Viaggio nella crisi parte II. Dopo l'articolo preliminare di Rita Bedon, che illustra alcuni aspetti teorici generali della crisi (http://www.lacittafutura.it/economia/viaggio-nella-crisi.html), proseguiamo l'indagine esaminando il carattere dell'odierno imperialismo transnazionale. Seguiranno contributi che illustrerannno in maniera più sistematica il quadro teorico in cui si inseriscono gli elementi fattuali qui esaminati, per proseguire quindi con le prospettive dell'Europa a guida tedesca e le possibili vie di uscita dalle politiche liberiste europee.
di Ascanio Bernardeschi
“Il capitalismo, che prese le mosse dal capitale usuraio minuto,
termina la sua evoluzione mettendo capo a un capitale usuraio gigantesco”
“Il mondo si divide in un piccolo gruppo di stati usurai e in una immensa massa di stati debitori”
“L'oligarchia finanziaria attrae, senza eccezione, nella sua fitta rete di dipendenze
tutte le istituzioni economiche e politiche della moderna società borghese”
(Vladimir Ilic Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916)
Il crollo del blocco del cosiddetto socialismo reale, fu principalmente esito non di un moto di liberazione dei popoli ma della vittoria della guerra fredda da parte del blocco imperialista a guida statunitense. Liquidato il bipolarismo USA-URSS, parve ai più che il mondo fosse entrato in una fase unipolare ad egemonia americana difficilmente contrastabile.
Mentre analisti più accorti già allora intravidero la possibilità che si andasse verso un nuovo multilateralismo, in cui potevano interpretare un ruolo non marginale le maggiori potenze asiatiche ed europee, abbondavano analisi che invece cercavano di sistemare teoricamente l'interpretazione prevalente. Il testo di Antonio Negri e Michael Hardt, Impero, per anni assai alla moda nella “sinistra radicale”, trae impulso indubbiamente anche da una simile lettura di questo passaggio storico, pur se vi convivono alcuni stimoli filosofici, tra cui è rilevante quello foucaultiano. Negri tiene a precisare che l'Impero non va confuso con l'imperialismo in quanto consiste in un potere “deterritorializzante” e tendente a incorporare il mondo intero. “I singoli colori nazionali della carta imperialista del mondo sono stati mescolati in un arcobaleno globale e imperiale”.
Noi ci domandiamo: i fatti successivi hanno forse confermato che si sta procedendo verso un grande Impero non racchiuso da confini, svolgendo quest’ultimo un ruolo positivo spazzando via “i crudeli regimi del potere moderno” e sprigionando “i potenziali di liberazione”? Oppure si sta assistendo, al contrario, all'emergere impetuoso di nuove potenze imperialistiche?
Altra questione: quali sono i caratteri principali dell'imperialismo già descritti da Lenin che rimangono attuali e in che misura? Concentrazione e accentramento dei capitali, raggruppati in pochi, potenti monopoli in lotta tra di loro, collegati da un intreccio complesso di partecipazioni azionarie e alleanze che travalicano i confini nazionali; ruolo crescente delle banche e del capitale finanziario, fortemente intrecciato con quello industriale, posto largamente sotto il suo controllo; ruolo preminente delle esportazioni di capitali; politiche statuali funzionali alla competizione, talvolta violenta, tra questi monopoli.
Al fine di rispondere a queste domande è utile partire dall'evidenza empirica, esaminando alcuni dati statistici. Per quanto riguarda i movimenti di capitale ci è di aiuto il recente rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (Unctad), il World Investiment Report 2015, recentemente commentato su questo giornale da Ferdinando Gueli. Mentre appare scontato il dato del notevolissimo peso degli investimenti esteri in entrata nelle economie emergenti e nell'America Latina (vedi grafico 1), è da sottolineare che anche gli investimenti dei paesi in via di sviluppo diretti verso l'estero, che nel 2000 erano ancora ben al di sotto della soglia del 10% del totale mondiale, raggiungono invece il valore del 35% nel 2014 (grafico 2), quintuplicato in 14 anni. Anche la suddivisione degli investimenti esteri in entrata per blocchi economici (grafico 3) testimonia una situazione assai variegata e un crescente perso dei paesi emergenti asiatici, tra cui, ovviamente, gioca un ruolo primario la Cina.
In termini di Pil si sta registrando un progresso delle nazioni in via di sviluppo e un mutamento dei rapporti nei confronti di quelle ad economia matura. Basti pensare al recente sorpasso da parte della Cina di Germania e Giappone e al sorpasso in corso degli USA. Per brevità, a questo proposito, si rimanda ai dati riportati nella precedente serie di articoli di questo giornale aventi per oggetto i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).
Il crescente peso dei paesi emergenti, in gran parte dovuto alla importante crescita dei Brics, testimonia la progressiva perdita di egemonia del blocco dei paesi avanzati e degli Usa al loro interno e l'avanzare di concorrenti degni del massimo rispetto. Non a caso gli Stati Uniti per primi, consapevoli delle prospettive dei nuovi rapporti di forza, stanno cercando affannosamente di ostacolare alcuni competitori attraverso vari strumenti, siano essi gli accordi regionali sugli investimenti per l’area transpacifica (TPP) e transatlantica (TTIP), oppure il classico prolungamento della politica con altri mezzi: guerre indotte o esplicitamente dichiarate in paesi limitrofi alla Cina e alla Russia (Afghanistan, Iraq, Siria, Ucraina….).
