,1 |
3,9 |
-0,8 |
0 |
1980-95 |
1,8 |
2,1 |
-0,7 |
0,4 |
1995-04 |
1,3 |
0,5 |
1 |
-0,2 |
Se prescindiamo dai cambiamenti avvenuti nella demografia [2], possiamo concentrarci sui due fattori economici principali da cui dipende la crescita del prodotto-reddito: l’efficienza con cui i fattori vengono utilizzati (produttività) e l’intensità del loro utilizzo. Si osserva così come la produttività (misurata per ora lavorata), che ha rappresentato nei decenni passati l’elemento più significativo nel determinare la crescita economica, abbia perso nel tempo gran parte del suo peso relativo, parallelamente all’aumento del ruolo delle ore lavorate che è in grado di spiegare i 3/4 della – diminuita – crescita economica dell’Italia nell’ultimo periodo considerato.
Figg. 1 e 2 Produttività del lavoro e ore lavorate (1970-2015) fonte: T. Piketty [3]
In Italia, così come nel Regno Unito, la produttività del lavoro smette di crescere a partire dalla metà degli anni ’90; da allora un’ora di lavoro continua a ‘rendere’ (al padrone) poco più di 40euro. Nonostante l’arresto della produttività, il reddito-prodotto non smette di crescere, almeno fino alla crisi del 2007: sono le ore di lavoro che aumentano, in Italia, nel Regno Unito e negli USA, mentre continuano a diminuire in Germania e in Francia.
Come interpretare questi dati? Che relazione esiste tra produttività e tempo di lavoro? I dati disponibili sull’andamento dell’economia sono indispensabili all’analisi scientifica, ma non sono sufficienti a studiare un fenomeno se non si inseriscono nel quadro interpretativo almeno alcuni elementi di carattere ‘politico- istituzionale’ e se non si chiarisce la prospettiva teorica da cui li si analizza.
Per quanto riguarda l’economia europea, i cambiamenti più rilevanti verificatisi a partire dagli anni ’80 e con maggiore intensità durante il decennio successivo hanno interessato i mercati del lavoro, con una serie di ‘riforme’ [4] che, con l’obiettivo dichiarato di ridurre le rigidità, trovano la propria ispirazione nella Jobs Strategy lanciata dall’OECD nel 1994 e poi nell'Agenda di Lisbona varata dal Consiglio europeo nel 2000. Senza entrare nel dettaglio dei risultati ottenuti dalle varie ‘riforme’, interessa qui sottolineare un aspetto che potrebbe apparire sorprendente, ossia la correlazione negativa tra aumentata flessibilità del mercato del lavoro e produttività. E’ proprio l’OECD, ossia una delle istituzioni ispiratrici della necessità di ridurre le ‘rigidità’ dei mercati del lavoro, a sottolineare l’esistenza di una relazione statistica inversa tra flessibilità e produttività [5].
Tav. 3 Indici di protezione del lavoro (EPL), flessibilità, produttività in Italia dati: Jona-Lasinio, Vallanti (2011)
EPL nel caso di contratti a termine |
Quota dei contratti a termine sul totale |
Produttività del lavoro |
|
1987-1992 |
5.4 |
5.9 |
9.4 |
1993-2000 |
4.6 |
8 |
7.7 |
2001-2007 |
2 |
11.6 |
0.6 |
Plusvalore e lavoro necessario
In uno studio dedicato all’economia italiana, Jona-Lasinio e Vallanti [6] confermano l’esistenza di una correlazione negativa tra ‘riforme’ e produttività, sottolineando come la dinamica della produttività cominci a declinare proprio quando vengono portate a termine le ‘riforme’ del mercato del lavoro. Più si diffondono i contratti a termine, più diminuisce la protezione del lavoro, meno cresce la sua produttività.
Ma, se questi sono i dati, quali sono le cause del fenomeno, che relazione esiste tra produttività, durata e intensità del lavoro?
Gli economisti classici, Marx soprattutto, costituiscono ancora un riferimento utile riguardo al modello interpretativo e particolarmente alle categorie analitiche da adoperare. Per Marx, e per chi ne condivide la prospettiva, al centro dell’analisi stanno le categorie di valore e plusvalore. La massa di plusvalore, in particolare, è determinata dal prodotto tra la forza-lavoro occupata e il suo grado di sfruttamento, o saggio di plusvalore; normalmente si misura la quantità di lavoro facendo riferimento al numero di lavoratori occupati, tuttavia è possibile considerare alternativamente le ore di lavoro, e questa notazione apparirà utile più avanti.
