La parabola dell’economia politica – Parte XX: L'impatto delle politiche economiche keynesiane

L’abbandono delle politiche keynesiane non dipende da un deficit culturale, come vogliono molti economisti “di sinistra”, ma ha ben precisi motivi di classe.


La parabola dell’economia politica – Parte XX: L'impatto delle politiche economiche keynesiane Credits: J.M. Keynes contro M. Friedman https://encrypted-tbn0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcSeeH6O2TvKjALf2rADkmooilKzzf-No5BzUA&usqp=CAU

Dopo l'illustrazione dei punti salienti della teoria keynesiana, orientata ad elaborare indirizzi di politica economica, dobbiamo ora osservare quali sono stati gli impatti effettivi si tale teoria sulle concrete politiche delle nazioni.

Sia pure con qualche esitazione, la terribile crisi iniziata nel 1929 convinse tanto gli USA che la Germania di Hitler a inaugurare la pratica della spesa pubblica espansiva e del deficit di bilancio. Non si pensi che si fosse di fronte a misure necessariamente favorevoli alla classe lavoratrice. La stessa guerra, meglio delle politiche keynesiane, attraverso la distruzione dei capitali superflui e la spesa per gli armamenti, fu una formidabile risposta alla crisi. In ogni caso, con la guerra o (in misura assai minore) con la promozione del Welfare State, per un po’ di anni queste politiche hanno interessato buona parte del mondo capitalista sviluppato, pur convivendo dialetticamente con le spinte al rigore dei conti pubblici. Nei casi più virtuosi esse hanno reso migliori le condizioni di vita dei lavoratori e anche consentito, mitigando l'incubo della disoccupazione, di accrescere il loro potere contrattuale e favorire la loro organizzazione talvolta, per l'eterogenesi dei fini, anche in senso rivoluzionario.

Questa funzione redistributiva e di tutela, tuttavia, è riscontrabile solo in un periodo tutto sommato circoscritto della storia del capitalismo: a grandi linee dalla ricostruzione post bellica degli anni 40 del ‘900 fino agli anni 70. Successivamente sono tornate di moda le politiche neoliberiste. Siamo di fronte quindi a una parentesi che può essere considerata eccezionale e che in gran parte è dipesa dalla necessità di un confronto, anche sul terreno dei diritti sociali, fra i paesi imperialisti e il campo socialista. Ne è la prova che con la crisi di tale campo e la successiva scomparsa della maggior parte di quelle realtà sono venute meno anche le spinte verso politiche di piena occupazione e di implementazione del welfare.

Gli economisti keynesiani, per lo più, hanno considerato l’abbandono di queste politiche un errore sul piano scientifico e hanno scritto numerosi saggi per motivarlo puntigliosamente, illudendosi di poter convincere gli stati della necessità di un ritorno al vecchio Keynes. È nostro convincimento, invece, che sussistano elementi oggettivi alla base della svolta teorica neoliberista, non promossa, certamente, nell’interesse della collettività, ma in quello del capitale e nella convinzione, questa sì erronea, qualora sincera, che vi fosse una coincidenza fra le due cose. Tale ribaltamento concettuale ha consentito di fornire una veste apparentemente scientifica a scelte discrezionali e di classe.

Il vecchio Marx e la sua legge della caduta tendenziale del saggio del profitto ci sono di estremo aiuto per comprendere i limiti oggettivi delle politiche espansive. Infatti con il progredire dell’accumulazione e l’introduzione di tecnologie che risparmiano lavoro, si determina una tendenza alla riduzione del saggio medio del profitto fino al punto in cui i capitalisti decidono di interrompere i processi di investimento e con ciò fanno funzionare al contrario la spirale del moltiplicatore: meno investimenti comportano meno redditi e meno occupazione, da qui si determina una riduzione della meno domanda che tende a contrarre gli investimenti, e così via.

