Non si tratta più di vedere se questo o quel teorema è vero o no, ma se è utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se è accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati sono subentrati pugilatori a pagamento, all'indagine scientifica spregiudicata sono subentrate la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell'apologetica
(Karl Marx, poscritto alla seconda edizione del libro I de Il Capitale)
Queste parole, che ben descrivono lo stato della “scienza economica borghese” da circa 150 anni, sembrano calzare alla perfezione anche per l’Istat ed il suo report intitolato “la ricchezza non finanziaria dell’Italia” uscito lo scorso 1 febbraio. Ventisei pagine che intendono fornire la misura del valore di abitazioni, immobili non residenziali, impianti, macchinari, armamenti, risorse biologiche coltivate, prodotti di proprietà intellettuale, scorte e terreni agricoli detenuti dalle imprese, dalle pubbliche amministrazioni e dalle famiglie nel 2016 e la loro variazione negli ultimi 10/15 anni.
Un’informazione quanto mai necessaria per comprendere, seppur a grandi linee, chi e dove accumula ricchezza nel nostro paese. Per scelta dell’istituto di statistica, tuttavia, dal computo mancano alcune componenti a dir poco fondamentali: le opere di ingegneria civile, gli oggetti di valore ed i monumenti, oltre ai beni durevoli delle famiglie (es, automobili, elettrodomestici, computer), i mezzi di sussistenza e le risorse naturali non prodotte dal lavoro umano. Se il quadro che emerge, dunque, è quantitativamente parziale, ben più grave è la funzione di questa approssimazione, che non serve neanche a diminuire la soggettività e l’incoerenza delle stime causate dall’approccio teorico sottostante l’analisi.
A prescindere dall’utilizzo del termine “valore” - sul quale si potrebbe dire molto - il concetto di ricchezza è in realtà svilito al rango di mero aggregato di beni-capitale, senza per altro alcuna discriminazione riguardo la loro funzione - produttiva o meno - all’interno del sistema economico vigente. Il risultato, dunque, è da un lato quello di includere nel computo le auto aziendali ed escludere quelle personali, mentre dall’altro lato di sommare il valore dei capannoni industriali a quello delle ville di lusso dei loro proprietari e dei cannoni necessari per tutelarne i diritti.
Il report, per tanto, finisce col descrivere un paese che non c’è e dove, nel 2016, il 66% della ricchezza totale, stimata in 9.561 miliardi di euro (dunque 6.310 miliardi), sarebbe in mano alle famiglie mentre alle società finanziarie andrebbe poco più dell’1% del totale, vale a dire 114 miliardi, con le società non finanziarie a possedere 2.677 miliardi (il 28% del totale) e la pubblica amministrazione 478 miliardi (5%). A questi valori, poi, l’Istat affianca i 555 miliardi relativi ai consumi durevoli delle famiglie che però, non essendo utilizzati come input di attività produttive non vengono sommati.
Numeri che contraddicono tanto l’esperienza sensibile di ogni famiglia di lavoratori quanto la scienza economia che gli è propria. Ma nelle condizioni attuali, si potrebbe fare meglio? E quale quadro emergerebbe?
Se siamo tutti costretti a confrontarci con un sistema informativo che per quanto riguarda la contabilità fisica dei beni è molto scadente - e che, tanto per fare un esempio, non ci permette neanche di sapere con precisione quanti siano gli edifici e quanta superficie e cubatura occupino - e se siamo tutti costretti a costruire il quadro quantitativo complessivo per aggregazione (consolidamento) dei dati delle singole unità e non a derivare questi ultimi dal primo - a causa del carattere anarchico del modo di produzione capitalistico, con tutto ciò che ne deriva anche in termini di segretezza e controllo dell’informazione - non siamo tuttavia costretti ad individuare i “settori istituzionali” che si spartiscono la torta della ricchezza in quei soggetti che nei manuali ad uso degli studenti universitari rappresentano i protagonisti della vita economica: le imprese (alias investitori), le famiglie (alias consumatori) e la pubblica amministrazione (alias fornitori di beni e servizi pubblici); né siamo costretti a tacere i rapporti di proprietà che intercorrono tra e nei “settori istituzionali”. Scegliere quei soggetti e celare quei rapporti trasforma la ricerca scientifica disinteressata in apologetica da quattro soldi che serve unicamente a confondere.
Dunque, le famiglie sono così ricche come scrivono in Via Cesare Balbo? A prescindere dai limiti suddetti, stando al report la maggior parte della ricchezza sarebbe concentrata nel mattone (oltre l’84% dello stock di ricchezza del paese, vale a dire 8.062 miliardi, incluso il valore del terreno sottostante il fabbricato) che risulta per il 74% detenuto dalle famiglie. Se si considerano gli immobili residenziali, addirittura il 92% del loro valore sarebbe in loro possesso, non avendone mai detenuto tanto rispetto alle imprese e alla PA (nel 2001 la quota in mano alle famiglie era del 90% e da allora è sempre risultata in crescita).
Se si vanno a guardare le definizioni, però, si scopre il vile inganno. Per l’Istat il termine “famiglia” racchiude tanto gli individui o gruppi di individui nella loro qualità di consumatori - le c.d. Famiglie consumatrici - quanto le c.d. Famiglie produttrici, vale a dire le imprese individuali, le società semplici e di fatto, che impiegano fino a 5 addetti, produttrici di beni e servizi non finanziari destinabili alla vendita nonché le unità produttrici di servizi ausiliari dell’intermediazione finanziaria, purché prive di dipendenti.
