Il 25 giugno la sezione italiana del movimento internazionale Friday for future, che si batte contro il cambiamento climatico, ha pubblicato una “Lettera aperta a tutte le lavoratrici, a tutti i lavoratori e a tutte le organizzazioni sindacali”. Un testo che, se fosse fatto proprio dai molti partecipanti alle numerose manifestazioni che questo movimento sta producendo, in italia e non solo, potrebbe contribuire a produrre un importante salto di qualità a questa lotta, mettendo di fronte alle proprie contraddizioni il grande capitale e le forze politiche che lo sostengono (in particolare il Partito dei verdi e l’ala sinistra attualmente dominante del Partito democratico), le quali lisciano il pelo a questa mobilitazione e pretendono di egemonizzarla, snaturandola e portando acqua al ‘mulino verde’ del capitalismo.
Il riscaldamento globale, su cui si concentra l’attenzione mediatica per pompare il mercato del carbonio, è solo una manifestazione del “collasso degli equilibri ecosistemici”, ovverosia il rapido deteriorarsi del rapporto tra questa società e la natura. L’inquinamento dell’aria, delle falde acquifere, dei terreni e dei mari, il disboscamento delle foreste vergini, la desertificazione, il ridursi della biodiversità, ecc, sono tutte manifestazioni del medesimo problema che già Marx individuava come rottura del ricambio organico con la natura. Uno stato di fatto prodotto dal capitalismo, che però tenta di approfittarne attraverso proposte ‘green’, presentate come soluzioni al problema in questione, in realtà impossibili, in quanto fondate sulla compatibilità con la ricerca del profitto, la vera causa del problema.
Non che le società precapitalistiche fossero tutte ecocompatibili, ma i danni ambientali da loro prodotti erano parziali e circoscritti, al contrario della portata mondiale e catastrofica di quelli provocati dai rivolgimenti tecnici, sociali e demografici dell’era capitalistica. “La grande proprietà fondiaria, ci dice Marx, riduce la popolazione agricola al minimo, a una percentuale continuamente decrescente, e le contrappone una popolazione industriale in continua crescita e concentrata nelle grandi città; in tal modo crea condizioni che provocano una frattura incolmabile nel complesso equilibrio del metabolismo sociale prescritto dalle leggi naturali della vita. Crea così le condizioni che provocano lo spreco delle energie del suolo, spreco che il commercio trasferisce molto oltre le frontiere del paese considerato. (…) La grande industria e la grande agricoltura industriale agiscono nello stesso senso. In origine si distinguono perché l’industria devasta e rovina soprattutto la forza-lavoro e dunque la forza naturale dell’essere umano, mentre l’agricoltura rovina più direttamente la forza naturale della terra, ma poi, sviluppandosi, finiscono per darsi la mano: il sistema industriale in campagna finisce così per debilitare anche i lavoratori, e l’industria e il commercio, dal canto loro, forniscono all’agricoltura i mezzi per sfruttare il terreno” [1].
Che il problema sia il modo di produzione i “giovani” estensori - che a scanso di equivoci subito si presentano come “la futura generazione di lavoratori” - sembrano averlo capito bene tanto che individuano i responsabili di questo disastro nei “governi” ed in “circa 100 grandi aziende private e pubbliche”.
Per quanto riguarda gli effetti, però, non si limitano a denunciare l’aumento delle disuguaglianze sociali, “poiché il fardello dei costi ambientali si scarica sugli ultimi anelli della piramide: i lavoratori, i disoccupati, gli studenti, i migranti”. “Ciò che rischia di pregiudicare il futuro nostro, dei vostri figli e dei vostri nipoti, è un'emergenza planetaria che innanzitutto pregiudica il presente dei lavoratori. In questi mesi abbiamo conosciuto la lotta di lavoratrici e lavoratori dell’industria pesante, dell’estrazione dei combustibili fossili, del petrolchimico, dell’edilizia e dell’industria agroalimentare e di tutti lavoratori delle attività più dannose per l’ecosistema e per la salute della popolazione. Sappiamo che sono loro, già ora, le prime vittime di questo sistema, poiché c'è una interconnessione strutturale tra il sistema che estrae forsennatamente le risorse del pianeta, ignorando i limiti imposti dalla natura, e il sistema iniquo in cui ad essere estratte sono le risorse umane dei lavoratori. Insieme stanno portando al collasso del nostro ecosistema e della nostra società”.