Un altro punto debole delle politiche espansive è che nel breve periodo esse funzionano se la disoccupazione di forza-lavoro è accompagnata a un paragonabile un livello di sottoutilizzazione degli impianti. Quando ciò non si verifica, tenendo conto dei tempi necessari ad adeguare la capacità produttiva degli impianti, non è possibile espandere la produzione e quindi la domanda aggiuntiva rimarrebbe inevasa. Ma questa mancanza di capacità produttiva aggiuntiva può essere considerata la norma in quanto gli impianti non sono in genere dimensionati al fine di assicurare, domanda permettendo, la piena occupazione di forza-lavoro. Essi nella realtà sono dimensionati in funzione dell’espulsione di forza-lavoro e della sua sostituzione con macchine.

Quindi la piena occupazione è sì anche il frutto del compromesso keynesiano, ma viene volentieri abbandonata se non sono in campo dure lotte, in quanto non è desiderata dai capitalisti. Infatti essa reca con sé l'aumento del potere contrattuale dei lavoratori, mentre il capitale ha sempre bisogno di un opportuno esercito industriale di riserva e l'enorme sviluppo tecnologico ha fatto sì che questo esercito abbia reclutato sempre più soldati, magari con divise differenziate: disoccupati, precari, migranti, falsi autonomi ecc.

Pazienti il lettore se il vecchio Moro fa continuamente capolino, ma chi scrive è fermamente convinto che senza la sua “cassetta degli attrezzi” non sarebbe facile comprendere la società in cui siamo immersi.

Del resto, un economista che ha influenzato Keynes e che faceva parte del suo “circolo” ma che non era apologeta del capitalismo e risentiva di più degli insegnamenti di Marx, Michał Kalecki, pur ammettendo la possibilità di ottenere il pieno impiego con adeguate politiche, avvertiva che queste ultime avrebbero incontrato forti opposizioni di carattere politico, visti gli interessi in campo. Sosteneva infatti che, se il pieno impiego è conseguito con un'azione autonoma dello Stato, si riduce il potere dei capitalisti di condizionare le scelte governative attraverso il “mercato”, come stanno facendo tutt'oggi a mani basse e forse più di ieri i grandi poteri economici. Al contrario il pieno impiego determina un accresciuto potere dei lavoratori, che sarebbero maggiormente immuni dal ricatto della “misura disciplinare” dei licenziamenti. Quindi i capitalisti spingono per la disciplina nelle fabbriche e premono sul potere politico per evitare situazioni di pieno impiego. “l loro istinto di classe dice loro che un durevole pieno impiego non è dal loro punto di vista sano e che la disoccupazione fa parte integrante del normale sistema capitalista”. Da qui la previsione kaleckiana del “regime economico futuro delle democrazie capitaliste”, cioè, “una restaurazione artificiale della condizione esistente nel capitalismo dell’Ottocento”. Una brillante previsione, già nel 1943, della svolta neoliberista che si è verificata negli anni successivi [1].

Cosa comportano in sostanza, per i profitti, le politiche keynesiane? Attivando spese pubbliche improduttive dal punto di vista capitalistico e favorendo, attraverso la piena occupazione, la conflittualità dei lavoratori, riducono i margini di profitto che invece vengono restaurati attraverso le politiche di “austerità”. Infatti quest'ultime diminuiscono il salario indiretto (servizi pubblici) e differito (pensioni), espandono gli spazi del mercato, che ha l'opportunità di sostituirsi al pubblico e, attraverso la disoccupazione, riducono il potere contrattuale dei lavoratori e con ciò anche il salario diretto. Kaleki aveva quindi piena ragione a sostenere l'incompatibilità fra piena occupazione e interessi della classe capitalistica.

Il capitalismo è paragonabile a un vascello che deve attraversare uno stretto fra due scogli: la recessione da domanda e la caduta del saggio del profitto. Se vengono adottate misure per allontanarlo da uno scoglio lo si avvicina all’altro, e viceversa. Altrimenti le ricette dei keynesiani ci avrebbero messo al sicuro da ogni crisi e nessuno avrebbe avuto motivo per respingerle.

