Banche centrali e monetizzazione dei debiti
Di finanziamento monetario diretto, da parte della Banca centrale, di debito, di deficit e di spese degli Stati abbiamo parlato abbastanza diffusamente nei precedenti interventi. Dobbiamo continuare a farlo.
Nei giorni successivi alla riunione dell’Eurogruppo del 9 aprile scorso la rivista “Micromega” ha raccolto l’adesione di un consistente numero di economisti e non solo, tra i quali Pizzuti, Realfonzo, Fitoussi, al seguente appello (riportato per stralci): “L’accordo raggiunto dall’Eurogruppo il 9 aprile scorso sugli interventi europei per fronteggiare la pandemia e le sue gravissime conseguenze è insufficiente [e] prefigura strumenti inadatti […]. L’eccezionalità delle circostanze dovrebbe far prendere in esame provvedimenti eccezionali, che dovrebbero avere almeno due caratteristiche essenziali:
- essere attuabili in tempi il più possibile brevi;
- ridurre al minimo possibile l’aumento dell’indebitamento degli Stati […].
La sola opzione che risponde a questi due requisiti è il finanziamento monetario di una parte rilevante delle spese necessarie [alla ricostruzione] da parte della Banca centrale europea. Si tratta di un’opzione esplicitamente vietata dai trattati europei. Ma anche i trattati, in caso di necessità, possono essere sospesi […]. Al prossimo Consiglio dei capi di Stato e di governo [23 aprile], che dovrebbe ratificare l’accordo dell’Eurogruppo, l’Italia dovrebbe invece rigettarlo, e proporre che la parte più importante degli interventi anti-crisi […] sia attuata con un intervento della BCE”. In caso di rifiuto, conclude l’appello, dovremo “fare da soli”.
L’appello pone un’alternativa secca: una nuova BCE con modifica di trattati europei e, conseguentemente, delle istituzioni europee - o la fuoriuscita dall’euro (“faremo da soli”). Oggi è questo senz’altro uno dei nodi centrali di un qualsiasi percorso rifondativo e programmatico di una soggettività politica collettiva che voglia richiamarsi al socialismo.
Sono riformabili l’UE e le sue istituzioni? Alcuni dei firmatari dell’appello sembrano crederlo. In un’ottica keynesiana Felice R. Pizzuti (“il Manifesto” del 17 aprile) sostiene che le massicce dosi di liquidità fornite dalla BCE e dai prestiti europei e statali possono aiutare a risolvere impellenti esigenze finanziarie, ma non servono a risolverete difficoltà strutturali dell’offerta e della domanda, alimentando anzi, col calare dei livelli produttivi, bolle finanziarie. Un ruolo decisivo contro quelle che chiama “reces-flazione” e “depres-flazione” può averlo in questa crisi una BCE radicalmente riformata: “Tra gli effetti collaterali del coronavirus c’è […] la conferma di quanto sia incongruente la logica del ‘divorzio’ tra Banca centrale e Tesoro. […] Mettere nell’agenda dell’UE anche questo punto sarebbe più lungimirante che discutere di Mes e Eurobond”.
Sulla stessa lunghezza d’onda Riccardo Realfonzo (“il Sole - 24 Ore” del 17 aprile): “La strada maestra per sostenere le politiche contro la crisi del coronavirus consiste nel finanziamento da parte delle banche centrali. La monetizzazione dei nuovi deficit permetterebbe di attivare le risorse necessarie a costo zero senza appesantire il debito pubblico dei Paesi. Anche l’eurozona dovrebbe seguire questo percorso, prevedendo politiche fiscali concertate e finanziate dalla BCE […]”.
Qualcuno (Stefano Feltri ne “Il Fatto Quotidiano” del 17 aprile), pur difendendo ideologicamente l’indipendenza della BCE e lo ‘status quo’, mette il dito nella piaga. “La proposta dei 101 [su Micromega] va oltre: finanziare direttamente il debito degli Stati sposterebbe la BCE nel campo della politica fiscale. […] Sottomettere la BCE alla politica non significa metterla al servizio della politica italiana, ma di quella europea. Cioè spostare le decisioni sui tassi e gli acquisti dei titoli in quella palude che è il Consiglio europeo, dove ogni decisione di interesse comune si impantana negli egoismi nazionali […]. L’efficacia della BCE dipende dalla [sua] indipendenza”.