Pertanto, alle proprietà delle famiglie di lavoratori, che hanno la chiara funzione di garantire la sopravvivenza degli stessi, non solo vengono sommate le proprietà di chi vive di rendita ma anche le proprietà riconducibili a società semplici, di fatto e alle imprese individuali - che l’Istat furbescamente cela, ma Banca d’Italia ci ricorda comprendere gli artigiani, gli agricoltori, i piccoli imprenditori, i liberi professionisti e comunque tutti coloro che svolgono un’attività in proprio, sempre che abbiano un numero di addetti inferiore alle cinque unità. Questa operazione significa includere circa 3,8 milioni di imprese (il 90% del totale) che occupano circa 2 milioni di dipendenti e 4,3 milioni di autonomi (dati 2015). Senza considerare le imprese agricole. Un’operazione talmente tanto sporca che obbliga l’Istituto di statistica a fornire, per alcune tipologie di beni, il dato disaggregato. Che per gli immobili residenziali significa dare separata evidenza alla quota appartenente alle famiglie consumatrici, che così scende di quasi dodici punti percentuali (dal 92 al 80,7%). Un dato comunque in crescita dal 2001. Tutto bene dunque? Non proprio.
Nella ricchezza immobiliare appartenente alle “famiglie”, infatti, si cela - senza un perché - anche quella riconducibile alle ISP, le Istituzioni sociali private al servizio delle famiglie. Esse comprendono i produttori privati di beni e servizi non destinabili alla vendita quali associazioni culturali, sportive, fondazioni, partiti politici, sindacati e, dulcis in fundo, enti religiosi. Ancora una volta, l’Istat nulla ci dice su dove le piazza e su quanto pesano le ISP, e per scoprirlo dobbiamo nuovamente chiamare in soccorso Banca d’Italia, che ci informa che stanno tra le famiglie consumatrici. Se il motivo non è dichiarato, l’effetto è chiaro dal momento che il valore del patrimonio immobiliare delle fondazioni e degli enti religiosi, ammesso che sia conosciuto alle autorità, non è proprio irrilevante. E in attesa di venire a conoscenza di dati ufficiali e possibilmente affidabili, quello che si può fare per stimarlo è partire da un altro lavoro su “la ricchezza della famiglie italiane” questa volta edito proprio da Banca d’Italia che fino al 2013 ha calcolato l’ammontare della ricchezza (finanziaria e non finanziaria) delle famiglie consumatrici e produttrici senza considerare le ISP. Ed incrociando i dati che cosa si ottiene? Che dal 2001 al 2013 la quota di valore relativa agli immobili residenziali in mano alle ISP è passata dal 2,4% al 9,3% del totale. Questo significa che se si escludono le ISP, nel 2001 le famiglie consumatrici non detenevano il 78,6% del patrimonio immobiliare residenziale ma il 76,2%, e nel 2013 non ne avevamo l’80,1% come sostiene l’Istat, ma il 70,9%. Siamo dunque di fronte ad una quota inferiore di quasi dieci punti percentuali e che risulta addirittura in forte calo (quasi sei punti in dodici anni) e non in lieve crescita [1]. Come poi questa quota si distribuisce tra le famiglie consumatrici è qualcosa che il report neanche menziona e che le autorità politiche tentano di occultare (si veda il cap. 3 de “gli immobili in italia 2017”).
L’altro dato che grida vendetta è quello relativo alla quota di ricchezza imputabile alle imprese (quasi il 30%), in particolare a quelle c.d. “finanziarie” (poco più dell’1%). Il motivo di questo scandalo è duplice. Il primo è legato alla scelta di suddividere il mondo e la relativa ricchezza in “persone fisiche” e “persone giuridiche”, come se queste ultime godessero di vita propria, e non in classi sociali sulla base dei rapporti che legano gli individui ai mezzi di produzione. Il secondo motivo è quello di non considerare affatto quali sono i rapporti di proprietà e le forme di controllo tra le imprese. Le persone giuridiche prese in considerazione, infatti, sono quelle dotate di autonomia decisionale nell’esercizio della propria funzione principale nonché dal possesso (anche solo potenziale) di una contabilità completa. Questo significa considerare praticamente ogni società in maniera indipendente, anche quando la proprietà sia di un’altra (o più) società. E questo non è irrilevante dal momento che tra le imprese finanziarie e non finanziarie esistono “holding operative” che esistono proprio per controllare e dirigere un insieme di società e le “società di partecipazione" il cui ruolo principale consiste nel detenere le attività di un gruppo di consociate.
I dati relativi a questi rapporti, dunque, sarebbero importanti non solo per far chiarezza sulla distribuzione della ricchezza tra le imprese finanziarie e tra le imprese non finanziarie, ma anche per capire quanta ricchezza delle une è sotto la proprietà o il controllo delle altre e viceversa. Ma evidentemente, anche solo parlare dei rapporti di proprietà tra le imprese, non s’ha da fare.
Note
[1] Le stime di Istat e Banca d’Italia qui riportate differiscono per la metodologia utilizzata nel calcolo dei valori immobiliari. La differenza tra le due stime, dunque, potrebbe non essere addebitabile tutta alla componente ISP come da me ipotizzato. Tuttavia, a parità di metodologia, la differenza tra le due stime potrebbe anche essere maggiore! Per tanto, solo la rivelazione dei dati sottostanti i report potrebbe effettivamente far luce sull’ammontare della quota di immobili appartenenti alle ISP. Un esercizio di chiarezza che tuttavia non cancella i vulnus teorici sottostanti la scelta di rappresentare il mondo in “famiglie”, “imprese” e “pubblica amministrazione” e di includere nel concetto di “ricchezza” alcuni beni e non altri, senza che ciò derivi da una chiara distinzione tra mezzi di consumo e mezzi di sussistenza e tra beni utilizzati per fini produttivi, improduttivi o, addirittura, distruttivi.