Quanto costa una maglietta nel mondo globalizzato?

Se vuoi comprare una maglietta a basso prezzo ed entri in un centro commerciale, puoi constatare che le grandi catene della moda a basso costo hanno scaffali e ceste colmi di indumenti e accessori che puoi acquistare con pochi soldi.


Quanto costa una maglietta nel mondo globalizzato?

di Laura Nanni

Se vuoi comprare una maglietta a basso prezzo ed entri in un centro commerciale, puoi constatare che le grandi catene della moda a basso costo hanno scaffali e ceste colmi di indumenti e accessori che puoi acquistare con pochi soldi. Ci siamo chiesti da dove arrivino? Quali sono le mani che li hanno confezionati? Che salario percepiscono coloro che hanno solo quelle mani come “bene” economico?

Bangladesh/Italia

Il 24 aprile 2013 a Savar, sobborgo di Dacca, crolla il Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani in cui rimangono uccise 1.129 persone e ferite 2.500, molte rimaste invalide. La maggioranza delle vittime sono bambini. Quell’edificio conteneva alcune fabbriche di abbigliamento, una banca e numerosi negozi e, quando furono notate delle crepe sulla facciata, i negozi e la banca ai piani inferiori vennero chiusi, ma i proprietari delle fabbriche tessili ignorarono l’avviso: non si potevano fermare le macchine! Ai lavoratori fu ordinato di tornare il giorno successivo e il palazzo collassò all’ora di punta. Lavoravano per queste ditte: Adler Modemärkte, Auchan, Ascena Retail, Benetton, Bonmarché, Camaïeu, C&A, Cato Fashions, Cropp (LPP), El Corte Inglés, Grabalok, Gueldenpfennig, Inditex, Joe Fresh, Kik, Loblaws, Mango, Manifattura Corona, Mascot, Matalan, NKD, Premier Clothing, Primark, Sons and Daughters (Kids for Fashion), Texman (PVT), The Children’s Place (TCP), Walmart e YesZee.

La crisi economica e finanziaria internazionale del 2007-2008 in questo comparto è costata molto all’Italia. Il settore era già in recessione, già erano stati attuati processi di delocalizzazione e la riorganizzazione dei modelli produttivi, proprio per la necessità di competere con i paesi a basso costo del lavoro, che avevano messo fuori mercato un gran numero di aziende di piccole dimensioni con lavorazioni proprie o in conto terzi.

Fra il 2007 e il 2012 il numero di addetti dell’industria del tessile-abbigliamento italiana (escluso il calzaturiero) è passato da 513 mila unità a 430 mila con un calo del 16% e il numero di aziende da 58 mila a 50 mila circa con un calo del 13%, che si accompagna a una perdita di fatturato di quasi il 10%” http://www.abitipuliti.org/salariodignitoso/. E ci si può documentare su come la discesa sia continuata per arrivare fino ad oggi.

Ecco dunque come si spiega la presenza di tanti Italiani nel luogo dell’attentato a Dacca, in Bangladesh, un paese in cui i diritti per i lavoratori sono quasi del tutto sconosciuti e i parlamentari sono anche loro imprenditori nel settore tessile. Il fratello di una delle vittime, nella breve intervista che ho ascoltata per radio, imputava proprio alla difficoltà di lavorare in questo settore in Italia la colpa per la morte nell’attacco terroristico del suo congiunto. Approdare in Bangladesh, come luogo di lavoro, è stata da lui presentata non come scelta, ma come unica strada percorribile dal fratello per uscire dalla disoccupazione.

Il punto è che oggi la globalizzazione è capitalistica e ha consentito alle multinazionali di avere a propria disposizione l’intera riserva di manodopera esistente a livello mondiale, la forza contrattuale si è decisamente spostata a favore delle imprese contro i lavoratori, che hanno perduto l’unità conquistata a partire dalla presa di coscienza del proprio ruolo nel mondo del lavoro, passando alla competizione. Quest’ultima è alimentata in vario modo, proprio perché risulta utile e funzionale allo sfruttamento della forza lavoro. I lavoratori italiani si trovano contro quelli provenienti dall’est europeo, quelli cinesi contro quelli indonesiani, quelli bangladesi contro quelli cambogiani, quelli kenioti contro quelli etiopi. Una strenua competizione al salario più basso pur di avere un posto di lavoro.

Religione islamica = terrorismo globale, un postulato da sciogliere

Gli attentati in questi ultimi tempi stanno sconvolgendo il mondo, il califfato ha cambiano il mondo e la percezione che ne abbiamo, ci ripetiamo e sentiamo ripetere ovunque. Tornando a Dacca, ci rendiamo conto, ora, che dal 2013 il Bangladesh ha subito un'ondata di attacchi di stampo islamista-fondamentalista, che si sono intensificati nel 2015, il che ha portato la polizia a lanciare una vasta operazione a giugno con migliaia di arresti. Gli attacchi hanno provocato oltre 40 morti, fra cui ci sono cristiani, induisti e buddisti, seguaci di sette islamiche non legate all'ala sunnita più ortodossa, stranieri, attivisti gay, intellettuali e blogger laici critici nei confronti del fondamentalismo. Alcune delle azioni terroristiche sono state rivendicate dallo Stato islamico, mentre altre dalla branca locale di al-Qaeda, ma le autorità locali tendono ad attribuire le responsabilità a gruppi autoctoni.