Allora quale BCE? Quale UE? Nessuna BCE e nessuna UE? Qualcuno (Lucio Baccaro ne “Il Fatto Quotidiano” del 15 aprile) è per il “faremo da soli”. “ La soluzione ideale [per l’UE] sarebbe quella di un bilancio comune e di trasferimenti fiscali […]. Questo però richiede unità politica ed è irrealizzabile nella situazione attuale”. Come seconda scelta la mutualizzazione parziale del debito pubblico consentirebbe ai paesi più colpiti di rispondere all’emergenza senza esporsi allo spread. La Germania, dice Baccaro, deve essere messa dinanzi ad un aut-aut. Essa è la prima beneficiaria dell’euro per il tasso di cambio più favorevole di quello di un eventuale marco tedesco, cosa che favorisce l’export tedesco, e poi gode, come emittente di asset considerati sicuri, di interessi più bassi degli altri. Allora dal punto di vista italiano “battersi per cambiare gli equilibri istituzionali escludendo a priori di uscire dall’euro significa votarsi all’insuccesso. Varoufakis ci ha provato ed è andato a sbattere contro un muro”.
Sono queste le posizioni più significative che ho riscontrato in questi giorni sulla questione della monetizzazione del deficit e, in generale, sul finanziamento del debito da parte della BCE e delle altre Banche centrali. A parte alcuni connotati particolari che le distinguono (la prima più prospettica e keynesiana, la seconda più emergenziale ed eclettica) entrambe le posizioni dei due firmatari dell’appello di “Micromega” sembrano astratte, poste solo teoricamente, estranee a una comprensione qui e ora delle relazioni, dei nessi materiali tra la crisi pandemica, lo sconvolgimento delle relazioni capitalistiche, l’UE e le sue Istituzioni. Pure astratte, anche se per taluni aspetti più vicine alle cose, le argomentazioni degli altri due autori che ho citato.
Allora cosa sono le Istituzioni europee oggi, cosa è la BCE, cosa è la stessa UE? Qual è l’incedere dei rapporti economici, sociali e politici capitalistici in questi tempi di riproduzione ristretta? Fuori dalle chiacchiere della solidarietà, vedo emergere chiaramente una tendenza allo scontro feroce di capitalismi e di stati nazionali, una guerra di posizione senza esclusione di colpi, nella quale, in una spasmodica ricerca di posti da conquistare, si vogliono definitivamente mettere fuori gioco gruppi oligopolistici e Paesi concorrenti, giunti più deboli e resi ancor più deboli dalla crisi.
A parte la retorica e gli sproloqui, ogni componimento vero degli scontri è ora escluso, nessuna integrazione è alle viste, nessuna politica fiscale comune, nessuno strumento di debito comune, nessun trasferimento di risorse fra Stati e aree, nessuna BCE a supporto delle politiche economiche degli Stati. E naturalmente nessun passo verso una fantomatica unità politica europea. È invece palese la tendenza alla disgregazione dell’euro, della UE e delle sue Istituzioni (ma su questo tornerò più avanti).
Recessione e indebitamento
Il 14 aprile scorso il World Economic Outlook dell’FMI ha previsto una contrazione del 3% del Pil mondiale per l’anno in corso. A gennaio, prima di Covid-19, stimava una crescita del 3,3%. La stima di caduta del Pil in Italia è del 9,1% (per Goldman Sachs addirittura dell’11,6%). La caduta attesa per l’Eurozona è del 7,5%, dell’UE del 7,1%, in Francia del 7,2%, in Germania del 7%, in Gran Bretagna del 6,5%, negli USA del 5,9%. Solo per la Cina si prevede un limitato progresso dell’1,2%.
I deficit stimati per il 2020 sono del meno 8,3% per l’Italia (dal meno 1,6% del 2019); del meno 9,2% per la Francia (dal meno 3%); del meno 9,5% per la Spagna (dal meno 2,6%); del meno 8,3% per la Gran Bretagna (da meno 2,1%); del meno 5,5% in Germania (da un saldo attivo dell’1,4 % nel 2019); del meno 15,4% in USA (da meno 5,8%).
“A fine 2020” scrive Realfonzo (“il Sole - 24 Ore” del 17 aprile), “il rapporto tra debito e Pil in Italia balzerà verso l’alto per tre motivi: il primo è la contrazione del Pil […]. Gli altri due rimandano all’aumento della spesa pubblica e al vistoso calo delle entrate fiscali […]. Con un debito compreso tra il 153% e il 164% del Pil l’Italia si verrebbe a trovare in un campo di difficile sostenibilità del debito […]”. Si renderebbe quindi indispensabile sul piano contabile un avanzo primario consistente per stabilizzare il rapporto debito/Pil, evitandone l’ulteriore aumento.
