Roma. Molto frequentato e intenso il convegno del 11, 12 e 13 ottobre alla Casa internazionale delle Donne in via della Lungara a Roma, indetto raccogliendo l’invito lanciato dal gruppo di lavoro Libertà delle donne nel XXI secolo in partnership con la Casa e Transform Europe: una quarantina di relatrici, attiviste e studiose internazionali di diverse generazioni hanno apportato contributi di analisi, resoconto di casi emblematici e riflessioni sul tema del Lavoro, sul suo senso per le donne oggi, e sulle prospettive che i nuovi lavori possono dare alle più giovani: una riflessione in ottica femminista, che si è sforzata di tenere insieme teoria e pratiche, desideri e realtà, ricerca del lavoro e ricerca di sé.
La necessità di un’economia politica femminista che ci consenta di svelare la connessione fra diseguaglianza e radici sociali della violenza e delle guerra è stata la chiave del significativo intervento della tedesca Heidi Meinzolt, responsabile per l’Europa della WILPF, Women’s International League for Peace and Freedom, e coordinatrice del gruppo di lavoro women&gender della Civic Solidarity Platform dell’OSCE Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa istituita in seguito agli accordi di Helsinki del 1975.
Da esperta in tema di sicurezza delle persone, rispetto dei diritti delle donne e della pace, prevenzione e soluzione non violenta dei conflitti, con particolare attenzione al ruolo delle donne nei processi di pace, Meinzolt ha approfondito l’impatto delle politiche neoliberiste sui contesti sociali e sull’innesco di misure di austerità e conseguente impoverimento, crescita delle spese militari, perdita dei diritti umani e povertà delle donne.
La relatrice tedesca ha ricordato come non sia stato di aiuto nell’immettere dinamiche trasformative nel modo di fare economia negli ultimi venti anni neanche il Global Compact for Business and Human Rights, un patto volontario senza però vincolo legale per implementare un insieme di valori chiave nelle aree dei diritti umani, delle donne, delle tutele sindacali e standard del lavoro, legalità, contrasto alla discriminazione e al lavoro minorile e tutela ambientale. Si tratta di un’iniziativa accesa a New York nel 1999 dalle Nazioni Unite di Kofi Annan con i business leader riuniti a Davos, e nel corso di questi decenni è stato sottoscritto dai top manager di oltre 18.000 aziende da 160 Paesi del mondo che aderendo a una piattaforma di valori condivisi e linee guida, e attraverso un forum di verifica periodico, si propongono di contribuire a una nuova fase della globalizzazione che dovrebbe essere caratterizzata dal coinvolgimento di aziende, sindacati e associazioni di categoria con azioni precise di sostenibilità nel lungo periodo, cooperazione internazionale e partnership, con il fine di immettere nelle leggi economiche anche la prospettiva di portatori di interesse sociale diverse dalle imprese, quali l’ambiente e il clima, le minoranze discriminate di tipo etnico, di genere e di orientamento sessuale, etc.
Un ottimismo progressista che si infrange però sulla realtà del Business globalizzato fatto oggi di imponenti cambiamenti climatici, recessione economica, competizione per le risorse divenute insufficienti per garantire i tassi di crescita: uno scenario che allarga il divario economico fra Paesi e produce nuovi conflitti e guerre che negli ultimi anni sono apparsi esplodere in contesti geopolitici locali apparentemente circoscritti - spesso connotati da dinamiche di tribalismo – ma che a un’analisi attenta sono il riflesso e il portato di interessi di profitto globali, e criticità volutamente immesse nel sistema dal neoliberismo forzato dalle élite economico-politiche sulle masse della popolazione mondiale.
Nei conflitti bellici l’allentamento e la dissoluzione della compagine sociale sovvertita dalle dinamiche militari – con immancabile corollario di pulizia etnica, rapimenti, stupri di guerra e sostituzione di popolazioni – espone le donne in maniera spropositata alla violenza e allo sfruttamento sessuale, come abbiamo visto emblematicamente succedere nella guerra contro l’Isis/Daesh e nei conflitti africani. Questa condizione di insicurezza persiste poi nelle fasi – o intervalli – postbellici connotandosi stabilmente come Tratta verso il Nord del mondo e traffico di esseri umani. L’aggressività della dinamica capitalista nelle comunità rurali del Sud America, portata avanti dalle multinazionali anche recentemente in Amazzonia, produce devastazioni ambientali inusitate, e l’impatto violento e il prezzo maggiore lo pagano le donne e i bambini, ricacciati e costretti in contesti depauperati, inquinati e privi di qualsiasi diritto e protezione sociale.
