L’Italia ha un problema: il Mezzogiorno. Al Sud del nostro paese i lavoratori percepiscono salari troppo alti e questo crea iniquità molto gravi e impedisce lo sviluppo del Mezzogiorno. Cari lavoratori meridionali, se non ve ne eravate accorti, guadagnate troppo e se a dirvelo sono tre bocconiani doc come Andrea Ichino, Tito Boeri e Andrea Moretti, c’è da crederci, no? No, certo che no.
di Carmine Tomeo
Lo scorso 3 giugno, al Festival dell’economia di Trento, i tre professori Ichino, Boeri e Moretti mostrano questo meccanismo: i salari nominali (cioè al netto del potere d’acquisto) sono uniformi in tutto il territorio nazionale. Siccome, però, la produttività del lavoro al Sud è minore rispetto al Nord e, perciò, il costo del lavoro per unità di prodotto è inferiore al Nord rispetto al Sud, la domanda di lavoro al Nord è più alta che al Sud. Questa situazione ha generato un flusso migratorio da Sud a Nord, facendo aumentare il prezzo delle case al Nord. E dal momento che il prezzo della casa è un’importante componente dell’indice dei prezzi di una famiglia, a parità di salario nominale un lavoratore meridionale percepisce in termini reali un reddito da lavoro maggiore di un suo collega settentrionale.
Ad ogni modo il meccanismo descritto, dicono Ichino, Boeri e Moretti, risulta un problema sia per il Settentrione, che vede lavoratori con potere d’acquisto troppo basso, sia per il Meridione, dove i salari troppo alti (sic!) in rapporto alla produttività sono causa di alti tassi di disoccupazione. Soluzione? Ichino, in un’intervista, la delinea nei seguenti termini: “Se consentissimo che i salari si possano determinare localmente … a livello di ciascuna azienda e senza restrizioni su base nazionale, il risultato sarebbe un aumento dell’occupazione al Sud [e] una maggiore uniformità dei salari reali … ossia una uguaglianza reale e non solo nominale”. Dal momento che non è stato dato un nome a questa proposta, si potrebbe optare per gabbie salariali (anche se, vedremo, non sarebbe un termine preciso).
Sarebbe il caso di invitare il trio di bocconiani a uscire dalle aule universitarie per fare una passeggiata nel Mezzogiorno italiano e verificare con i loro occhi le condizioni in cui versa questa regione d’Italia. A proposito del prezzo delle case, evidentemente lo studio presentato al Festival dell’economia non ha tenuto conto delle condizioni delle stesse. Lo ha fatto, invece, un’analisi della Fondazione Di Vittorio, che nel suo Rapporto 2015 sulla qualità dello sviluppo fa notare che, fatto 100 la media nazionale, l’indice della qualità delle abitazioni (valutate in base al numero di famiglie che vivono in una casa, adeguata al numero di componenti, in buone condizioni, ecc.), è di 106 punti al nord-ovest, al sud 95 e nelle isole 89.
Si tratta solo di un esempio per dire quanto possa essere complicato stilare un paniere capace di descrivere in maniera efficace il costo della vita reale per metterlo in relazione con il salario percepito e descrivere le condizioni di vita reali. Infatti, nello studio Ichino-Boeri-Moretti “Nell’indice dei prezzi ci sta la benzina – afferma Ichino –, che è uguale da Nord a Sud, e la casa, che costa meno al Sud. Il salario reale tiene conto del paniere dei beni che una famiglia consuma”, ma evidentemente non tiene conto, ad esempio, dell’efficienza dei servizi, dello stato di salute della popolazione, del livello del servizio sanitario che sono peggiori al Sud rispetto al Nord. Per rimanere in tema di salute, quanto incide sul costo della vita un servizio sanitario pubblico inadeguato? Su quest’ultimo aspetto, ancora la Fondazione Di Vittorio ha mostrato che “per quanto riguarda i servizi sociali e il sistema sanitario è ancora il nord-est (120 punti) a primeggiare nettamente, mentre sud (79) e isole (87) si collocano molto più in basso rispetto alla media nazionale (100).” E se questo aspetto costringere persone ad andare sul “mercato della salute” o a emigrare per curarsi, si verifica oppure no un’incidenza sul costo della vita? Certo che sì, ma Ichino-Boeri-Moretti non ne tengono conto.
Il rapporto della Fondazione Di Vittorio mette in evidenza un generale sviluppo diseguale tra Nord e Sud Italia e conferma che la qualità dello sviluppo è molto più alta al Nord rispetto al Mezzogiorno. E questo nonostante al Sud il Pil pro capite (16.761 euro) sia molto più basso della media nazionale (25.256 euro) e quasi la metà di quello del Nord-Ovest (30.821 euro) o del Nord-Est (29.734 euro), come messo in evidenza dall’Istat nel rapporto Noi Italia 2016. Le gabbie salariali esistono già nei fatti e se il meccanismo delineato da Ichino, Boeri e Moretti avesse una validità dal punto di vista economico, oggi non avremmo un Sud con tassi di disoccupazione che superano il 20%.
Ma se una validità da un punto di vista economico non è riscontrabile nella tesi dei tre bocconiani, un senso lo si trova se spostiamo la questione sul lato politico. Se nei fatti sembra di essere tornati a proporre le vecchie gabbie salariali, in realtà non è così. Lo stesso Ichino fa notare che “Noi non stiamo riproponendo le gabbie salariali, cioè salari istituzionalmente fissati in modo diverso tra regioni. Anzi, la nostra proposta è proprio radicalmente diversa”, perché “è proprio la rigidità che è sbagliata. Il concetto su cui vorremmo invitare a riflettere è che i salari devono essere liberi di aggiustarsi in base alle condizioni locali.” In che modo? Semplice: eliminare la contrattazione salariale nazionale e spostarla completamente sulle aziende, così da ottenere una riduzione dei salari.
È a quel livello, infatti, che il padronato avrebbe gioco molto più facile a rivedere i salari al ribasso. È noto, infatti, che gli industriali hanno esplicitamente e a più riprese lamentato un eccessivo aumento dei salari e la necessità che quote di salario vengano restituite al profitto. Con una contrattazione salariale tutta svolta a livello aziendale, con la struttura manifatturiera italiana fatta per lo più di piccole e medie imprese spesso non sindacalizzate, è facile prevedere che il salario si appiattirà sul livello minimo. Un livello che potrà essere stabilito per legge, come già nelle intenzioni del governo Renzi e che, quando pochi mesi fa se ne parlava, si voleva attestare intorno ai 7,5 euro l’ora: per capirci al livello di un buono lavoro.
È in questo modo che Renzi, braccio politico del padronato, completerebbe l’opera avviata dai suoi predecessori, Berlusconi e Monti. Dopo la possibilità per le imprese di derogare a qualsiasi contratto collettivo o legge con l’articolo 8 della manovra di Ferragosto 2011, dopo la cancellazione dell’articolo 18, dopo il Jobs act, affossare la contrattazione collettiva significa frantumare ulteriormente la classe lavoratrice. Questa si ritroverebbe ulteriormente indebolita rispetto ad un padronato che ha intenzione di recuperare quote di profitto solo attraverso l’abbattimento del costo del lavoro vivo.
Ecco che ritrovare strumenti politici e di lotta per l’unità dei lavoratori deve essere il tema prioritario per qualsiasi soggetto che voglia rappresentare i lavoratori e in generale le classi sociali più deboli.