Ipotizzando lo scenario peggiore, con la necessità di un avanzo del 2,8 - 3%, il governo si troverebbe già nel 2021 a “costringere la spesa pubblica al di sotto del prelievo fiscale per oltre 40 miliardi”. Un massacro sociale dall’esito sicuramente nullo perché l’esperienza degli ultimi decenni ci ha insegnato che le politiche di austerità falliscono nella stabilizzazione del debito.
Il MES (o ESM) - Il Meccanismo Europeo di Stabilità
La modestia del compromesso raggiunto alla riunione dell’Eurogruppo del 9 aprile conferma, scrive Roberto Ciccarelli su “il Manifesto” dell’11 aprile, “che non è possibile una politica economica comune, una BCE che finanzia i debiti pubblici nazionali, sospende il pagamento degli interessi, eroga un reddito di base direttamente alle persone attraverso i governi. La scelta è fatta. Questa è un’improvvisata corsa verso l’abisso”.
Non si può che essere d’accordo. Vediamo perché. L’ESM (o MES) è stato introdotto nel 2012 con la funzione di concedere, sotto condizionalità, prestiti a paesi dell’area euro che si trovino in temporanea difficoltà di finanziamento sul mercato. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nella sua audizione parlamentare del 4 dicembre 2019 ha precisato gli elementi di riforma del Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di Stabilità. L’ESM ha un capitale sottoscritto di 704,8 miliardi, di cui 80,5 già versati. La sua capacità di prestito ammonta a 500 miliardi. L’Italia ha sottoscritto il capitale dell’ESM per 125 miliardi, versandone oltre 14. La quota di ciascun paese membro del capitale dell’ESM si basa sulla chiave di ripartizione del capitale della BCE. La parte del capitale sottoscritta ma non versata è ‘richiamabile’ in qualsiasi momento in caso di necessità: vale a dire i membri dell’ESM si impegnano a fornire il finanziamento corrispondente con breve preavviso.
L’ESM è stato istituito mediante un trattato intergovernativo. È guidato da un ‘Consiglio dei governatori’ composto dai 19 ministri delle finanze dell’area euro. Ha un consiglio di amministrazione con un amministratore delegato (al momento tedesco). Visco ricorda nell’audizione citata “che il sostegno [i prestiti] viene offerto a fronte di una rigorosa condizionalità e di un’analisi di sostenibilità del debito pubblico effettuata […] dalla Commissione europea, di concerto con BCE e ove possibile con l’FMI [la troika]”. La condizionalità assume la forma del programma di aggiustamento macroeconomico (PAM) che può associarsi a “forme adeguate e proporzionate di partecipazione del settore privato”, cioè a ristrutturazione del debito pubblico mediante tagli (cd. ‘haircut’). In quest’ultima ipotesi non c’è chi non veda che la ristrutturazione del debito, se significativa, ha molteplici effetti potenzialmente devastanti sul piano sociale e finanziario.
Sul piano sociale infierirebbe (oltre che sul grande) sul piccolo risparmio delle polizze vita e delle polizze previdenziali integrative, le quali, quasi tutte, hanno per ‘sottostante’ titoli del debito pubblico. Se guardiamo ai nostri possibili riferimenti sociali, ne sarebbero colpiti ampi strati di piccoli risparmiatori di ceto medio ma anche ceti popolari. Sul piano finanziario rischierebbero il ‘default’ numerosi istituti di credito anche medio-grandi che sono possessori, come tutte le banche, di grandi quantità di debito pubblico. Senza contare (e i recenti eventi di Banca Etruria, Venetobanca, Banca Marche ed altre ce lo rammentano), le perdite dei piccoli risparmiatori sottoscrittori di obbligazioni bancarie.
Da tutto questo deriva un quadro di sconvolgimento del sistema dei pagamenti, di blocco del credito bancario, di crollo dei valori mobiliari. In una parola il caos finanziario, ancor maggiore di quello che abbiamo visto nelle crisi del 2008 - 2009 e del 2011 - 2012.