Anche l'esportazione dei capitali continua incessantemente la sua crescita. Sommando quelli in entrata e quelli in uscita, nel 1990 ammontavano intorno ai 250 miliardi di dollari, per passare a una media di circa 2.820 annui nel periodo pre-crisi (2005-2007), attestandosi poi vicino al 2.600 nel 2014. Conseguentemente lo stock dei capitali investiti all'estero, è più che decuplicato nel periodo 1990-2014, mantenendo un saggio di ritorno oscillante intorno tra il 6-7%, fatto salvo il livello di poco inferiore (4-5%) nel periodo di crisi.
Il rapporto mostra anche un’analoga crescita del capitale e degli affari delle società estere affiliate alle maggiori società multinazionali (meglio dire transnazionali), dell'occupazione presso di esse e del valore dei brevetti da esse posseduti.
Altro elemento che è utile segnalare è che il bilancio di cassa delle 100 maggiori società multinazionali, così come il loro capitale, è quasi raddoppiato dal 2006 al 2014, mentre il Pil mondiale è aumentato solo del 65%. Marginalmente replichiamo anche a chi ha visto, guardando solo il dito e non la luna, un processo di deindustrializzazione in atto: le dotazioni di cassa e gli investimenti delle 5.000 maggiori multinazionali si collocano prevalentemente nei settori delle materie prime, dell'energia e delle industrie (56,1% del totale) mentre i famosi servizi si fermano al 17,6% e le decantate tecnologie e telecomunicazioni al 11,3%.
Per quanto riguarda il ruolo del capitale finanziario, il rapporto Unctad ci mostra il peso crescente del valore delle acquisizioni di società o della loro fusione, un indice del ruolo del capitale transnazionale nei flussi di investimento, che è quasi quintuplicato in 18 anni, passando da 43 miliardi di dollari del 1996 a quello di 200 nel 2014. Il “potere deterritorializzante” del capitale di negriana memoria si manifesta largamente in questa forma, senza però far venire meno la lotta tra imperialismi per accrescere il loro territorio di influenza. Crescono a dismisura anche i fondi sovrani che erano intorno ai 5 miliardi di dollari nel 2000 e si aggirano intorno ai 160 miliardi nel 2014. La tendenza crescente alla finanziarizzazione dell'economia, peraltro, è più che nota, come il rapporto tra il valore delle attività finanziarie e quello del Pil, che nel 2013 era 13,24. Cioè le attività finanziarie ammontavano a oltre 13 volte il prodotto mondiale. Ancora più alto (centinaia di volte) è il rapporto tra le transazioni finanziarie e quelle reali.
Veniamo al ruolo degli stati. Nonostante le conquiste democratiche e l'accesso ai diritti politici della generalità della popolazione nel mondo “civile”, si può sostenere che la definizione di “comitati di affari della borghesia” può stare ancora loro addosso e addirittura li veste sempre più precisamente. Non solo per i massacri sociali imposti agli stati dai potenti gruppi di pressione (finanziari e industriali) col pretesto del debito e che in realtà sono funzionali a introdurre elementi di controtendenza alla caduta del saggio del profitto. Non solo per i salvataggi di potenti gruppi bancari con oneri sempre a carico della comunità.
In materia di servizi pubblici, per esempio, i processi di privatizzazione sono sempre più orientati verso la concentrazione di queste attività in poche multinazionali dell'acqua, del trattamento dei rifiuti, dell'energia ecc. In materia di scambi internazionali vengono imposti trattati, negoziati in segreto, quali il TTIP, TPP, che intendono ad abbattere le “barriere non tariffarie” agli scambi stessi, cioè scavalcare le regolamentazioni che tutelano la qualità dei prodotti, la salute, l'ambiente, i lavoratori. Oppure vengono introdotte clausole come l'Investor-State Dispute Settlement, cioè corti di giustizia private che dovrebbero dirimere i contenziosi tra investitori e singoli stati.
E per chi non è d'accordo c'è la terapia alla greca…
Riferimenti:
R. Bedon, Viaggio nella crisi, http://www.lacittafutura.it/economia/viaggio-nella-crisi.html
F. Gueli, I flussi mondiali di investimenti: un’istantanea del capitalismo contemporaneo (http://www.lacittafutura.it/economia/i-flussi-mondiali-di-investimenti-un-istantanea-del-capitalismo-contemporaneo.html )
Vladimir Ilic Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere scelte, Ed. Riuniti, 1965
A. Negri-M. Hardt, Impero, Bur, 2003
United Nations Conference on Trade and Development, World Investiment Report 2015. Reforming International Investment Governance, 2015 reperibile nel web ( http://unctad.org/en/PublicationsLibrary/wir2015_en.pdf )
Ringrazio Ferdinando Gueli per i preziosi suggerimenti in merito alle fonti statistiche.