Il divario tra le risorse disponibili in un territorio, ovvero la ricchezza economica, rispetto a un altro fattore carente, ovvero la povertà economica, sottende e avvia i flussi migratori che, da sempre, hanno in sé motivazioni economiche, cioè uscire dalla povertà e cercare migliori condizioni di vita, accompagnate da motivazioni di lavoro, cioè trovare un impiego altrove o migliorare il posto di lavoro.
La mancanza delle politiche di regolarizzazione dei movimenti, spostamenti, influenzano l’economia, sia quella dei Paesi d’arrivo sia quella dei Paesi di partenza.
Dunque, si emigra per migliorare la propria condizione. La mancanza di opportunità di lavoro nel Paese di origine si accompagna alla riduzione degli incentivi e, così, si abbandona la propria terra per andare altrove.
Eppure, la povertà è un fattore che ostacola l’emigrazione. Dove il reddito è medio-basso (a esempio in Nord Africa) è più facile andarsene rispetto alle difficoltà che si incontrano in Paesi con reddito molto basso (a esempio Africa sub-sahariana).
Allora, troviamo migranti economici per lavoro accanto a migranti per riunirsi alla famiglia, a quelli per rifugio politico e a quelli – dei quali poco si parla – cosiddetti climatici, che migrano da Paesi dov’è elevata la siccità e dov’è aumentato il livello dei mari.
Dove si emigra? Ci sono differenze, quando si analizza in geopolitica economica, sui Paesi di destinazione, legate al passato coloniale, alla vicinanza geografica e allo sviluppo casuale di catene migratorie.
Quando assistiamo al calo dell’offerta di lavoro vediamo contemporaneamente un calo drastico dei flussi migratori regolati.
Così è il ricongiungimento familiare la formalità più frequente di nuovi arrivi.
Va altresì considerato che irregolarità e clandestinità influenzano il mercato del lavoro e, dunque, l’economia del Paese di accoglienza. Il rischio di concorrenza occupazionale al ribasso è alto e, con sé, porta anche al rischio sicurezza. Se ci fermiamo all’Italia potremmo portare l’esempio del “caporalato” gestito dalla malavita organizzata in alcune zone del Paese.
Ora, la migrazione riduce la popolazione attiva del Paese d’origine e, se non fossero previsti incentivi al ritorno, ci troveremmo davanti a Paesi con sempre più elevata inflazione e riduzione della capacità di spesa per le famiglie, in particolare per quelle che non ricevono “rimesse” dai parenti migrati. Perciò un effetto collaterale da considerare è legato alla pratica delle rimesse che, nel 2010 (da dati ONU), erano di 325 mld di $: quell’anno segnarono un + 6% rispetto al 2009, quando venne registrato un calo del 5% rispetto al 2008, anno a cui si riporta l’inizio della perdurante crisi economica internazionale ancora in atto. Nel 2008 ci fu un rallentamento delle migrazioni, poi i flussi aumentarono.
Per brevità possiamo parlare di effetti demografici a cui conseguono rapidamente effetti economici. Potremmo citare, a titolo esemplificativo, i due periodi con le grandi emigrazioni italiane, ovvero gli anni 1876-1900 e 1901-1915, per sottolineare la definizione dello spazio economico-sociale da parte dello sviluppo dualistico del sistema economico mondiale di stampo capitalistico.
Innegabile riscontrare come gli immigrati diventino, per la loro maggiore propensione alla intraprendenza, per la loro più giovane età e, spesso, per la loro maggiore istruzione, qualificati lavoratori in settori come l’edilizia, l’agricoltura, l’industria e il terziario alimentare.
L’economia mondiale tiene conto del fenomeno migratorio, della trasformazione di Paesi da immigrazione a immigrazione e viceversa, con la reversibilità per gravi crisi economici o conflitti bellici.
Anche il fenomeno della discriminazione si lega all’analisi geoeconomica: gli stranieri senza documenti legali, i clandestini, contemplano anche quelli rimasti senza permessi validi, arrivati per turismo e non per lavoro o per ricongiungimento familiare che entrano nel mercato del lavoro e vengono sfruttati laddove domina il capitalismo. Qui si può fare un cenno ai flussi dei migranti Rom, sinti e camminanti, che non si integrano nel mondo del lavoro nei Paesi dove sono presenti, più temporaneamente che stabilmente.
Le statistiche dell’ONU dicono che i migranti nel mondo erano 81 mln nel 1970, 156 mln nel 1990 e 214 mln nel 2010. I migranti mondiali nei cinque maggiori Paesi europei sono passati dall’11,4% del 1990 al 16,2% del 2010; negli USA dal 15% al 20%.
I Paesi europei hanno contemplato il passaggio dall’origine di emigrazione a destinazione di immigrazione negli ultimi 200 anni: in Francia la transizione si è avviata a metà dell’Ottocento, in Germania a fine Ottocento, nel Regno Unito dopo la prima guerra mondiale, in Spagna e Italia negli ultimi trent’anni. In Italia si contano 4,5 mln di stranieri contro i 4 mln di italiani nel mondo.
Gli effetti della crisi degli anni 2008-2009 con l’aumento della disoccupazione sono molto evidenti in Spagna: qui nell’ultimo decennio si è assistito a una forte crescita di immigrazione, la ctrisi ha colpito soprattutto gli immigrati a fine 2009, la disoccupazione è arrivata al 18,8% per gli spagnoli e al 29,7% per i lavoratori di altra origine etnica.
Ricordiamo anche i fenomeni migratori in India, Pakistan e Bangladesh: gli spostamenti di quasi 13 mln di persone sono avvenute per motivi religiosi, mentre in Cina è stata elevata la migrazione interna, dalla campagna alle città per motivi di lavoro. In Sud Africa si evidenzia la migrazione irregolare passata da 2,5 mln di persone a 8 mln per effetto della desertificazione e l’assenza di acqua in Paesi vicini. In Africa nel 2010 quasi 20 mln di persone sono state migranti interne e molte hanno raggiunto dal Centro Africa la Libia, principale punto di arrivo e passaggio per le opportunità di lavoro nell’estrazione di petrolio, fattore riscontrato anche nei Paesi arabi e asiatici.
L’aridità dei numeri spiega il fenomeno dei flussi migratori sostanzialmente per motivazioni economiche; si pensa di lasciare il proprio Paese d’origine per raggiungere località dove si ritiene che ci siano occasioni di lavoro. I Paesi capitalisti ed ex-colonialisti importano manodopera: dopo la seconda guerra mondiale aziende occidentali hanno reclutato in massa lavoratori stranieri per sostenere il loro boom economico, poi le crisi economiche hanno rallentato i flussi migratori. Dopo il 1989 e la crisi dei Paesi dell’Est europeo ci furono ondate migratorie da Paesi come Polonia, Romania, Albania verso Paesi dell’occidente. In quindici anni (1995-2010) del peso del G7 nel PIL mondiale a parità di potere d’acquisto è calato dal 50,3% al 39,5%. Contemporaneamente sono aumentati fenomeni di xenofobia e rifiuto dei migranti, esplosi durante le acute crisi economiche e militari.
Per noi la dignità delle persone viene prima d’ogni altra cosa.