L’intervento del MES, ci ricorda Visco, “non avviene mai nelle forme di trasferimento a fondo perduto”. Il “programma di aggiustamento macroeconomico” o PAM è “specificato in un apposito memorandum” e sorvegliato nella sua attuazione (troika). Il PAM, narra Visco, è “meno stringente” nell’ipotesi di concessione “di linee di credito precauzionali, destinate a Paesi in condizioni economiche e finanziarie fondamentalmente sane ma colpiti da shock avversi”. Cosa sono le linee di credito precauzionali? Ne esistono di due tipi accompagnate “da condizioni definite in un ‘Memorandum of Understanding’: la linea di credito condizionale precauzionale [acronimo PCCL], riservata ai paesi che […] non presentano squilibri macroeconomici eccessivi e che non hanno problemi di stabilità finanziaria, e la linea di credito soggetta a condizioni rafforzate [acronimo ECCL], destinata a paesi che non rispettano pienamente i suddetti criteri, ai quali pertanto vengono richieste misure correttive”.
È sull’utilizzo di questo secondo tipo di prestito, cioè quello a “condizioni rafforzate” (ECCL) che è stato raggiunto l’accordo per finanziare l’extra-spesa sanitaria (diretta e indiretta) da Covid-19. Al momento della concessione e dell’erogazione il prestito non è sottoposto ad alcuna condizione se non a quella dell’utilizzo dei fondi conformemente allo scopo per cui sono stati concessi (cioè il finanziamento della spesa sanitaria) e così per il tempo di durata del credito (fine dell’emergenza sanitaria). “Per l’ESM” ci ricorda Visco “come per qualsiasi prestatore, non avrebbe senso erogare credito a chi ha un debito che non è considerato sostenibile, visto che si tratterebbe di un trasferimento a fondo perduto […]. I prestiti in termini di condizionamento ex-ante e di monitoraggio ex-post che accompagnano i finanziamenti dell’ESM erano e restano doverosamente rigorosi”.
Nel comunicato dell’Eurogruppo dopo la riunione del 9 aprile si legge che la linea di credito del MES (probabilmente 240 miliardi in tutto, di cui 36 all’Italia) “sarà disponibile fino alla fine dell’emergenza”. E dopo? “In seguito gli stati membri dell’area euro rimarranno impegnati a rafforzare i fondamentali economici e finanziari coerentemente con il quadro di coordinamento e sorveglianza economica e fiscale dell’UE”. Dunque la ridotta condizionalità (spesa sanitaria da Covid-19) è a tempo? Probabilmente sì. Il ‘monitoraggio ex-post’ della sostenibilità del debito accumulato (diciamo tra 153% e 164% del Pil) porterà a chiedere a un paese stremato come l’Italia un rimborso immediato del prestito o un piano di rientro.
Gli interventi proposti dall’Eurogruppo sono, si è visto, semplicemente prestiti più o meno onerosi, che ampliano il debito dei paesi che li contraggono e sono il frutto di una visione dell’UE fatta di scontri intergovernativi, interstatali, intercapitalisti. Ognuno si sta armando commercialmente in vista dello scontro con gli altri e alcuni Stati si stanno armando meglio degli altri.
Usando le faziose ma realistiche parole di A. Cerretelli (“Il Sole - 24 Ore” del 18 aprile): l’UE “certo, non arriva ai pasti gratis o ai prestiti a fondo perduto: [è] giusto pretenderli in una confederazione di Stati sovrani gelosi della propria politica economica e di bilancio e ormai alieni dall’Unione politica?”. L’esatto opposto, questo pensiero così vicino ai processi reali, del film vagheggiato dalle ‘anime belle’ di un europeismo come dovrebbe essere, di una politica economica e fiscale comuni come dovrebbero essere, di un’unione bancaria come dovrebbe essere, di un solidarismo assolutamente ineludibile, come dovrebbe essere in momenti drammatici come quello che stiamo attraversando.
Le stesse ‘anime belle’ che invocavano e invocano l’eurobond come tassello importante di un processo che potrebbe (meglio che avrebbe potuto) portare a disegnare un’Europa integrata. Ma l’eurobond (coronabond), pur con qualche dissenso in Germania, non è all’ordine del giorno. Se prima della pandemia qualcuno poteva pensare che ci fosse ancora spazio per una mobilitazione e un’alternativa europee da giocarsi in un terreno economico-politico più vasto di quello nazionale, la pandemia ha rivelato l’illusorietà di una tale visione.