Il riconoscimento di questa interconnessione costituisce un enorme passo in avanti dal momento che, come ricorda Marx nella Critica al programma di Gotha “la natura è la fonte dei valori d'uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana”. Lavoro che nel Capitale Marx inquadra come “processo che si svolge prima di tutto fra uomo e natura, un processo nel quale l’uomo regola e controlla il proprio metabolismo con la natura mediante la propria azione. Si presenta di fronte alla materia naturale come una potenza naturale. Mette in moto le forze naturali della sua persona fisica, braccia e gambe, testa e mani, per appropriarsi della materia naturale in una forma utile alla propria vita. Ma, agendo sulla natura esterna e modificandola con questo movimento, egli modifica la propria stessa natura”[2].
Il riferimento che i giovani fanno all’estrazione delle energie fisiche e psichiche dei lavoratori, inoltre, ci ricorda che in regime capitalistico, il lavoro necessario può costituire sempre e soltanto una parte della giornata lavorativa: senza il pluslavoro l’operaio non verrebbe nemmeno impiegato. Il capitalista, infatti, non avrebbe alcuna convenienza ad assumere un lavoratore se riuscisse ad estrarvi un valore pari al solo salario che gli paga. Quindi la giornata lavorativa non può mai esser ridotta al tempo di lavoro necessario. Questo è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo o “l’estrazione delle risorse umane dei lavoratori”, come dicono i giovani nella propria lettera.
Per questo ritengo molto importante che nella lettera venga riconosciuto che “le due lotte, quella per un pianeta vivibile e quella per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, sono intimamente connesse, anzi: inscindibili. La necessaria conversione a un sistema ecologicamente sostenibile deve andare di pari passo con la tutela dei diritti dei lavoratori e delle fasce più deboli della popolazione”.
In conclusioni i giovani chiedono “ai governi investimenti ed incentivi per la transizione ecologica che al contempo rispettino i principi di giustizia sociale, ambientale e climatica. Sappiamo che questa trasformazione socio-economica radicale è l'unica che potrà portare prospettive diverse di occupazione e, contrariamente all’opinione comune, può creare più lavoro. Soprattutto lavoro migliore per tutti, persone e ambiente”.
Non dobbiamo però dimenticare che perorare “i diritti dei lavoratori” e richiedere incentivi per “la transizione ecologica” è necessario ma non sufficiente fintanto tali diritti e tali incentivi rimangono subordinati alle leggi capitalistiche, dal cui grembo nascono e dalla cui persistenza sono limitati, per essere compatibili con le superiori esigenze di valorizzazione. Senza questa liberazione dalle catene del modo di produzione capitalistico, le misure riformistiche sarebbero inefficaci a risolvere il problema in questione.
I diritti dei lavoratori
Si prenda ad esempio il diritto a un lavoro e a un ambiente di lavoro salubri, sicuri e capaci di assicurare un tempo di vita sufficiente a reintegrare e sviluppare la forza-lavoro utilizzata e a conservarne la bontà senza usurarla precocemente.
Se, come detto, in regime capitalistico, la giornata lavorativa non può mai esser ridotta al tempo di lavoro necessario, non può neanche durare 24 ore, dal momento che, per quanto in passato siano stati considerati ‘strumenti parlanti’, i lavoratori hanno esigenze derivanti dall’essere animali sociali, che come tali devono dormire, pulirsi, nutrirsi, ripararsi, ecc e soddisfare bisogni intellettuali e sociali, la cui estensione e il cui numero varia tra i diversi paesi e tra le diverse epoche. Pertanto, “la variazione della giornata lavorativa, ci dice Marx, si muove entro limiti fisici e sociali. Ma tanto gli uni che gli altri sono di natura assai elastica e permettono un larghissimo margine di azione. Così troviamo giornate lavorative di otto, dieci, dodici, quattordici, sedici e diciotto ore, quindi di diversissima lunghezza” [3].
Il capitalista, nell’invocare la massima estensione possibile della giornata lavorativa, si avvale del diritto derivante dal suo essere acquirente della merce forza-lavoro. Come ogni altro compratore, cerca di spremere dal valore d’uso della sua merce la maggiore utilità possibile dal momento che “il tempo durante il quale l’operaio lavora è il tempo durante il quale il capitalista consuma la forza-lavoro che ha comprato. Se l’operaio consuma per se stesso il proprio tempo disponibile, egli deruba il capitalista” [3].
