A circa un anno e mezzo dall’entrata in vigore delle misure previste dal Jobs Act le principali criticità del mercato del lavoro italiano sono ancora tutte evidenti, e non c’è alcun segnale di una inversione di tendenza. Anzi, per molti aspetti, primo fra tutti la questione del precariato, i risultati periodicamente rilevati dall’Istat e dall’INPS mostrano un peggioramento del quadro generale: secondo i dati Istat da gennaio 2015 a oggi la quota di occupati dipendenti con contratti a tempo determinato anziché diminuire è cresciuta. Non solo, in parallelo si è ulteriomente diffusa una forma estrema di lavoro precario, il lavoro accessorio. In tal senso, secondo gli ultimi dati INPS nel primo semestre 2016 sono stati venduti circa 70 milioni di voucher, il 40% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e ben il 145% in più rispetto allo stesso periodo del 2014. Insomma, alla faccia del supermento del dualismo del mercato del lavoro, si è asistito a un’enorme iniezione di precariato!
Poco se ne parla, ma se è vero che una prima enorme spinta alla diffusione dei voucher è venuta dal governo Monti (che ne ha esteso l’utilizzo a tutti i settori produttivi) è anche vero che la scelta del governo Renzi di alzare il tetto di retribuzione annuale per ogni singolo lavoratore è, a tutti gli effetti, un chiaro invito all’utilizzo di questo strumento. Tale scelta è molto significativa in quanto tira in ballo una specifica visione del mercato del lavoro che - in linea con la eliminazione di ogni tipo di protezione contro i licenziamenti - prevede tutele nulle per i lavoratori e massima libertà e discrezionalità nella gestione della forza lavoro da parte delle imprese.
Certo, si può dire che l’occupazione generale – seppure in misura modesta - sia cresciuta. Tuttavia, la ripresa occupazionale italiana cominciata nei primi trimestri del 2014 – e trainata dalla debole e incerta ripresa economica – non ha mostrato alcuna sensibile accellerazione con la riforma, caratterizzandosi per un andamento certo non dirompente. Peraltro, la ripresa occupazionale (ed economica) italiana è stata dall’inizio del 2015 più debole di quella – pur modesta – della media Ue e anche dell’area euro. Per non parlare del fatto che la nuova occupazione targata Jobs Act è contrassegnata dall’enorme peso, che grava sulla fiscalità generale, rappresentato dagli sgravi contributivi. Per inciso, gli stessi sgravi hanno fortemente influenzato la composizione dei nuovi contratti a cavallo tra la fine dello scorso anno e i primi mesi del 2016 quando le imprese sono corse a incassare il bonus nella sua versione più sostanziosa, facendo così aumentare la quota di occupati “a tutele crescenti”. Dopodiché, finito il doping, ha ripreso inesorabilmente a crescere la quota di occupati temporanei e con essa il precariato. Insomma, il meccanismo dello sgravio per le assunzioni – com’era prevedibile e com’era già noto da studi passati sul tema – si è risolto in un enorme regalo alle imprese a scapito di indirizzi alternativi di spesa pubblica e sociale.
Ma gli insuccessi della riforma non finiscono qui: i giovani, quelli che avrebbero dovuto essere i principali beneficiari del Jobs Act, non hanno raccolto praticamente nulla. La distribuzione generazionale della nuova occupazione mostra infatti come più del 90% dell’incremento si è concentrato sui soggetti over 50. A ben vedere la concentrazione generazionale della nuova occupazione non può non chiamare in causa gli interventi di riforma previdenziale e, tra questi, la riforma Fornero del 2012: più lavoratori sono costretti a rimanere a lavoro, più crescono gli occupati e i tassi di occupazione nelle classi d’età interessate.
Dal punto di vista della qualità della nuova occupazione, poi, tutt’altro che trascurabile è la ulteriore crescita della quota di lavoro part time. Cioè lavoro scarsamente qualificato, con ridotte possibilità di formazione professionale, poche possibilità di avanzamento di carriera e, sul lungo termine, ridotte prospettive pensionistiche.
Si potrebbe continuare considerando gli scarsi risultati ottenuti sul fronte dello storico divario territoriale tra Centro Nord e Sud del paese, così come i dati relativi alla distribuzione settoriale della nuova occupazione trainata dal settore dei servizi e, in particolare, dai comparti a bassa produttività e alta intensità di lavoro (servizi alle famiglie, alberghi e ristorazione etc.), seguendo una tendenza che negli ultimi decenni ha portato a un sostanziale declino del sistema produttivo italiano.
In ultima analisi il Jobs Act ha puntato su una chiara strategia di generalizzazione della precarietà, di cui il contratto a tutele crescenti è la massima espressione. Si disegna così un modello di mercato del lavoro caratterizzato dall’autoritarismo e dal disciplinamento della forza lavoro. L’obiettivo ultimo – com’è stato per le passate riforme neoliberiste del lavoro - è la ricattabilità dei lavoratori e la conseguente compressione dei salari e il generale peggioramento delle condizioni di lavoro.
Si nota nell’ultimo periodo una crescente difficoltà da parte del governo nel confrontarsi con i risultati della riforma. L’arma della propaganda – pur se sostenuta da tutti i principali media – sembra mostrare la corda. Ciò è facilmente comprensibile: la crescita occupazionale è modesta e, dopo diversi anni di crisi, la disoccupazione e la precarietà rappresentano ancora l’unico orizzonte possibile per milioni di italiani. Sarebbe opportuno sfruttare questa fase. La principale questione è più che mai quella di puntare a una necessaria unità tra tutti i soggetti colpiti dalla riforma: precari, disoccupati e occupati a tempo indeterminato che quotidianamente temono di perdere il lavoro e che si confrontano con condizioni di lavoro sempre più dure.