I Recovery bond
La Commissione UE ha ripetutamente dichiarato nei giorni scorsi che il rilancio economico, dopo la fase di confinamento dettato dalla pandemia, avrebbe richiesto “enormi investimenti”, per migliaia di miliardi. “Il prossimo bilancio deve essere la risposta alla crisi sanitaria […]. Dovrà essere diverso dai bilanci normali”, così ha detto la presidente della Commissione Ursula von der Leyen il 15 aprile. Il parlamento europeo il 17 aprile ha approvato una risoluzione “non vincolante” che invita l’UE a “proporre un massiccio programma di rilancio i cui investimenti sarebbero finanziati da un accresciuto bilancio europeo […] così come da obbligazioni per la ripresa [i recovery bond] garantite dallo stesso bilancio senza comportare mutualizzazione del debito esistente” (da “Il Sole - 24 Ore” del 18 aprile). Un emendamento dei Verdi a favore degli Eurobond è stato respinto.
Si tratta della costituzione di un Fondo, frutto dell’accordo franco-tedesco, dedicato alla ‘ripresa’ che emetterebbe i recovery bond con leva del bilancio UE (cioè per una somma superiore all’entità del bilancio stesso), pare per 1.000-1.500 miliardi. Il bilancio UE, salvo le relativamente modeste entrate derivanti dall’IVA e dall’incasso delle royalties, è retto dal contributo degli Stati. L’attuale bilancio comunitario 2014-2020 ha un valore di circa 1.000 miliardi di euro destinati, diciamo, al funzionamento dell’attività ordinaria. Per il promesso impegno straordinario (gli ulteriori 1.000-1.500 miliardi di cui 200 andrebbero all’Italia), servono ulteriori risorse.
Anche se non è affatto escluso che venga chiesta agli Stati un’ulteriore contribuzione, la provvista dovrebbe arrivare in larga misura da operazioni di finanziamento compiute sul mercato dal Fondo anzidetto allocato, sembrerebbe, a mo' di tesoretto, nelle maglie del bilancio europeo.
Dato il maggior merito di credito della Commissione, i Recovery bond sconterebbero tassi più bassi di quelli di gran parte degli Stati, e sarebbero gestiti dalla Commissione, la cui presidente gode della fiducia dei Paesi del Nord. I finanziamenti sarebbero erogati come prestiti onerosi ai singoli Stati, al contrario degli eurobond, che sono obbligazioni comuni degli Stati membri di cui gli stessi rispondono in base al principio giuridico della responsabilità solidale. Quindi bond a leva (i recovery) basati sul bilancio intergovernativo e contabilizzati come nuovo debito dei paesi percettori, che si contrappongono ai titoli di debito comune (gli eurobond) che, anche se collocati sul mercato, non verrebbero contabilizzati come debito dei singoli paesi.
I finanziamenti del Fondo (o della Commissione) non sarebbero comunque disponibili prima del gennaio 2021, cioè dopo l’approvazione del bilancio pluriennale 2021-2027. Ad una domanda sui tempi di erogazione (“la Repubblica” del 18 aprile), il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha risposto: “Per il momento abbiamo fatto il necessario. Credo che nel breve termine nessun paese avrà problemi di finanziamento sui mercati [?]. Seguiamo la situazione settimana dopo settimana e in caso di necessità proveremo ad anticipare alcune decisioni senza aspettare il gennaio 2021”. Le vicende di questi giorni (spread a 250 punti il 21 aprile, -15% di Pil nella stima fatta dall’Authority per il primo semestre 2020) dimostrano che l’Italia (e non solo) ‘nelle more’ potrà fare abbondantemente in tempo a dichiarare default. E ancor prima di conoscere l’esito del Consiglio del 23 aprile, ci sentiamo di dire che per Conte, Gualtieri e compagnia sarà un fallimento che sarà grossolanamente contrabbandato per un successo.
L’arsenale degli Stati e il capitale pubblico
La Germania per condizioni favorevoli di bilancio e per una strumentazione collaudata da decenni, è ripartita a ritmi molto più accentuati degli altri sia per le ‘riaperture’ a pandemia in corso sia per il ‘FlaK-18’ da 1.200-1.300 miliardi di euro (45% circa del Pil) già immesso nella propria economia e implementato il 15 aprile scorso da: 50 miliardi a fondo perduto alle piccole imprese (ulteriori aiuti a fondo perduto verranno dai Lander), prestiti illimitati da KfW garantiti per 1.200 miliardi dallo Stato (al 90% o 100%), un’imponente sostegno pubblico alla cassa integrazione. Risorse molto maggiori di quelle dispiegate dalla Francia (400 miliardi oltre le garanzie) e dell’Italia (70-80 miliardi oltre le garanzie ai crediti per 400). La Francia proprio per il timore che Berlino possa riemergere dalla crisi più potente di prima, ha tatticamente concluso un patto transitorio (già estinto) con i Paesi del Sud.