Nel continente Europa il capitalismo finanziarizzato sta perseguendo la flessibilità nel lavoro, l’outsourcing cioè le esternalizzazioni e le delocalizzazioni selvagge e i conseguenti licenziamenti di massa, per trarre profitto dal dumping intraeuropeo, e nel caso delle multinazionali da un regime di sostanziale impunità ed “evasione fiscale” legalizzate: secondo i dati della CGIA di Mestre le big corporation pagano il 5% di tasse sui profitti godendo un vantaggio sistematico rispetto alle altre categorie produttive che sono tassate al 42,4%. Questi dati si riferiscono al 2017, con l’Italia al sesto posto per imposizione fiscale tra i grandi Paesi industrializzati. Sempre più la finanziarizzazione dell’economia – una dinamica parassitaria in cui si vorrecche che il denaro creasse altro denaro senza immettere lavoro nelle società – mette le ali ai paradisi fiscali anche all’interno della UE sottraendo risorse e minando pesantemente il welfare europeo, che aveva tentato timidamente dal dopoguerra di “socializzare i costi” della “riproduzione sociale” gravante solo sulle spalle delle donne. Ora il welfare sta declinando rapidamente e sono soprattutto le donne a pagarne il conto: dover scegliere se lavorare o fare figli (in Italia nel 2018 ci sono stati 35.000 abbandoni lavorativi di donne con figli).
Si allarga anche la fascia dei working poors: nel 2017 un lavoratore su dieci rientrava in quest’area grigia, cioè di quanti, soprattutto donne, pur avendo un impiego sono ricacciati in una condizione di povertà relativa. Intanto al crollo del welfare sociale la ricetta capitalistica contrappone la privatizzazione e conseguente monetizzazione dei rischi sociali – vera manna per enti assicurativi e Fondi di investimento – peccato che le europee guadagnino troppo poco per permettersi assicurazioni e secondi e terzi pilastri pensionistici.
Al culmine di questo “psicodramma” economico anche gli Stati, aggrediti dalle agenzie di rating, vengono batostati dalle politiche di austerità imposte dagli organismi di controllo sovranazionali che hanno abbracciato la filosofia del “debito pubblico”.
In questo contesto la questione migratoria – malgestita e maldigerita – anziché essere letta come epifenomeno e conseguenza delle contraddizioni della attuale fase capitalistica, ha finito per intercettare e aumentare il senso di frustrazione del corpo sociale europeo, che la utilizza come “capro espiatorio” deresponsabilizzante, mentre si assiste all’esplosione di grandi conflitti sociali tra cui emblematiche sono state le recenti proteste dei Gilet Gialli nei principali centri urbani della Francia.
Questa fase dell’Europa si traduce a livello antropologico in individualismo sociale, sfiducia istituzionale, diserzione dal voto e dalla partecipazione, mentre a livello politico assume un volto ideologico, con la rinascita di istanze identitarie, da cui emergono atteggiamenti di nazionalismo esasperato, populismo e razzismo, attacco ai diritti delle donne, come si osserva in particolare nei Paesi del Gruppo di Visegrad e in Italia, ma un po’ dappertutto in Europa: atteggiamenti che si coagulano in rivendicazioni localistiche – delle minoranze Sudtirolesi in Italia e dei Danesi in Germania – e in istanze di “decontestualizzazione” e autonomia, come in Catalogna o nella richieste di “andarsene” da parte delle ristrette élite economiche della Brexit inglese.
Sul pericolo di arretramento dei diritti delle donne nei paesi centro europei si è concentrato anche l’intervento dell’ungherese Borbála Juhász, storica del femminismo e attivista in Ungheria della European Women’s Lobby. La strumentalizzazione del dibattito sul “gender” nell’Ungheria di Orban, e l’enfasi sul ruolo tradizionale della donna nella famiglia, posta da ideologie nazionalistiche e religiose reazionarie, è stato il pretesto per rilanciare una politica demografica familistica che attraverso strumenti come il congedo di maternità di tre anni per le mamme sta espellendo le donne dal mercato del lavoro.