Il ristorante attaccato venerdì si trova nella zona diplomatica di Dacca, nel quartiere blindato di Gulshan, frequentato soprattutto da diplomatici e benestanti, da stranieri. Dunque, quel luogo è stato scelto con il preciso intento di compiere un’azione esemplare nei confronti del mondo “occidentale” imperialista che, in questo delirio vendicativo, i terroristi volevano mettere al bando, cacciarlo d’autorità. Le azioni compiute sembrano emergere dai peggiori incubi, compiute da giovani benestanti capaci di agire con una determinazione spietata. E tutto questo sconvolge e provoca effetti terribilmente scomposti, colpendo le parti più fragili e irrazionali dell’impulso di difesa del proprio territorio e della propria identità.

Che la Jihad sia, sulla base del Corano, una “guerra” agli infedeli, è una mistificazione delle parole del testo base della religione islamica. È sufficiente informarsi e fare qualche seria ricerca per rendersi conto che il senso del Corano è del tutto spirituale e riguarda qualcosa che ha a che fare con l’interiorità delle persone e la loro relazione con il divino. Per guerra si usa un altro termine in arabo.

Ma le parole di questa religione, che non ha un clero, vivono soprattutto del rapporto diretto dei fedeli con la parola del profeta; per questo sono state maggiormente oggetto di mistificazioni e strumentalizzazioni per servire ad altro, secondo gli interessi del potere politico o economico. Le correnti e i vari gruppi che fanno riferimento all’islamismo hanno, infatti, capi carismatici che divengono leader, a volte, nascosti. Con internet poi, purtroppo, divengono quasi miti, riferimento, per gente in cerca di esaltazione e affermazione. Infatti si usa la platea del web a ogni passo.

Ma non credo si possa pensare che c’è sempre un piano preordinato e organizzato dietro a ogni attentato. Anche se ci sono diverse fonti o correnti di indagine, che seguono lo sviluppo del terrorismo, dilagato e messo in primo piano con l’attentato alle Twin Towers di New York l’11 Settembre del 2001, che ci raccontano di implicazioni complesse con il mondo imperialista e con i poteri economico-finanziari.

Per una critica all’alienazione religiosa: Feuerbach e Marx

Qui il mio percorso giunge, per fare una critica allo stato di cose esistenti, a quella ipocrisia mescolata alla falsa coscienza che, insieme, sono la materia di cui sono fatte le catene usate per tenere imprigionati nell’ignoranza e nella sudditanza popoli e persone. Secondo Feuerbach, la liberazione politica dell’uomo deve passare per l’eliminazione della religione, che l’uomo stesso ha creato, alienando da sé la parte migliore, costruendo un essere superiore a cui ha dato autorità e a cui si è sottomesso. Possiamo capire molto facilmente che la sua sottomissione a questo essere superiore si trasferisce alla sua relazione con chi la religione l’amministra e che, come vediamo, può usare il potere concessogli in modo del tutto avulso dall’ambito strettamente religioso o spirituale.

Il punto di svolta che Marx ci mostra è un altro, perché quando dice che la religione è l'oppio del popolo sostiene che l'uomo ricorre alla religione perché materialmente insoddisfatto e trova in essa, come in una droga, uno strumento artificiale per poter sopportare la situazione materiale di ingiustizia e fatica in cui vive. Così, è lo sfruttamento capitalistico sul piano materiale che fa sì che l'uomo si crei, con la religione, una dimensione “immaginaria” migliore, nella quale poter sperare. Un mondo in cui la giustizia metterà finalmente fine ad ogni male, offrendo a ognuno quella vita che merita. Mettere fine allo sfruttamento capitalistico, significa liberare da falsi miti. Il salario dignitoso per tutti i lavoratori è il primo passo.

Sopra ho scritto: critica all’alienazione religiosa. È quella, l’alienazione, che porta a degenerazioni di ogni tipo. La religione è infatti una delle sfere umane che non possono essere affrontate se non intersecando i diversi piani della cultura, dell’antropologia, della sociologia, della spiritualità nella storia e molto altro, per comprenderne a fondo fondamenti e ragioni. Ogni cosa che, nei secoli e nei millenni, ha concorso a costruire intorno all’esigenza umana di trascendenza e di fede corpus dottrinari può, infatti, essere analizzata per comprenderne l’autenticità, quando si pongano a criterio di analisi, quei concetti universali che appartengono all’inemendabile senso di rispetto della Vita. Altro sono le istituzioni e le gerarchie costruite dagli uomini per gestire le religioni. Ma questa è un’altra storia.

09/07/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Laura Nanni

Roma, docente di Storia e Filosofia nel liceo. Fondatrice, progetta nell’ A.P.S. Art'Incantiere. Specializzata in politica internazionale e filosofia del Novecento, è impegnata nel campo della migrazione e dell’integrazione sociale. Artista performer. Commissione PPOO a Cori‐LT; Forum delle donne del PRC; Stati Generali delle Donne.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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