Nonostante il padronato, i suoi lacchè parlamentari, i rappresentanti dell’aristocrazia operaia (sindacalisti neocorporativi) si sforzino di dimostrare ideologicamente che gli interessi del capitale siano gli stessi della forza-lavoro, persino le loro inchieste, per quanto taroccate, dimostrano esattamente il contrario. Ad esempio, negli ultimi trent’anni gli aumenti della produttività del lavoro sono stati intascati quasi esclusivamente dalle imprese, mentre i lavoratori ne hanno ricavato una percentuale sempre più modesta. Del resto, negli ultimi tre decenni si è manifestata la chiara volontà politica di tutte le forze che hanno governato di ridistribuire a vantaggio dei redditi più elevati la ricchezza prodotta, colpendo i salari cresciuti solo nominalmente, ma non realmente a causa dell’inflazione, cioè del diminuito potere d’acquisto. Negli ultimi trent’anni questi pseudo aumenti salariali, in realtà delle nette perdite nel potere d’acquisto, hanno, paradossalmente, prodotto anche un innalzamento dell'aliquota fiscale dei lavoratori salariati, oltre al danno, dunque, la beffa! Del resto l’inflazione ha colpito il potere d’acquisto dei salari, da quando è stata abolita la scala mobile e si è passati alla concertazione fra sindacati neo-corporativi, padroni e governi sempre più sfacciatamente filo-padronali. Il trucco è stato sempre lo stesso: anche cambiando i prestigiatori di centro-destra o di centro-sinistra, si è stabilito un adeguamento dei salari a un tasso d’inflazione programmata sempre scelto al di sotto di quella che sarà l’inflazione effettiva. Tale scarto è ulteriormente aumentato da quando nell’inflazione programmata non si calcolano più gli aumenti dell’inflazione reale dovuti alle crescenti spese nelle fonti energetiche. Si tratta di una precisa scelta politica volta a favorire gli interessi del padronato, cui si sono allineati i sindacati neo-concertativi e i partiti politici borghesi, che ha fatto scendere di diversi punti percentuali il potere d’acquisto dei salari, in media di 1% l’anno. Senza contare le irrisorie cifre assicurate dai governi per coprire le cosiddette vacanze contrattuali, che favoriscono il cedimento dei sindacati alle condizioni imposte dal padronato. Per quanto i salari reali siano relativamente diminuiti in tutti i paesi a capitalismo avanzato dalla dissoluzione dell’Unione sovietica, in Italia la dissoluzione del Pci ha prodotto una perdita del potere d’acquisto decisamente superiore non solo della Francia e della Germania, ma persino del Regno unito di Gran Bretagna.
Differenze che non si spiegano soltanto con i diversi tassi di inflazione, ma soprattutto con la struttura proprietaria arretrata di gran parte dell'industria italiana. La piccola dimensione significa innovazione zero, sia nel prodotto che nel processo di produzione; incrementi di scala impossibili; potere nullo rispetto ai fornitori. Insomma: un'impresa che ha come voce principale in bilancio il “costo del lavoro”, ma che ci ricava poco pur sfruttandolo fino all'osso (e magari “in nero”).
È un dato vero ma beffardo, perciò, che il costo del lavoro per unità di prodotto sia stato per anni – in presenza dei salari più bassi – il più alto della zona euro. Il che è da imputare all’inadeguatezza dell'imprenditore medio italiano e non, come si è voluto far credere, alla presunta fannullaggine dei lavoratori italiani.
Altra concausa della diminuzione reale dei salari dei lavoratori nell’ultimo trentennio – dovuta al crescere superiore del prezzo delle altre merci (inflazione) rispetto ai ridicoli aumenti delle retribuzioni lorde e ancora più ad una diminuzione relativa, cioè in relazione all’aumento ben superiore dei profitti, cioè del potere del capitale sulla forza-lavoro – è l’introduzione e il crescente aumento del lavoro precario. Si tratta di una riduzione del prezzo della forza-lavoro e delle condizioni di lavoro delle giovani generazioni o dei lavoratori immigrati, che produce necessariamente un peggioramento delle condizioni di lavoro e dei salari dei lavoratori stabili, sempre più di sovente posti sotto il ricatto di essere sostituiti da lavoratori maggiormente flessibili. Se il salario medio netto di un lavoratore dipendente standard è divenuto sempre più basso dopo la fine della guerra fredda, ancora più basse sono le retribuzioni di un lavoratore “meridionale”, ancora meno è in media pagata una donna, meno ancora un dipendente di una piccola impresa, peggio vanno le cose per un extracomunitario e, infine, ancora peggio per un “under 34”. Sono, ovviamente, possibili combinazioni inferiori sommando diversi “handicap”, tipo: donna extracomunitaria under 34 impiegata in una piccola impresa al sud.
Sino a qui ci siamo limitati a riassumere solo l’aspetto fenomenico dell’attacco al salario e del conseguente aumento del profitto, aspetto che è possibile rinvenire persino in giornali radicali borghesi quali “Il manifesto”. In realtà l’attacco è molto più profondo e meno appariscente e per comprenderlo occorre abbandonare il piano empirico e risalire al piano concettuale, cioè abbandonare le categorie d’analisi dell’ideologia (borghese) – attualmente dominante – per risalire ai fondamenti scientifici dell’analisi marxista.