Meinzolt ha anche portato l’esempio della società tedesca dove lo split sociale e il differenziale nelle opportunità sono in questi anni drammaticamente aumentati: traumi che producono paura e frustrazione, e grande rabbia sociale che innesca un cortocircuito di atteggiamenti di ansia, diffidenza, e aumento della violenza anche nelle relazioni interpersonali e di genere: “Anche nel cuore dell’Europa la gente sta acquistando armi, e ci troviamo ormai in presenza anche da noi di una popolazione armata: il 25% dei tedeschi tiene in casa armi leggere a cui ricorre per difesa e sempre più in caso di violenza domestica: si registra infatti un aumento di omicidi e femminicidi”.
Dalla crisi del 2008, in Germania il mantra di “mettere le donne al lavoro” e del loro “Business empowerment” per sostenere la società viene ancora continuamente ripetuto, e oggi rimotivato secondo la precettistica della moderna womenomics, senza mai mettere in discussione le contraddizioni prodotte dalla crescita economica capitalistica. Anche nella discussione sul clima, anticipate dalla grande tradizione dei Verdi tedeschi, la pregiudiziale che viene sempre portata dalla politica è che gli interventi correttivi devono salvaguardare la crescita. Nelle Università tedesche in generale non si prendono in considerazione modelli alternativi, ma alcune economiste hanno incominciato a introdurre nell’insegnamento elementi di economia femminista alla ricerca di un’alternativa alla crescita spasmodica e obbligatoria. “A questo punto è compito delle donne e delle femministe in particolare mettere in discussione questi assiomi: le donne spagnole e perfino le svizzere a modo loro l’hanno fatto nel 2018, scendendo in strada e reclamando un cambiamento di sistema e della filosofia stessa del lavoro, mentre le donne tedesche per ora si rifiutano di ripetere la storica esperienza delle ‘Suffragette’ per chiedere i propri diritti”.
Un atteggiamento che secondo Heidi Meinzolt il movimento delle donne contemporaneo dovrebbe rilanciare in tutta l’Europa, mutuando per esempio la campagna lanciata da WILPF Move the money from war to Peace per ridurre le spese militari e ri-orientarle verso voci di welfare sociale come lavoro, salute, scuola. Le donne devono spingere a livello istituzionale governi e UE a implementare gli obiettivi della Piattaforma di Pechino promossa dall’ONU nel 1995 e rinnovata in varie Conferenze Mondiali delle donne; un impegno sottoscritto da quasi tutti i Paesi europei per implementare 12 aree critiche per le donne, che sono state enfatizzate anche dalla recente campagna ONU “Pianeta 50-50 entro il 2030”: povertà, istruzione e formazione, salute, diritti delle bambine e violenza contro le donne, conflitti armati, economia, potere e processi decisionali, meccanismi per favorire il progresso, diritti fondamentali, media, ambiente.
Annick Coupé, sindacalista e presidente di Attac France, associazione che si batte per I diritti ambientali, della casa, del lavoro e contro l’impunità delle multinazionali ha portato il caso Francia come esemplare della situazione dei paesi europei a sviluppo consolidato dove, a fronte di 40 anni di occupazione di massa – con 16 milioni di uomini e 14 milioni di donne nella forza-lavoro –, persiste l’ineguaglianza delle donne sia nel lavoro domestico – che resiste nelle famiglie a ogni redistribuzione tra i generi – sia nel mercato del lavoro sotto vari aspetti: il tasso delle donne sottoccupate, cioè di quelle costrette a lavorare meno di quanto vorrebbero, resta alto e il lavoro discontinuo e part-time le vede all’82% del totale, riflettendosi in un futuro di pensioni povere e svilimento sociale per le donne che già oggi subiscono un differenziale pensionistico pari al 40%, mentre per le occupate il differenziale salariale con gli uomini raggiunge il 20%.
