È stata siglata alle 5 del mattino dell’1 Aprile l’ipotesi d’accordo di rinnovo del CCNL bancario. La data è significativa perché si tratta di un vero “pesce d’aprile” ma con risvolti, purtroppo, seri e concreti.
di Fulvio Parisi*
Nell’articolo precedente “Sono un bancario…non un banchiere” ci eravamo lasciati su un’ipotesi di un percorso di lotta per contrastare l’offensiva dell’ABI che doveva materializzarsi nella proclamazione di 2 giorni di sciopero della categoria. Peccato però che , dopo il riuscitissimo sciopero del 30 gennaio, la procedura obbligatoria di legge per la proclamazione delle due giornate successive non è stata neppure avviata dalle OOO.SS. Al contrario, sotto la minaccia da parte dell’ABI della disapplicazione generalizzata del CCNL a partire dall’1 Aprile, è stata avviata una serie di contatti che si è concretizzata nella succitata ipotesi di accordo.
Entriamo ora nel merito. Il preambolo riferito al contesto macroeconomico è imbarazzante, anzi irritante: la crisi che si è abbattuta sui lavoratori e i precari sembra paradossalmente aver intaccato in primis i dividendi dei banchieri. Neppure un accenno, infatti, a tutti i sostegni e soccorsi ricevuti in questi anni: dalla rivalutazione delle quote di partecipazione in Banca d’Italia agli incrementi di liquidità grazie al Quantitative easing della BCE, per non parlare del regalo governativo del Jobs act. La consistente riduzione del costo del personale, stimabile nell’ultimo decennio in 5 miliardi di euro, è passata del tutto inosservata. Gli scandalosi emolumenti del top management, ovviamente, non sono degni di citazione - “all’equità distributiva sarà posta attenzione”, recita il testo, ma senza alcun impegno concreto.
Non solo. L’ABI porta a casa il prolungamento di 18 mesi della vigenza contrattuale da (da tre anni a 4 anni e 6 mesi) con un contestuale allungamento anche della contrattazione di secondo livello. Si riduce sì il gap salariale per i neoassunti (dal 18 % al 10%) ma … con i soldi dei lavoratori, ovvero grazie ai versamenti del FOC (Fondo per l’Occupazione) che è obbligatorio per i dipendenti, facoltativo per i dirigenti e nullo per le imprese. Nessuna garanzia di riassunzione è prevista in caso di licenziamenti collettivi per i quali sono a disposizione i soldi del FOC ma che potranno essere utilizzati sulla base di una “valutazione” da parte delle imprese (anche qui senza alcun vincolo cogente). Insomma le imprese non si assumono alcun impegno in tal senso a fronte di contribuzioni certe dei lavoratori. L’ultrattività dopo la scadenza contrattuale non è neppure citata.
Gli aumenti salariali previsti sfiorano il ridicolo ( mediamente € 85 in tre anni con la prima tranche a ottobre 2016!) . Certa è invece la nuova modalità di calcolo del TFR da cui sono esclusi premi e indennità, addirittura con effetto retroattivo dall’1 gennaio 2015. Di fatto il misero aumento salariale è compensato dalle detrazioni del TFR. In sintesi: i lavoratori si autofinanziano l’aumento salariale!
In tema di inquadramenti è mantenuta la possibilità di adibire i quadri a mansioni superiori senza alcun adeguamento salariale, oppure di adibirli a mansioni inferiori con la possibilità anche di derogare al CCNL sulla base dei contrattazioni di gruppo o infragruppo. Il demansionamento del Jobs act è, dunque, una realtà.
Sulle pressioni commerciali quotidianamente subite dai lavoratori, e che scatenano competitività tra gli stessi in un autentico “gioco al massacro”, e denunciate ripetutamente nel corso delle assemblee precedenti lo sciopero del 30 gennaio scorso, non è istituita alcuna norma esigibile ma solo impegni generici a “favorire il rispetto di valori etici fondamentali quali la dignità, la responsabilità, la fiducia , l’integrità e la trasparenza”. È sbagliato definirla fuffa ?
Altra ciliegina sulla torta: in caso di cessioni di personale ad altro datore di lavoro si dichiara che ciò avverrà con continuità di rapporto. Evidentemente la vicenda FIAT e il “ Marchionne style” non hanno insegnato un bel nulla. Basta infatti avere qualche sindacato accondiscendente, pronto a firmare accordi separati, e la New Co. è bell'e fatta. Si licenziano tutti i lavoratori e si riassumono nella nuova società con affossamento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori anche per i vecchi dipendenti a cui, di norma, non si applicherebbero le norme del Jobs Act.
La mancata previsione di alcuna garanzia aggiuntiva per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, ovvero a partire dal primo dei decreti attuativi del Jobs Act, significa in estrema sintesi accettare il famigerato contratto triennale a tutele crescenti previsto appunto dal suddetto decreto.
C’è da chiedersi a questo punto: dove è finita la resistenza al Jobs Act “contratto per contratto” sbandierata in occasione dello sciopero generale del 12 Dicembre? E ancora: visti i risultati ottenuti, era questa la risposta che attendevano i lavoratori del settore bancario dopo lo sciopero del 30 gennaio?
Vista la “strana” coincidenza tra il contratto del commercio siglato il giorno prima e l’ipotesi di accordo del CCNL dei bancari (l’aumento salariale coincide: 85 euro medi mensili, in 3 anni) è legittimo porsi una domanda: il padronato e il Governo hanno obiettivi chiari e una strategia conseguente. E il sindacato?
*Direttivo Roma e Lazio FISAC-CGIL Area “Il sindacato è un’altra cosa – opposizione CGIL”