Il tempo di lavoro, ossia la giornata lavorativa, è astrattamente scomponibile in due parti diverse, di cui una, definita da Marx lavoro necessario, corrisponde alle ore in cui gli operai producono merci per un valore pari a quello che occorre per acquistare quanto è necessario alla riproduzione della propria forza-lavoro; in questa parte della giornata lavorativa, è come se i lavoratori riproducessero, sotto forma di merci diverse, il valore del proprio salario. Nel resto del tempo gli operai effettuano pluslavoro, cioè lavoro non retribuito, il cui frutto appartiene a chi detiene il diritto di proprietà sulla vendita della produzione.
I capitalisti considerano il plusvalore-profitto come la parte più importante del valore delle merci, e per questo motivo il lavoro necessario, cioè quanto si lavora e per quale salario, dipende dal plusvalore che i capitalisti possono estorcere agli operai. A motivare l’attività delle imprese non è il valore delle merci prodotte, bensì il profitto che si può ricavare dalla loro vendita, sicché dal punto di vista logico è il plusvalore il punto di riferimento per determinare la quota di lavoro necessario. Le imprese motivate dal profitto producono merci e servizi assumendo o licenziando lavoratori, modificando la durata e la velocità del lavoro, nella misura in cui questo sia funzionale o meno all’obiettivo di rendere massimi, o almeno soddisfacenti, i profitti.
Nei Lineamenti fondamentali [7] Marx aveva chiarito che “il capitale costringe i lavoratori a superare il limite del lavoro necessario per effettuare un pluslavoro. Solo così esso si valorizza e crea plusvalore [..] Se per caso il capitalista non ha bisogno del suo pluslavoro, egli [il lavoratore] non può effettuare il suo lavoro necessario. La forza-lavoro può eseguire il suo lavoro necessario solo se il suo pluslavoro ha un valore per il capitale, se cioè è valorizzabile per il capitale. Quando questa possibilità di valorizzazione è impedita da un ostacolo qualsiasi, la forza-lavoro stessa si presenta al di fuori delle condizioni di riproduzione della sua esistenza; il lavoro necessario si presenta come superfluo, perché quello superfluo non è necessario [..] Nella produzione basata sul capitale l’esistenza del tempo di lavoro necessario è condizionata dalla creazione di tempo di lavoro superfluo”.
Plusvalore assoluto e plusvalore relativo
Nella parte centrale del I libro del Capitale, Marx analizza i due diversi modi in cui il plusvalore, la necessaria forma monetaria assunta dal pluslavoro, può aumentare. Il primo, piuttosto primitivo, consiste nell’allungamento della giornata lavorativa ed è tipico delle fasi dell’accumulazione capitalistica di un paese in cui la tecnologia non è particolarmente sviluppata. Se il tempo di lavoro necessario a riprodurre le merci che corrispondono al valore della forza-lavoro non varia, allungare la giornata lavorativa corrisponde ad aumentarne la parte di lavoro superfluo. La quota di pluslavoro su quella di lavoro necessaria può aumentare senza che ci sia necessariamente bisogno di comprimere quest’ultima: basta aumentare la durata del tempo di lavoro complessivo; questo metodo ha un limite evidente, e coincide con la durata finita della giornata lavorativa oltre che con la capacità di resistenza dei lavoratori.
Per questo motivo, Marx introduce nell’analisi un altro fattore, assai più potente e che si riteneva potesse disporre di una potenza pressoché ‘infinita’: le innovazioni tecnologiche, il progresso tecnico capace, aumentando la forza produttiva del lavoro, di far crescere i sistemi economici, dotandoli di una elasticità che è sembrata per un lungo periodo di tempo senza limiti. Se le innovazioni tecnologiche vengono introdotte in un settore che produce beni-salario, ossia merci che entrano nel paniere di sussistenza dei lavoratori, la maggiore forza produttiva del lavoro consentirà di produrre la stessa quantità di merci di prima in un tempo minore; dal momento che il valore di queste - come di tutte le altre – merci dipende dal tempo di lavoro necessario a produrle, una diminuzione del tempo di lavoro comporta una riduzione nel valore di queste merci; in questo modo, senza che si allunghi la giornata lavorativa, si riduce il tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro e aumenta di conseguenza il tempo di pluslavoro e dunque il plusvalore.