Le donne nella loro generalità in Europa non sono state in questi decenni risparmiate dall’aderire a quel dispositivo messo in gioco dal capitalismo sviluppista che è consistito nell’espansione della (bassa) classe media, una dinamica del desiderio che ha saputo creare l’illusione di una forma di mobilità sociale che appaga soprattutto il bisogno e le aspirazioni di autorealizzazione individuali. E allora nel corso delle generazioni novecentesche molte si sono gettate negli studi e nel perseguire carriere professionali un tempo riservate agli uomini: peccato che nel mercato del lavoro francese oggi le donne continuino a vivere nel demansionamento cronico – 2/3 dello Smic, il salario minimo introdotto in Francia nel 1950, finisce nelle buste paga delle donne – con limitate filiere professionali accessibili, blocco delle carriere, prepensionamento forzato.
Soprattutto, le giovani donne oggi sono costrette a vivere all’ombra della sottoccupazione e di salari parziali frutto di “lavoretti” e patchwork esistenziali insostenibili. L’alta scolarizzazione raggiunta dalle giovani donne e l’alta formazione universitaria che le vede ben più protagoniste dei maschi nelle lauree e nei dottorati non sono più dinamiche capaci di garantire un qualche ascensore sociale al “gentil sesso”. Non sono bastate dunque le leggi a garantire diritti sociali e lavorativi reali alle donne all’interno del costrutto patriarcale delle società occidentali: la società e il mondo del lavoro resistono al desiderio di uguaglianza femminile e potranno essere investiti dal cambiamento solo attraverso un’azione di decostruzione culturale che passi per la messa in discussione del ruolo della donna prima che nel lavoro, nella politica, nella famiglia e nelle relazioni di genere fra donna e uomo.
Anche l’italiana Claudia Candeloro ha evidenziato come in ragione del processo di integrazione europea la normativa italiana sul lavoro abbia subito grandi cambiamenti che hanno fatto deragliare il sistema italiano delle tutele da una fase di “universalità” dei diritti guadagnata sulla scia delle lotte del movimento operaio degli anni ‘60 e ‘70 del Novecento alla fase attuale, in cui vaste categorie di lavoratori e lavoratrici nella New Economy non sono più tutelati nei diritti sindacali, del lavoro e della conciliazione famiglia-lavoro. Accanto alla erosione di tutele storiche come il diritto al reintegro nel posto di lavoro per licenziamenti senza giusta causa (che impegnava a tempo pieno avvocati e giudici lavoristi durante le crisi industriali tra gli anni Sessanta e Novanta), si è evoluta una normativa antidiscriminatoria che ambirebbe alla tutela rafforzata di gruppi di lavoratori considerati potenzialmente a rischio di discriminazione a motivo della loro ideologia, età, genere, orientamento sessuale, o condizioni di disabilità. Candeloro denuncia come una siffatta normativa, lungi dall’aver garantito una tutela rafforzata alle lavoratrici – peraltro rimaste oggetto di ricatto su più fronti in ambito lavorativo – le costringa invece ad assumere l’onere quasi sempre insostenibile di dimostrare che la violazione dei loro diritti è conseguenza di un “atteggiamento discriminatorio”, derubricando di fatto a conflitto inter partes ( di natura privatistica) la fondamentale lesione di un diritto alla tutela nel Lavoro che è e deve restare universale.
Skerdilajda Zanaj – Economista, professoressa associata e delegata di Genere all’Università del Lussemburgo e consulente del governo albanese per la regolamentazione economica e il processo di adesione all’Unione Europea – ha presentato il caso del suo paese, l’Albania: la nazione europea più povera ma con un tasso di partecipazione delle donne al lavoro maggiore che in Italia. Nella Culture Economics le ricerche recenti indagano, formalizzano attraverso dati matematici ed enfatizzano l’impatto dei differenziali di formazione, genere, etnia, e altre variabili socio-economiche tra le discriminanti nell’accesso al lavoro e a migliori opportunità occupazionali, soprattutto dopo l’avvento della New Economy. Con riferimento a 4 fattori fondamentali attivi sul divario di Genere nel Lavoro nella generalità dei Paesi – fattori storico-geografici, norme sociali e loro trasmissione, sviluppo economico e povertà – S. Zanaj ha evidenziato come in Albania l’atteggiamento sociale nei confronti delle donne e dei loro ambiti lavorativi sia stato diverso durante l’occupazione ottomana per cinque secoli dal 1478 al 1912, l’occupazione italiana e tedesca dal 1939 al ‘43 e nell’esperienza della Repubblica Socialista di Albania tra ’46 e 1991.