In queste settimane passa sotto silenzio una vicenda importante di cui ho parlato in precedenza: l’ingresso pubblico nel capitale di aziende in crisi, come ‘ultimo argine’ a protezione degli asset di valore dei paesi UE dalle mire di compratori stranieri (cinesi o statunitensi). Ma è questa la sola ragione? No, la vera ragione è di socializzare subito le perdite private con una socializzazione di breve, brevissima durata, alla quale dovrà far seguito prima possibile il ritorno alla situazione preesistente.
Infatti è in corso una trattativa tra il governo italiano nella persona del ministro per gli Affari europei Amendola (Pd) e la commissaria alla concorrenza Vestager. L’UE accetta in questa crisi la ‘ricapitalizzazione precauzionale’, cioè l’ingresso di capitale pubblico anche fuori dal mondo bancario (come avvenuto con MPS), cioè in aziende di altro tipo. La Commissione accetta un ingresso di brevissima durata con piani di uscita da realizzare entro il 2020. Il governo italiano chiede più tempo. Si tratta di un negoziato che verte sulla portata della deroga agli aiuti di stato, deroga che ha già trovato applicazione nel via libera al rafforzamento del ‘Golden Power’ e nell’utilizzo delle garanzie statali nel decreto ‘liquidità’.
Ritornando al discorso iniziale, la posizione della Germania, sempre attenta al ruolo dello Stato nell’economia quando le crisi minacciano le sue industrie nazionali, consiste nella richiesta di svincolare dalle verifiche dell’Antitrust comunitario le operazioni di ingresso pubblico nel capitale di aziende in crisi fino a 5 miliardi. L’Italia e la Francia si accontentano di 250 milioni. La Commissione propone la soglia più bassa di 100 milioni. Mentre scrivo non sono a conoscenza di un eventuale accordo. È di queste ore la notizia dell’inserimento, da parte del governo, nel decreto ‘Aprile’ di un finanziamento di 40 miliardi alla Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe operare sulla falsariga della tedesca KfW.
Conclusioni
La pandemia sta disvelando giorno dopo giorno la realtà marcescente delle Istituzioni economico - politico - giuridiche della UE: un complesso contraddittorio e conflittuale, con rari momenti di equilibrio, costruito negli ultimi decenni per gestire la supremazia e la crisi del capitale finanziario a danno delle masse popolari. La crisi pandemica accelera il collasso dei meccanismi di regolazione dei conflitti, delle compensazioni, degli accordi oligopolistici tra gruppi e Stati. Qualunque sia l’accordo che i governi ratificheranno il 23 aprile, esso si porrà in questo solco. Per l’Italia tre prestiti di somme inadeguate alla gravità della situazione, prestiti che accrescono il suo indebitamento. Uno di essi (la linea di credito del MES), carico di ambiguità e pericolosità, come può esserlo un assegno firmato in bianco dal debitore e consegnato al proprio creditore. Il quarto (i recovery bond), tardivo. Non è difficile prevedere che i mesi che ci attendono ci consegneranno devastazione sociale e macerie politiche e civili. In questi mesi il capitale si ricostituirà su nuove basi attraverso conflitti e fagocitazioni. I prossimi mesi vedranno, a mio giudizio, la progressiva putrescenza delle istituzioni europee.
E proprio in questo tempo si misurerà la coscienza e la capacità dei subalterni di elaborare una buona teoria e una buona prassi di lotte, di politica, di alleanze, lungo il percorso complesso di una transizione, non breve e non facile da prevedere in tutti i suoi passaggi, che può portare alla fuoriuscita dalle istituzioni europee, in primis dalla moneta. Nostro compito è di contrastare con ogni mezzo una fuoriuscita a destra, di tipo autoritario e parafascista, le cui avvisaglie sono largamente visibili in queste settimane. Il processo di cui parlavamo, accelerato dalla pandemia, dovrà essere costellato di concrete iniziative politiche, sociali, culturali: senza cadute politicistiche ma attraverso validi momenti tattici in una ampia visione strategica. Sarebbero invece deleterie scelte aprioristiche e declamatorie slegate dai processi materiali. In questo percorso dei prossimi mesi si giocherà molto della nostra capacità di favorire una fuoriuscita democratica e di sinistra dalla crisi verso l’ambizioso orizzonte del socialismo.