“Chiamo plusvalore assoluto il plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa; invece chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario e dal corrispondente cambiamento nel rapporto di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa”[8]. Ma che relazione sussiste tra plusvalore assoluto e plusvalore relativo? E, soprattutto, in che modo i guadagni di produttività si possono riflettere in aumento del valore e dunque in crescita economica?
Produttività e tempo di lavoro
Nell’analisi svolta nel 13° capitolo del I volume del Capitale, dedicato al ruolo del macchinario, Marx collega l’aumento della produttività reso possibile dall’introduzione di un nuovo macchinario alla durata della giornata lavorativa, distinguendo una prima fase in cui, considerando gli extra-profitti che derivano dal godere di un seppur temporaneo monopolio da innovazione, i capitalisti cercano di prolungare il più possibile la durata della giornata lavorativa. In fin dei conti, se il valore dipende dal tempo di lavoro, un’ora di lavoro vale sempre un’ora di lavoro e la forza-lavoro, per quanto produttiva possa essere, non può creare più valore in un’ora ma solo una maggiore quantità di merci, un maggiore valore d’uso.
Sostituire lavoratori con macchinario fa crescere la forza produttiva di chi lavora, ma “è impossibile spremere da due operai il plusvalore ch l’aumento e si spreme da ventiquattro”: la produttività fa crescere il saggio di plusvalore ma solo diminuendo il numero complessivo degli operai. “Questa contraddizione immanente si manifesta chiaramente non ap l’aumento pena con l’introduzione generale del macchinario in un ramo dell’industria il valore della merce prodotta con le macchine diventa il valore sociale normativo di tutte le merci dello stesso genere, ed è questa contraddizione che spinge a sua volta il capitale, senza che ne sia cosciente, al più violento prolungamento della giornata lavorativa per compensare la diminuzione del numero relativo degli operai sfruttati mediante l’aumento non solo del plusvalore relativo ma anche di quello assoluto” [10].
Va a questo proposito tenuto presente come, nonostante l’elevato livello di astrazione tipico dell’analisi svolta nel I volume del Capitale, Marx non ignora (si tratta di un eufemismo, intendo che non solo ne tiene conto, ma ne scrive espressamente) che la concreta lotta di classe nei decenni in cui scrive riguarda proprio la durata della giornata lavorativa, sicché la successione cronologica che riferisce è quella verificatasi nell’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento.
Posto che il valore delle merci dipende dal tempo di lavoro in cui un determinato numero di operai produce una determinata quantità di merce, se – grazie alle innovazioni tecnologiche – il numero di operai al lavoro è ridotto, anche il valore della singola merce è ridotto in proporzione e allora, perché il plusvalore-profitto possa aumentare, non resta che aumentare le ore di lavoro. Ma tutto ciò solo se il tempo di produzione viene considerato unicamente in relazione alla sua durata, cioè se non si tiene conto di quello che accade, per effetto delle innovazioni tecnologiche, all’altra dimensione tipica delle ore di lavoro, la loro intensità.
Durata e intensità
Se non cambiasse l’intensità con cui si svolge il lavoro, la relazione tra produttività e orario di lavoro si potrebbe descrivere così: l’aumento della produttività consente – e in parte produce effettivamente – una relativa “liberazione” del lavoro: puoi “liberare” dal lavoro, ossia rendere eccedente, una parte della forza-lavoro precedentemente occupata in settori o lavori a bassa produttività, e in questo caso devi necessariamente compensare il calo relativo di occupazione con orari più lunghi, ma è a questo punto che interviene un’altra relazione contraddittoria: quella tra durata del lavoro e sua intensità.
Ancora Marx: “il prolungamento smisurato della giornata lavorativa prodotto dal macchinario nelle mani del capitale porta con sé in un secondo tempo [...] una giornata lavorativa normale limitata legalmente. [...] Durante mezzo secolo il prolungamento della giornata lavorativa procede in Inghilterra di pari passo con la crescente intensità del lavoro di fabbrica. Ma si capisce [...] che si deve giungere a un punto cruciale in cui l’estensione della giornata lavorativa e l’intensità del lavoro si escludono a vicenda cosicché il prolungamento della giornata lavorativa resta compatibile solo con un grado più debole di intensità del lavoro e, viceversa, un grado accresciuto di intensità resta compatibile solo con un accorciamento della giornata lavorativa” [11].