Ci sarebbe poi un terzo scoglio rappresentato dallo sfruttamento insostenibile della natura e dell’ambiente, in un mondo che si fa sempre più piccolo e limitato di risorse rispetto alla pulsione all'espansione illimitata del capitale. Ma questo tema, pur rilevante, non può essere trattato in questa sede né era nell'agenda del Barone di Tilton.

Dopo tanti elogi a Marx, concediamo pure l'onore delle armi a Keynes. Egli, pur trascurando il problema centrale dei rapporti di forza fra le classi, aveva intuito un possibile ruolo della politica economica e monetaria statale, che difficilmente Marx avrebbe potuto mettere a fuoco nel XIX secolo e che in parte riflette l’intreccio tra Stato ed economia tipico della fase monopolistica e imperialistica del capitalismo.

Anche nell'esame delle prospettive delle future generazioni, Keynes intuisce qualcosa che già aveva evidenziato Marx, ma, sempre per la sua posizione apologetica, considera realizzabile nell'ambito del capitalismo. Egli aveva immaginato le prospettive della società dopo che si fosse affermato un incremento ancora più vigoroso della produttività e che il lavoro necessario alla riproduzione umana si fosse drasticamente ridotto.

A proposito di coloro che vivono di rendita, aderendo all’idea marginalista che che la scarsità fosse la determinante della remunerazione dei fattori, osserva:

“[Una bassa remunerazione del capitale] significherebbe tuttavia l’eutanasia del redditiero e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale […]. Il possessore del capitale può ottenere l’interesse perché il capitale è scarso. [...Ma] non vi sono ragioni intrinseche della scarsità del capitale. […] Considero perciò l’aspetto del capitalismo caratterizzato dall’esistenza del redditiero come una fase di transizione, destinata a scomparire quando esso avrà compiuto la sua opera. E con la scomparsa del redditiero, molte altre cose del capitalismo subiranno un mutamento radicale” [2].

Fra tali mutamenti include “un aumento del volume di capitale finché questo non sia più scarso [...], un sistema di imposizione diretta tale da consentire che l’intelligenza e la determinazione e la capacità direttiva del finanziere, dell’imprenditore [...] siano imbrigliate al servizio della collettività, a condizioni ragionevoli di compenso” [3].

Alla fine degli anni Venti, in una sua conferenza [4], sostenne che, continuando le tendenze progressive di lungo periodo del capitalismo, nell’arco di un secolo (e ci siamo quasi!) fosse possibile liberarci dalla penuria. Lo sviluppo tecnologico avrebbe però però richiesto meno forza-lavoro, con conseguente disoccupazione. Keynes non considerò tutto ciò un male ma il risultato di un progresso con cui occorrerebbe misurarci, evitando le guerre, controllando l’andamento demografico, garantendo un tasso di accumulazione adeguato, e riducendo l’orario di lavoro.

Questo suo contributo, sia pure non schierato nella lotta di classe e portatore di una rappresentazione edulcorata del capitalismo, riecheggia (involontariamente?) alcune intuizioni presenti nel noto Frammento sulle macchine di Marx [5], condividendo anche alcuni sbocchi positivi per la classe lavoratrice, quali la riduzione dell’orario di lavoro. C'è però una differenza fondamentale. Marx individua nel contrasto tra la diminuzione del lavoro necessario e il bisogno del capitale di succhiare lavoro vivo, una contraddizione insopprimibile ed essenziale del capitale stesso. Quindi queste sorprendenti prospettive saranno possibili solo con il superamento del capitalismo. Keynes invece crede di poterle realizzare difendendo il capitalismo da una rivoluzione proletaria. Ecco perché egli non può essere un punto di riferimento dei comunisti.

Note:

[1] Michal Kalecki, Political Aspects of Full Employment, in “Political Quartely”, 14, 1943.

[2] J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta, in Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta e altri scritti, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1978, pp 569-70.

[3] Ivi, p. 570.

[4] J.M. Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti, in Keynes, La fine del laissez faire ed altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.

[5] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, pp. 400-11.

03/09/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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