di Pietro Antonuccio
Ogni esternazione del Presidente del Consiglio ripropone il luogo comune fondamentale di tutte le destre: il “libero” potere d’impresa è la condizione necessaria e principale per il funzionamento dell’economia, i diritti che limitano questa libertà sono dannosi e vanno eliminati. Questa sarebbe quindi l’unica bussola da seguire per consentire la famosa “ripresa” della nostra economia. La politica del governo Renzi in materia di lavoro è, in effetti, una diretta applicazione di questi dogmi e toglie ogni dubbio sul segno politico di questo esecutivo, essendo tutta orientata a eliminare i diritti dei lavoratori, denunciati come privilegi, per dare invece alle parti datoriali un potere assoluto, quale non era più stato a partire dagli anni sessanta del secolo scorso. Per rendersene conto, basta scorrere, anche solo per sommi capi, il contenuto del tanto decantato “Jobs Act”.
La sua “parte prima” è entrata in vigore attraverso il “Decreto Poletti” (il Decreto Legge n.34/2014 poi convertito nella legge n.78/2014), con cui si è disposto che i contratti di lavoro a termine possono essere “acausali”, cioè possono essere adottati senza l’indicazione della ragione per cui l’impresa fissa sin dall’inizio la scadenza del contratto anziché assumere a tempo indeterminato (il che - sulla carta - dovrebbe ancora essere la regola).
Le imprese potranno quindi assumere a termine a loro discrezione senza dover spiegare il perché e indipendentemente dalle reali esigenze produttive; anche le mansioni ordinarie di cui si prevede la necessaria ripetizione a tempo indeterminato potranno essere affidate a manodopera assunta a termine per la sola ragione della convenienza datoriale ad avere una manodopera sempre sotto imminente scadenza (e quindi priva di ogni capacità rivendicativa e organizzativa, anche sindacale, per far valere qualsiasi proprio diritto). Questi nuovi contratti a termine “acausali” potranno essere stipulati anche per brevissimi periodi e prorogati di periodo in periodo fino a un massimo di tre anni, ma nemmeno l’eventuale completamento del triennio darà al lavoratore un diritto alla stabilizzazione del rapporto. Alla scadenza, il contratto di lavoro sarà semplicemente cessato e solo il datore di lavoro deciderà discrezionalmente se stipulare un nuovo contratto a tempo indeterminato oppure assumere un altro lavoratore a termine per un nuovo triennio.
È facile immaginare la convenienza delle imprese nell’utilizzare una sempre nuova mano d’opera, di triennio in triennio, sempre priva di diritti e di capacità contrattuale in vista delle imminenti scadenze, con le sole eccezioni degli elementi ritenuti particolarmente graditi e “meritevoli” di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (che sarà la mera eccezione, a tutta discrezione del comando d’impresa).
Questa “riforma” scardina il principio fin qui fondamentale (e ancora esistente sulla carta) del carattere “ordinario” del contratto di lavoro a tempo indeterminato, poiché liberalizzando in modo assoluto la possibilità di ricorrere ai contratti a termine, senza vincoli e senza controlli giudiziali possibili, rende di fatto “ordinario” il contratto a termine e residuale, perché assolutamente discrezionale, l’ipotesi del contratto a tempo indeterminato.
Inoltre, un aspetto non marginale: questa “riforma” è stata varata per decreto legge e la conversione in legge è avvenuta ricorrendo al voto di fiducia: anche il Parlamento è stato quindi, di fatto, esautorato dalle sue prerogative costituzionali in una materia di primario rilievo costituzionale.
Attraverso l’uso del tutto improprio della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia per la conversione del decreto, il governo si è appropriato della potestà legislativa modificando così, con i fondamenti della struttura contrattuale del lavoro, la stessa costituzione materiale della nostra società, realizzando l’equivalente di un vero e proprio golpe sul piano sociale.
Lo stesso percorso rischia di proseguire, e ne è già in atto la prosecuzione, con la seconda parte del “Jobs Act”, quella che punta alla ridefinizione del contratto di lavoro a tempo indeterminato attraverso la definitiva cancellazione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.
Anche in questo caso è in atto una grave forzatura già sul piano costituzionale: è stato presentato un disegno di legge (n.1428 attualmente in discussione al Senato) che prevede una delega al governo per la riscrittura delle forme contrattuali del lavoro formulata in modo così ampio e generico da essere una vera e propria “delega in bianco”: il governo sarà dunque il vero legislatore, venendo autorizzato - in modo del tutto incostituzionale - a scrivere al posto del Parlamento le nuove regole del contratto di lavoro.
Un governo le cui intenzioni in materia sono fin troppo chiare e continuamente sbandierate: i ripetuti proclami renziani sulla arcaicità dell’art.18 e sulla necessità del suo superamento per “rilanciare le assunzioni” fanno ben capire che una tale delega in bianco comporterà certamente la sua definitiva cancellazione.
Tra le nuove forme contrattuali possibili è infatti prevista quella del “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”, cioè un contratto che in caso di licenziamento illegittimo dà diritto soltanto ad un indennizzo via via maggiore in base all’anzianità maturata dal lavoratore, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro. Nessuno potrà quindi essere reintegrato, neanche in caso di licenziamento riconosciuto illegittimo (così ratificando un’altra magnifica libertà padronale: quella di poter licenziare anche al di fuori delle condizioni di legge), ma potrà richiedere solo un’indennità commisurata alla propria anzianità di servizio.
Questo significa l’azzeramento definitivo di ogni possibilità di far valere anche i minimi diritti sul posto di lavoro pure all’interno di un contratto a tempo indeterminato, ridotto a sua volta ad una condizione di totale precariato, dipendendo soltanto dall’impresa in qualsiasi momento la cessazione del rapporto di lavoro, tutt’al più monetizzabile con un indennizzo.
Di fronte a questi caratteri di vera e propria “soluzione finale” dell’attacco del governo Renzi (e delle classi proprietarie) ai diritti e alle condizioni di esistenza della classe lavoratrice, l’unica risposta possibile e adeguata è quella della più estesa e forte mobilitazione non solo per difendere, ma anche per rivendicare un nuovo vigore e una nuova estensione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori a tutti i contratti di lavoro.
Per rivendicare, a partire da questa fondamentale trincea, una diversa idea di società in cui l’impresa economica non è un valore assoluto, ma una funzione subordinata ai diritti inalienabili del lavoro e della persona umana.