Dopo poche righe, sempre nello stesso capitolo 13, Marx continua: “Appena la ribellione della classe operaia, a mano a mano più ampia, ebbe costretto lo Stato ad abbreviare con la forza il tempo di lavoro e a imporre anzitutto una giornata lavorativa normale alla fabbrica propriamente detta, da quel momento dunque in cui un aumento della produzione di plusvalore mediante il prolungamento della giornata lavorativa fu precluso una volta per tutte, il capitale si gettò a tutta forza e con piena consapevolezza sulla produzione di plusvalore relativo mediante un accelerato sviluppo del sistema delle macchine. Allo stesso tempo subentra un cambiamento nel carattere del plusvalore relativo. Generalmente il metodo di produzione del plusvalore relativo consiste nel mettere l’operaio in grado di produrre di più con lo stesso dispendio di lavoro e nello stesso tempo mediante l’aumento della forza produttiva del lavoro. Lo stesso tempo di lavoro aggiunge al prodotto complessivo lo stesso valore di prima, benché questo valore di scambio inalterato si rappresenti ora in più valori d’uso e benché quindi cali il valore della merce singola. Diversamente stanno però le cose non appena l’accorciamento forzato della giornata lavorativa, con l’enorme impulso che dà allo sviluppo della forza produttiva e all’economizzazione delle condizioni di produzione, impone all’operaio un maggiore dispendio di lavoro in tempo invariato, una tensione più alta della forza-lavoro, un più fitto riempimento dei pori del tempo di lavoro, cioè una condensazione del lavoro a un grado che si può raggiungere solo entro i limiti della giornata lavorativa accorciata. Questo comprimere una massa maggiore di lavoro entro un dato periodo di tempo conta ora per quello che è, cioè per una maggiore quantità di lavoro. A fianco della misura del lavoro quale grandezza estesa si presenta ora la misura del suo grado di condensazione. Adesso, l’ora più intensa della giornata lavorativa di dieci ore contiene tanto lavoro ossia forza-lavoro spesa quanto l’ora più porosa della giornata lavorativa di dodici ore, o anche di più. Il suo prodotto ha quindi lo stesso valore o un valore maggiore di quello dell’ora e un quinto più porosi” [12]. Citazione lunga, ma necessaria a chiarire tre questioni.
La prima è che, oltre un certo limite, allungare la giornata lavorativa limita la massima intensità di lavoro possibile; in altre parole, tra durata del lavoro e sua intensità sussiste una relazione di tipo inverso: quando le ore di lavoro aumentano, si riduce la possibilità di estrarne una maggiore intensità. Per aumentare il grado di condensazione del lavoro è necessario ridurne la durata, ed è questa la tendenza che, per un lungo periodo di tempo, è stato possibile registrare anche nel capitalismo contemporaneo, almeno fino a un certo punto.
La seconda – più radicata teoricamente – è che le innovazioni tecnologiche producono aumenti della produttività che – a parità di intensità di lavoro – hanno l’effetto di ridurre il tempo di lavoro necessario per unità prodotta e dunque il valore e infine, attraverso la mediazione del mercato, il prezzo. Se una merce prodotta da una impresa che innova viene realizzata in meno tempo, vale di meno e dunque la si potrebbe vendere a un prezzo più basso di quello dei concorrenti che non hanno ancora innovato, almeno fino a quando le condizioni generali della produzione non saranno variate mediamente per tutto il settore. In questo caso i maggiori profitti realizzati dall’innovatore equivalgono a quelli sottratti alla concorrenza ma, di per sé, non c’è alcun vantaggio per l’economia nel suo complesso, solo una diversa ripartizione del plusvalore. La produttività comporta un effettivo aumento di valore delle merci prodotte solo se, a parità di ore, essa si traduce in una diversa organizzazione del lavoro in cui il tempo di lavoro diventa meno poroso, più condensato, con meno pause e ritmi più intensi. Così, la ricchezza complessiva può crescere solo come effetto indiretto della produttività, cioè se la giornata lavorativa – ridotta come durata – aumenta di intensità. A questo riguardo viene da porsi la seconda domanda: i limiti che Marx individua a proposito dell’impossibilità di estendere la giornata lavorativa oltre un certo limite (diciamo il margine estensivo dell’aumento di plusvalore, il limite della durata) esistono anche per quanto riguarda l’intensificazione del lavoro o questa tendenza non incontrerebbe ostacoli?