Nel 2003 uno studio realizzato da Guiso, Sapienza e Zingales aveva evidenziato come, pur con differenziali fra le diverse religioni, le persone religiose e i fedeli attivi esprimono meno supporto verso i diritti delle donne e verso un ruolo delle donne all’interno della famiglia diverso da quello tradizionale. Lo studio Telhaj&Murphy del 2019, ha analizzato secondo seri criteri econometrici la variabilità della partecipazione al lavoro delle donne nel periodo “antireligioso” successivo al 1967, anno in cui l’Albania si era dichiarata primo paese ateo al mondo, vietando ogni forma di espressione religiosa. Dalla ricerca emerge il profondo impatto della religione sui ruoli di genere e l’accesso delle donne al mercato del lavoro. Da un paese “feudale” fino al 1946, dove la donna lavorava nei campi, sostanzialmente esclusa dal mercato del lavoro, in 20 anni sono state guadagnati grandi diritti al lavoro per le donne, prima nella fase dell’Albania comunista, e poi il trend è continuato grazie alla trasmissione intergenerazionale tra madre e figlia albanese del nuovo modello culturale di donna-lavoratrice e le donne non sono più “tornate a casa”. Oggi l’accesso alla formazione universitaria delle donne albanesi è in costante crescita e la loro partecipazione al mercato del lavoro è esplosa raggiungendo il 57,7% con un incremento veloce di 8 punti negli ultimi 5 anni, mentre il divario salariale fra donne e uomini è di solo 5,4 punti percentuali, quando la media mondiale è del 18,4% (dati ILO, International Labour Organization 2018).
Tra gli studenti universitari albanesi il 44,6% sono maschi e il 67,9% sono femmine e gli stage di specializzazione all’estero (Tirana-Lussemburgo per es.) vedono protagoniste quasi solo le studentesse, che si mettono in gioco molto più dei colleghi maschi. Oggi le donne in possesso del titolo di professore ordinario nell’università di Tirana sono il 45,2%, mentre in Lussemburgo sono il 14,2%, e nel 2017 la presenza femminile negli organi accademici dirigenti a Tirana è stata del 38,1%.
Un aspetto particolare è poi la propensione e l’alto numero di studentesse iscritte alle facoltà di scienze esatte – le cosiddette STEM: Science, Technology, Engineering and Mathematics – più alto della Francia e Belgio messi insieme (Dati EUROSTAT) pur avendo l’Albania un’unica università pubblica fondata nel 1957, l’Università statale di Tirana da cui è gemmata divenendo autonoma l’Università Politecnica. Fondato nel 1957, l’ateneo di Tirana oggi comprende sette facoltà con oltre trenta Dipartimenti che coprono le scienze umane e sociali, economiche, naturali e biomediche. Gli studenti immatricolati sono circa 14.000 e i professori 600. Il fenomeno della propensione alle Stem sembra riflettere però anche una scarsa libertà di scelta delle donne ed è stato osservato in vari paesi in via di sviluppo come Algeria, Tunisia, Vietnam, Albania, Indonesia, dove la scelta delle competenze diventa pregiudiziale per l’inserimento lavorativo nei campi tecnologici dei nuovi lavori, mentre nei paesi a sviluppo socio-economico di più antica data come quelli nord e centro europei (Svezia, Irlanda Svizzera, Germania, Francia, Italia) le donne continuano a scegliere secondo il proprio “gusto” valoriale che appare tuttora legato a modelli culturali tradizionali (facoltà umanistiche, scienze sociali o dell’area medica) che non intercettano le possibilità lavorative offerte dal modello di sviluppo globalizzato e sempre più tecnologizzato.
Skerdi Zanaj sottolinea anche come, oltre all’alta formazione, un altro fattore che impatta sul lavoro delle donne sono le politiche di genere dello Stato (Gender Policies) risultato dell’attività legislativa prevalentemente parlamentare: ebbene queste politiche di genere aumentano e si qualificano proporzionalmente alla presenza nei Parlamenti nazionali e sovranazionali di un alto numero di deputate e senatrici donne: in Albania si è passati dal 18% del 2013 al 29% del 2018. Molto interessante a questo proposito lo Studio Lippman del 2019 che in Francia ha analizzato l’attività parlamentare nell’arco del 2017 in cui sono stati presentati circa 300.000 emendamenti parlamentari. Dallo studio emerge come le donne parlamentari difendano gli interessi e i diritti delle donne più dei deputati maschi, concentrando la propria attività legislativa sulle questioni di genere, seguite dai temi riguardanti i minori e la salute. I parlamentari maschi hanno invece una maggior probabilità di presentare emendamenti sulle questioni elettorali e militari. Le donne in Parlamento dunque hanno il doppio delle probabilità di avviare emendamenti relativi alle donne, ed è quindi evidente come le Quote di Genere negli ambiti della rappresentanza politica producano uno spostamento delle decisioni politiche e una maggiore priorità per le questioni femminili in Parlamento.