Prendiamo il salario, il termine è usato correntemente nell’economia politica borghese quale reddito del lavoro (o capitale umano), in modo da renderlo una componente inessenziale della produzione, mascherando al contempo il suo legame alla forma determinata, storica di lavoro, cioè al lavoro salariato quale dipendenza e sottomissione della forza-lavoro al capitale [1]. Occultando la dipendenza del lavoratore dal padrone che ha il monopolio degli strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza e mascherando l’alienazione della capacità di lavoro (vendita della propria forza poietica), il salario diviene reddito del lavoro [2]. La sua misura è ricondotta alla presunta legge del libero mercato, la dialettica fra domanda ed offerta, mediante la quale si stabilisce quanto pagare la partecipazione del singolo lavoratore al risultato della produzione [3]. Secondo la concezione oggi dominante, il marginalismo, (corrispondente all’economia borghese volgare criticata da Marx), vi sarebbero tre fonti diverse della produzione: la terra, il capitale e il lavoro, da cui deriverebbe nella distribuzione tre differenti redditi proporzionali al ruolo svolto nella produzione: la rendita, il profitto e il salario [4]. Tuttavia per quanto indispensabili alla produzione il suolo con le sue materie prime e gli strumenti della produzione non divengono produttivi se non mediante la forza-lavoro. Inoltre l’ideologia dominante si arresta al piano empirico del mercato capitalistico senza indagare che non vi è alcuna necessità che fa della terra e degli strumenti di lavoro una proprietà privata monopolistica del capitalista e del rentier. Senza la separazione, che è il prodotto di un’espropriazione storica (accumulazione primitiva) [5], fra forza-lavoro e mezzi di produzione, che consente ai possessori dei mezzi di produzione di acquistare come merce la forza-lavoro e di utilizzarla per un tempo superiore alla riproduzione del valore anticipato sotto forma di mezzi di sussistenza, di cui hanno egualmente il monopolio, non vi sarebbero né profitti, né rendite. Così è solo il fatto di essersi appropriato del suoli che consente al rentier di poter rivendicare come spettante alla rendita fondiaria una quota del plusvalore estorto nel processo di produzione al salariato, in quanto il capitalista ha dovuto utilizzare la sua terra (per le materia prime, per il terreno agricolo, per il trasporto o per gli edifici ecc.) [6].
Note:
[1] Come osserva Gianfranco Pala, le stesse “teorie borghesi critiche (post-ricardiane, post-keynesiane, post-moderne) – cui si richiamano giornali radical come Il manifesto – sbagliano nella determinazione del salario come «quota» del reddito. Non vedono il suo essere capitale (variabile), come tempo di lavoro «immediatamente» finalizzato alla riproduzione della forza-lavoro come merce” Pala, Gianfranco, Propriamente, salario! Pluslavoro non pagato, condizione per il lavoro salariato, materiali per un seminario a economia, roma, marzo 2008.
[2] Tale forma mistificante, in effetti, finge che codesto improprio “salario”, lungi dal rappresentare l’alienazione (vendita ad altri) della forza-lavoro, sia la retribuzione del lavoro; ciò che considera è la “quota di reddito da lavoro”, come se si trattasse di una partecipazione del lavoratore alla merce da lui prodotta, anziché della sua dipendenza dal padrone, anche per ciò che concerne il corrispettivo dei mezzi di sussistenza.
[3] La parola salario, certo, la si trova in qualsiasi versione dell’economia dominante. Ma, al di là del suo impiego meramente descrittivo, la sua funzione economica specifica è del tutto assente e pertanto essa risulta affatto inessenziale alla logica di quelle tesi. Conseguentemente, il salario non può essere ritenuto forma essenziale dell’economia politica del capitale. Quel “salario del lavoro” non è lavoro salariato, ossia in nessuna sua determinazione appare la forma “dipendente” del lavoro e la sua sottomissione al capitale. La confusione sul salario della forza-lavoro è tale da far reputare il salario quale un semplice “nome” dato al reddito del “capitale umano” e della “capacità lavorativa”. Perciò l’economia dominante ha compiuto la grande scoperta che il “salario” è dato dall’equilibrio tra domanda e offerta, quale “partecipazione” a una quota del prodotto, per cancellare il carattere specifico del rapporto di capitale.
[4] Con la pluralità – nella “formula trinitaria” del “logaritmo giallo”, schernita da Marx – accanto al lavoro ci sarebbero, dunque, capitale e terra. Quindi – a fianco del salario – profitto industriale e commerciale, interesse e rendita, fino alle tasse, sarebbero tutti formalmente uguali ancorché empiricamente diversi.
[5] “Come avviene – domanda Marx – che un gruppo compera continuamente, per realizzare profitto ed arricchirsi, mentre l’altro gruppo vende costantemente per guadagnare il proprio sostentamento? L’esame di questa questione sarebbe un esame di ciò che gli economisti chiamano «accumulazione primitiva od originaria», ma che dovrebbe però chiamarsi espropriazione primitiva. Troveremo che la cosiddetta accumulazione primitiva non significa altro che una serie di processi storici i quali si conclusero con la dissociazione dell’unità primitiva che esisteva fra il lavoratore e i suoi mezzi di lavoro. […] La separazione del lavoratore e degli strumenti di lavoro, una volta compiutasi, si conserva e si rinnova costantemente a un grado sempre più elevato, finché una nuova e radicale rivoluzione del sistema di produzione la distrugge e ristabilisce l’unità primitiva in una forma storica nuova” Marx, Karl, Salario prezzo e profitto, Laboratorio politico, Napoli 1992, pp. 52-53.
[6] “Il monopolio del suolo pone il proprietario fondiario nella condizione di appropriarsi di una parte di questo plusvalore, sotto il nome di rendita fondiaria, indipendentemente dal fatto che questo suolo sia usato per l’agricoltura, per edifici, per ferrovie, o per qualsiasi altro scopo produttivo” ivi, p. 63.