D’altra parte, nota sempre Marx, quel che dal lato del capitalista appare come valorizzazione del capitale, dal lato del lavoratore è dispendio eccedente di forza-lavoro. Quel che uno guadagna in lavoro, l’altro lo perde in capacità lavorativa. Pertanto, se al primo compete l’uso della forza-lavoro, al secondo compete l’onere di mantenerla e riprodurla “per poterla tornare a vendere” e - a parte il logorio naturale per l’età ecc. - “lavorando domani nelle stesse condizioni normali di forza, salute e freschezza di oggi”. Il lavoratore, dunque, nel chiedere una giornata lavorativa e condizioni lavorative “normali” perora il proprio diritto ad amministrare il suo unico patrimonio, la forza-lavoro, “come un ragionevole e parsimonioso economo”, astenendosi “da ogni folle sperpero di essa, rendendone disponibile quotidianamente, mettendola in moto e convertendola in lavoro, soltanto quel tanto che è compatibile con la sua durata normale e col suo sano sviluppo” [3].
I lavoratori, dunque, fondano le rivendicazioni sindacali sulle leggi dello scambio, non sul loro sovvertimento. “Se il periodo medio nel quale un operaio medio può vivere, data una misura ragionevole di lavoro, ammonta a trent’anni, il valore della forza-lavoro, che tu capitalista mi paghi di giorno in giorno, è [1 : (365 gg x 30 anni)] cioè, 1 : 10.950 del suo valore complessivo. Ma se tu la consumi in 10 anni, tu mi paghi quotidianamente 1/10.950 del suo valore complessivo, invece di 1/3.650: cioè mi paghi soltanto un terzo del suo valore giornaliero, e mi rubi quindi quotidianamente due terzi del valore della mia merce. Tu mi paghi la forza-lavoro di un giorno, mentre consumi quella di tre giorni. Questo è contro il nostro contratto e contro la legge dello scambio delle merci” [3].
Pertanto, conclude Marx: “dalla natura dello scambio delle merci, così com’è, non risulta nessun limite della giornata lavorativa, quindi nessun limite del pluslavoro. Il capitalista, cercando di rendere più lunga possibile la giornata lavorativa e, quando è possibile, cercando di farne di una due, sostiene il suo diritto di compratore. Dall’altra parte, la natura specifica della merce venduta implica un limite del suo consumo da parte del compratore, mentre l’operaio, volendo limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata, sostiene il suo diritto di venditore. Qui ha dunque luogo una antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. E fra eguali diritti, decide la forza” [3].
Ecco perché quando i rapporti di forza sono più favorevoli ai padroni, come accade oggigiorno, il diritto dei compratori della forza-lavoro prevale su quello dei venditori e questi ultimi vedono ridursi gli altri diritti acquisiti precedentemente, quando le condizioni erano per loro meno sfavorevoli. D’altronde, perdurando il regime capitalistico, questi diritti non possono comunque espandersi oltre il limite imposto dalla necessità di valorizzare il capitale, quindi il problema non è risolvibile nella cornice posta dal modo di produzione capitalistico. In altri termini, per la “trasformazione socio-economica radicale” invocata dai giovani attivisti non basta la tutela dei diritti dei lavoratori ma occorre eliminare il diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione.
I diritti ambientali
Se “l’uso della forza-lavoro e il depredamento di essa sono cose del tutto differenti” [3] ciò vale anche per la natura. Nel caso di uno sfruttamento eccessivo, il lavoro, come non può riprodurre l’integrità della forza-lavoro, non può neanche riprodurre le altre risorse naturali organiche ed inorganiche che permettono la vita sulla terra, come la biodiversità, l’aria pulita, le foreste vergini, le materie prime, ecc. Pertanto dovrebbe essere impiegato in maniera tale che tali risorse vengano utilizzate ma non saccheggiate, in modo da permettere una loro riproduzione, impedendone il brusco e repentino esaurimento. Ciò comporta, ad esempio, che gli scarti (fisici, liquidi e gassosi) dovrebbero essere diminuiti e riprocessati quanto più possibile.