Enrica Rigo, professoressa associata di Filosofia del diritto all’Università Roma Tre è una ricercatrice sui temi giuridici della cittadinanza anche in rapporto ai confini esterni dell’Europa e in rapporto al processo di allargamento europeo e alla critica postcoloniale. Riga è anche attivista a Roma del movimento Non Una di Meno. Dalla sua esperienza di direttora della Clinica del Diritto dell’Immigrazione e della Cittadinanza ha riportato osservazioni sulle contraddizioni del rapporto fra donne autoctone e donne migranti: richiamandosi agli scritti di Sara Farris e raccontando l’esperimento sociale di Barbara Ehrenreich – la saggista, accademica e opinionista socialdemocratica statunitense che a fine anni novanta visse in prima persona l’esperimento sociale di sopravvivere tre mesi lavorando con un salario minimo come cameriera, donna delle pulizie e commessa nei supermercati Walmart –, ci ha ricordato come la liberazione delle donne occidentali si sia poggiata storicamente e continui a fare perno sulla subordinazione delle donne migranti.
Denunciando come la mobilità dei lavoratori in Europa sia oggi appiattita sotto una definizione e regolamentazione legata al solo lavoro produttivo, Rigo ha analizzato il ruolo che la mobilità umana, in particolare delle donne, svolge nel processo di riproduzione sociale e della forza-lavoro, come emerge anche dagli studi di Silvia Federici e Alisa del Re, ed evidenziando il grande apporto delle donne migranti alle società di arrivo (sia in termini fiscali e contributivi sia in termini di lavoro di cura e di welfare sociale per donne, bambini e anziani) e naturalmente alle società di partenza in termini di rimesse economiche, fondamentali per la sopravvivenza di interi nuclei familiari nel paese d’origine.
Sulle tematiche migratorie è intervenuta anche Edda Pando, peruviana giunta in Italia da Lima vari anni fa, nel 1991, e fondatrice di Arci Todo Cambia, dell’Università Migrante di Milano e della rete Milano senza frontiere; come attivista per i diritti dei migranti sostiene l’autorganizzazione dei migranti nel capoluogo lombardo e percorsi interculturali fra immigrati e autoctoni. Pando parla di “paradigma migrante”, nel senso che i lavoratori e le lavoratrici stranieri immigrati in Italia rappresentano sempre più ciò che il sistema vorrebbe estendere come modalità generalizzata di sfruttamento verso i lavoratori e le lavoratrici autoctone: precarietà assoluta, assenza di qualsiasi stabilità lavorativa, mancanza di tutele sindacali, ricattabilità costante e perenne instabilità materiale ed esistenziale.
Enrica Rigo ed Edda Pando hanno posto questioni che chiedono una risposta urgente e politica: “Per quale motivo in Italia i Decreti Flussi non si fanno più dal 2011 e in Italia si entra solo per ricongiungimento o Asilo? Integravamo 170.000 lavoratori stranieri l’anno; ora dove li prendiamo e perché preferiamo prenderli dalle migrazioni forzate? Tra il 2014 e il 2017 le donne richiedenti asilo sono quadruplicate e si muovono per lo più sulla rotta del Mediterraneo centrale, mentre su quella Balcanica più del 50% sono donne e bambini. Perché stiamo chiudendo le frontiere proprio adesso? Perché non si rinnovano i permessi di soggiorno? Perché la raccolta di pomodori viene pagata 3 euro l’ora e non si costruiscono case ma ghetti per i migranti impiegati nei lavori agricoli? Perché si negano i diritti di cittadinanza e lo ius culturae se non per colpire le condizioni di vita delle donne e degli uomini migranti, perpetuando e allargando le occasioni del loro sfruttamento?