È certamente possibile – ma solo a patto di ridurre notevolmente la durata – condensare al massimo grado la singola ora di lavoro, per esempio intensificando il controllo su ogni singolo movimento dei lavoratori [13], ma non incontrerebbe anche il margine intensivo limiti sociali e fisici, oltre i quali diventa impossibile estrarre plusvalore?
Da qui la terza questione: il movimento storico a cui si riferisce Marx nel Capitale, ossia la dinamica innovazioni – aumento della giornata lavorativa – sua riduzione – aumento dell’intensità di lavoro, è da considerarsi come un unicum storico, come una tendenza generale, o come un susseguirsi di cicli che si ripetono, seppure con scansioni temporali diverse e con effetti via via minori, anche nel capitalismo contemporaneo?
E dunque che cosa succede quando si avvicina il limite della massima intensità di lavoro possibile, sicché le innovazioni tecnologiche non riescono – via produttività – a far crescere l’economia? Se non puoi più spingere il ‘margine intensivo’, devi di nuovo far ricorso ai ‘margini estensivi’ allargando la base produttiva, mettendo al lavoro più persone o comunque facendo aumentare le ore complessive di lavoro.
Si presenta dunque la relazione, di natura complessa, logica e sequenziale, che lega tra loro le “tre circostanze da cui dipendono grandezze relative del prezzo della forza-lavoro e del plusvalore: 1) la durata della giornata lavorativa, ossia la grandezza estensiva del lavoro; 2) l’intensità normale del lavoro, ossia la sua grandezza intensiva [...]; 3) infine la forza produttiva del lavoro [...]”[14] anche se Marx, concludendo il capitolo dedicato a questo argomento, indica una pista: “quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più viene abbreviata la giornata lavorativa, e quanto più viene abbreviata la giornata lavorativa, tanto più potrà crescere l’intensità del lavoro” [15]. A ondate di innovazioni tecnologiche segue un aumento della produttività cui corrisponde, generalmente, la diminuzione delle ore lavorate perché possano dispiegarsi a pieno gli effetti in termini di aumento dell’intensità del lavoro; quando l’ondata ripiega, le ore smettono di ridursi.
La produttività di per sé non è dunque il fine dell’operare inconsapevole dei capitalisti, ma uno dei mezzi per l’aumento del plusvalore-profitto: se si può raggiungere questo scopo attraverso l’aumento dell’intensità del lavoro, allora le ore lavorate devono diminuire, altrimenti si lavora di più e/o in più, ma con meno intensità. Tutto assieme non si può ottenere, nemmeno per monsieur le Capital.
Note
[1] Groningen Growth and Development Centre https://www.rug.nl/ggdc/
[2] Osserviamo solo come le variabili demografiche da neutrali diventano un peso per lo sviluppo, in un paese in cui l’età media della popolazione tende a crescere e sempre più giovani si sentono non a torto scoraggiati dal cercare un lavoro normale.
[3] http://piketty.blog.lemonde.fr/2017/01/09/of-productivity-in-france-and-in-germany/
[4] Dalla riduzione dell’indicizzazione dei salari e dalla prima introduzione dei Contratti di formazione-lavoro (1984-87) fino al Job’s Act passando per l’accordo Giugni (1993), il pacchetto Treu (1998), la legge Biagi (2003), solo per citare alcune tappe di questa moderna via crucis del lavoro salariato.
[5] More Jobs but Less Productive?
[6] reforms, labour market functioning and productivity dynamics
[7] Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-58), quaderni 3 e 4.
[8] Karl Marx, Il Capitale, vol. I, cap. 10, pag. 385 dell'edizione italiana Einaudi, 1978.
[9] “Questo primo periodo del giovane amore”.
[10] Idem, pag. 499.
[11] Karl Marx, Il Capitale, cit., cap. 13, pag. 501.
[12] Idem, pagg, 501-2.
[13] Pensiamo a strumenti di controllo come il guinzaglio elettronico brevettato recentemente da Amazon.
[14] Karl Marx, Il Capitale, cit. vol. I, cap. 15, pagg. 635-6.
[15] Idem, pag. 648.
Bibliografia citata
- Daveri F., C. Jona-Lasinio, (2005), Italy’s decline: getting the facts right, in Giornale degli economisti e annali di economia, Vol.64, n° 4.
- C. Jona-Lasinio e G. Vallanti (2011), Reforms, Labour market functioning and Productivity Dynamics: a Sectoral Analysis for Italy, LLEE Working Paper Series n° 93
- OECD Employment Outlook (2007), Chapter 2, More or Less Productive? The Impact of Labour Market Policies on Productivity