Ma a differenza della forza-lavoro, le risorse non sono dotate di una personalità in grado di opporsi al diritto dell’acquirente come fa il lavoratore che si batte contro il capitalista. Alcune risorse naturali, inoltre, non vengono acquistate affatto, trattandosi di doni della natura (es. il vento, l’acqua) sui quali al massimo, e non sempre, lo Stato può imporre il pagamento di una tassa sotto forma di licenza o altro. Altre risorse ancora vengono depauperate a prescindere dal loro utilizzo, come ad esempio l’aria che respiriamo. Inizialmente, dunque, non vi è alcun limite al saccheggio della natura e solo quando l’inquinamento fuoriesce dalla fabbrica si cominciano a prendere in considerazione i danni che ciò può comportare, stabilendo, per quelli giudicati tollerabili, un indennizzo. Inizialmente, per altro, soltanto in favore degli altri proprietari danneggiati e solo successivamente, a un certo grado di sviluppo della società, alla generalità dei cittadini.
Le esigenze da contemperare, dei produttori capitalisti da un lato e dei proprietari fondiari o dei cittadini dall’altro, riproducono lo scontro tra diritti sui quali decide la forza. E come un uso sostenibile della forza-lavoro può essere soltanto estorto ai capitalisti o da loro accolto nella misura in cui contribuisce alla valorizzazione del capitale - come nel caso dell’introduzione di appositi incentivi o nei segmenti alti della divisione del lavoro, quando la forza-lavoro qualificata deve essere tutelata e protetta -, così avviene per gli incentivi alla transizione ecologica che non provengono dalle contraddizioni interne alla classe dominante. Un buon materiale, ci dice Marx dà meno scarto e minor difficoltà di lavorazione; un miglior macchinario si logora più lentamente, producendo pure una diminuzione dei lavori di manutenzione e degli incidenti. La qualità del processo produttivo, inoltre, è determinante per la creazione di plusvalore e l’immediato sfruttamento del lavoro, dal momento che la quantità di lavoro che le macchine assorbono dipende dal loro valore d’uso e non dal loro valore di scambio.
Ma questo progresso interessa ai capitalisti nella ristretta misura in cui favorisce la diminuzione del prezzo unitario della singola merce e della quota di capitale anticipata in un dato ciclo di rotazione. Ogni considerazione sul benessere ambientale e umano è accessoria e a ciò subordinata. Sotto il dominio del capitale, infatti, il parametro non è quello del valore d’uso ma del valore di scambio: dato un certo grado di sfruttamento della forza-lavoro, il saggio del profitto “dipende solo ed esclusivamente dal valore del capitale costante e in nessun modo dal valore d’uso degli elementi di cui questo capitale consta” [4].
Ad entrare in contrasto con il ricambio organico con la natura, dunque, è la legge del valore in quanto tale per la quale il valore d’uso conta solo se funzionale alla produzione di profitto, altrimenti può anche marcire. Essa presuppone la dominanza della forma di merce del prodotto, l’antitesi tra valore di scambio e valore d’uso, con il predominio del primo. “Il fatto di dipendere, per la coltivazione dei diversi prodotti del suolo, dalle fluttuazioni dei prezzi di mercato, che determinano un continuo cambiamento di quelle colture, e lo spirito stesso della produzione capitalistica, centrato sul profitto più immediato, sono in contraddizione con l’agricoltura, che deve gestire la produzione tenendo conto dell’insieme delle condizioni di esistenza permanenti delle generazioni umane che si susseguono” [5].
L’auspicata transizione ad una tecnologia verde, peraltro, è limitata dal fatto che la sua produzione deve costare meno lavoro di quanto il suo uso ne sostituisca. Siamo di fronte quindi allo stesso limite che Marx aveva individuato per l’impiego delle macchine che, nel capitalismo, “questo limite trova un’espressione ancora più ristretta. Poiché il capitale non paga il lavoro adoperato, ma il valore della forza-lavoro usata, per esso l’uso delle macchine è limitato dalla differenza fra il valore della macchina e il valore della forza-lavoro da essa sostituita” [6].
Conclusione
Che si tratti di un periodo di crisi o di crescita, a rimetterci sono sia i lavoratori sia la natura. La lotta per l’emancipazione dell’uomo, dunque, è la lotta per la salvaguardia dell’ambiente. Una identità che è parte integrante del socialismo scientifico come ha abbondantemente dimostrato Tiziano Bagarolo, alla cui opera si invia. D’altronde, già nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx scriveva che “il comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e il genere. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione”.
Note:
[1] Marx, Genesi della rendita fondiaria capitalistica, terzo libro del Capitale.
[2] Marx, il Capitale, libro I, cap. 5.
[3] Marx, il Capitale, libro I, cap. 8.
[4] Marx, il Capitale, libro III, cap. 6.
[5] Marx, citazione tratta da internet
[6] Marx, il Capitale, libro I, cap. 13.