La femminista italiana Cinzia Arruzza è professoressa presso la New School of Social Research di New York. Recentemente, insieme a Nancy Fraser e Tithi Bhattacharya, ha pubblicato il volume “Un Manifesto per un femminismo del 99%”. Durante il convegno alla Casa delle Donne di Roma, Arruzza è intervenuta in collegamento video riproponendo alcune delle tesi, espresse nel libro, sulla relazione tra capitalismo e patriarcato e tra genere e classe, alla luce della nuova onda femminista su scala internazionale: “Il femminismo del 99% è l’alternativa anticapitalista al femminismo liberale che negli ultimi decenni era diventato egemonico per l’estinguersi delle mobilitazioni e delle lotte in tutto il mondo. Con l’espressione femminismo liberale ci riferiamo a un femminismo incentrato sulle libertà e sull’uguaglianza formale, che persegue l’eliminazione delle diseguaglianze di genere con strumenti accessibili solo alle donne che appartengono all’élite: si pensi al modello incarnato da personalità come Hillary Clinton o altre donne che hanno perseguito un empowerment che le mette comunque in posizioni apicali e di privilegio; oppure si pensi al femminismo predicato dalle destre che in Europa, soprattutto nei paesi dell’Est, sta diventando un alleato di molti governi in tema di politiche islamofobe “in nome dei diritti delle donne”, come ha spiegato Sara Farris nel suo libro “In the Name of Women′s Rights: The Rise of Femonationalism”. Invece il femminismo del 99% è anche apertamente anticapitalista e antirazzista: non separa l’uguaglianza formale e l’emancipazione dalla necessità di trasformare la società e le relazioni sociali nella loro totalità, non lo separa dalla necessità di superare lo sfruttamento del lavoro, il saccheggio delle risorse naturali, il razzismo, la guerra e l’imperialismo. È parte del transfemminismo, difende i diritti e le necessità delle lavoratrici sessuali, cerca alleanze sociali e politiche con tutti i movimenti che lottano per un mondo che sia migliore per il 99%.
Io penso che la recente nuova onda femminista è l’unica mobilitazione esistente a livello transnazionale, che unisce milioni di donne e uomini di tutto il mondo. Inoltre in alcuni paesi è già difficile ora distinguere chiaramente tra lotta di classe e movimento femminista: penso soprattutto all’Argentina, ma anche alla Spagna o all’Italia. Credo che coloro che sono sinceramente interessati a un ritorno della lotta di classe, dovrebbero lasciare, una volta per tutte, gli atteggiamenti divisori e di disprezzo nei confronti della nuova onda femminista. Dovrebbero smettere di pensare che le mobilitazioni femministe sono un’antitesi della lotta di classe o, nel migliore dei casi, un complemento esterno. Vorrei invitare a pensare al nuovo movimento femminista come a un processo di radicalizzazione e politicizzazione nel quale la soggettività delle lavoratrici – molto spesso giovani, precarie, sotto pagate o non pagate, sfruttate e molestate sessualmente nei luoghi di lavoro – sta emergendo come una soggettività combattiva e potenzialmente anticapitalista.
A conclusione dell’edizione 2019 di “Libertà delle donne nel XXI”, a far sintesi dei molti temi dibattuti, rimbalzano le domande poste da Nicoletta Pirotta di Iniziativa Femminista Europea: “Come si ricostruisce un sistema europeo di welfare e di diritti capace di superare l’ideologia della domesticità e lo sfruttamento della catena globale della cura? È sufficiente rivendicare parità di salario, tempi di lavoro compatibili con la riproduzione, diritto alla maternità e fine delle discriminazioni di genere se non si intaccano le divisioni sessiste e razziste del mondo del lavoro? Un salario minimo europeo e un reddito di autodeterminazione possono costruire per le donne percorsi di autonomia e fuoriuscita dalla violenza? Le esperienze di autogestione e di neomutualismo, che stanno coinvolgendo molte donne e alludono a modelli alternativi di produzione e riproduzione sociale possono essere obiettivi da lanciare su scala europea? Come diffondere la pratica dello sciopero globale delle donne, lanciato da Non Una di Meno contro l’oppressione in ogni ambito della vita e come pratica collettiva di lotta contro la privatizzazione, la femminilizzazione e la razzializzazione del lavoro?”