(Segue dal n. precedente)
Alcune caratteristiche residue del sistema bancario italiano
Rispetto ad altri paesi dell’Ue il nostro sistema bancario è maggiormente legato ad attività di tipo tradizionale. Si tratta di una caratteristica destinata a ridimensionarsi nel tempo, ma che è opportuno tenere presente. Grazie a questa sua peculiarità ha sofferto un impatto dello scoppio della bolla dei mutui subprime meno violento di quello riscontrato in altri paesi dell’Eurozona. L’altra faccia della medaglia è il costo maggiore della raccolta che ha comportato ovviamente una maggiore onerosità dei prestiti alle imprese e alle famiglie e un aumento dei crediti a rischio di inesigibilità, oltre a una minore redditività del sistema rispetto alla media europea. Va aggiunto a questo handicap la svalutazione dei titoli del debito pubblico detenuti, conseguente allo spread e alle regole europee [1] e l’obbligo di ricapitalizzazione, per avere un quadro generale piuttosto allarmante.
I processi di concentrazione, fusione, acquisizioni resi possibili dalla loro nuova forma di SpA e favoriti da regole che penalizzano i piccoli istituti, hanno determinato un distacco delle casse di risparmio dal territorio. Questo distacco si è verificato nel contesto, in Italia, di un largo tessuto di piccole e medie imprese. Già nel 2004 il Governatore della Banca d'Italia Fazio ebbe a dire che "la frammentazione della struttura produttiva limita l'aumento della produttività, l'attività di ricerca, lo sviluppo di prodotti innovativi e tecnologicamente avanzati, la conquista di nuovi mercati” [2]. Un messaggio chiaro ai sostenitori del “piccolo è bello”. La crisi del 2007-8, ha determinato una selezione e ha certamente ridotto il rilievo delle imprese minori. Nella stessa direzione condurrà – è facile prevederlo e in parte lo stiamo già osservando – la crisi odierna. Ma ciò non elimina completamente il carattere peculiare del nostro sistema economico che in gran parte soffre del “nanismo” delle imprese. Questa particolarità comporta il ricorso in maniera considerevole all’autofinanziamento o al credito bancario, prevalentemente a breve termine, piuttosto che a strumenti finanziari più vantaggiosi, quali l’emissione obbligazioni o di azioni. L’indebolimento del rapporto fra piccole banche, verso cui prevalentemente si rivolgono in larga misura le piccole e medie imprese, e territorio, costituisce un’altra causa della “distruzione creativa” [3], elogiata da Schumpeter ma che in Italia, parallelamente al processo di smembramento della grande industria, significa prevalentemente distruzione senza aggettivi.
Non che sia oro tutto quel che luccica nel rapporto fra banca e piccola impresa. La realtà è molto più complessa di quello che gli apologeti vorrebbero farci credere. Spesso siamo di fronte a un legame non trasparente, a rapporti prevalentemente informali e a reciproca diffidenza, che vanno a condizionare sia la consistenza dei finanziamenti concessi che il tasso di interesse praticato il quale risente necessariamente della carenza di informazioni utili a valutare i rischi degli affidamenti.
C’è un’altra peculiarità. La separazione fra proprietà e controllo delle imprese, già prevista da Marx e enfatizzata da Schumpeter, divenuta prevalente nelle economie più sviluppate dell’Occidente, assume in Italia un carattere molto meno rilevante. Ciò costituisce un indicatore dell’arretratezza del nostro sistema economico. Anche la grande impresa, a prescindere dalla forma societaria, presenta questo tratto distintivo. La proprietà delle grandi società è non raramente di pertinenza di alcune famiglie. Ecco alcuni dei nomi più noti: Agnelli (ora Elkann), Barilla, Benetton, Berlusconi, De Benedetti, Ferrero, Marzotto, Menarini, Merloni, Pesenti, Riva, Tronchetti Provera. Il cosiddetto capitalismo familiare, sta certamente perdendo terreno, tuttavia svolge ancora un ruolo di rilievo e viene elogiato da molti commentatori che sottolineano le virtù di questi grandi “capitani”, a dispetto dei miseri risultati ben evidenti. Basterebbe osservare gli esiti concreti delle nostre privatizzazioni, dalle acciaierie date ai Riva e ai Lucchini e alle autostrade gestite dai Benetton.
Data questa caratteristica, è assai meno praticato il finanziamento attraverso l’aumento di capitale, anche col ricorso ai mercati finanziari, che metterebbe in discussione lo stretto controllo delle società da parte dei capitani d’impresa. Prevale invece l'autofinanziamento e il ricorso al credito bancario, soprattutto a breve termine che in Italia predomina nettamente sulle altre forme di prestiti. Il ruolo svolto dalle banche riguarda così, in larga misura, le esigenze di cassa e la circolazione del capitale piuttosto che il sostegno dei programmi di investimento.
Ne consegue che il finanziamento delle imprese italiane, sia le grandi che, in maggior misura, le piccole e medie, dipende, più che nel resto dell’Europa, dal sistema bancario. Di converso, le copiose ricchezze finanziarie possedute dal facoltoso ceto proprietario – siamo al primo posto in Europa nel rapporto ricchezza/Pil, pari a 8,4 [4] – affluiscono solo in piccola parte verso le attività produttive e si dislocano nel sistema bancario. Pertanto quest'ultimo vanta un quasi monopolio sia nella gestione del risparmio privato che nella concessione del credito alle imprese.
La dinamicità del nostro sistema economico è inferiore a quello della media della zona euro. Il tasso di crescita è durevolmente inferiore a quello di Germania, Francia e perfino della Spagna. La nostra economia era già in forte stagnazione già prima del coronavirus e gli osservatori più attenti prevedevano lo scoppio della bolla finanziaria dovuto al forte divario fra il ristagno della produzione e la poderosa crescita delle quotazioni in Piazza Affari. Anche le previsioni di Prometeia [5] indicavano la stagnazione per i prossimi anni, e neppure l’aspettativa di un bilancio e di un debito pubblico in espansione era ritenuta sufficiente a contrastare questa mesta previsione. L’accelerazione della crisi ad opera del coronavirus, irrompe quindi su un’economia sofferente e su un sistema bancario in difficoltosa ristrutturazione.
I ripetuti crack bancari, non sono spiegabili solo con le avventate decisioni del management, ma hanno una spiegazione più sistematica, legata all’intreccio fra la stagnazione dell’economia e le regole europee. Oltre ai motivi già trattati nei precedenti articoli ne segnaliamo uno ulteriore, messo in luce da Emiliano Brancaccio e Thomas Fazi. La Banca centrale, attraverso le politiche monetarie espansive non è in grado di incidere sull’inflazione e sulla domanda aggregata. L’esito del Quantitative Easing di Draghi sta a dimostrarlo. Tuttavia può - mantenendo l’onere del debito al di sotto della dinamica del reddito, attraverso la manovra sul tasso di interesse – intervenire sulla solvibilità di banche e imprese. Infatti le imprese, finché gli utili delle imprese sono sufficienti a pagare l’onere del debito, non vanno in dissesto. Questo per le imprese mediamente prospera. Ma le imprese marginali, che hanno una redditività sensibilmente inferiore alla media, sono destinate ugualmente a soccombere e ad essere assorbite dalle maggiori. Se trasferiamo il ragionamento a livello europeo, si spiega come si sia verificata una “divaricazione fra i tassi di insolvenza delle imprese Europee”, con la Germania che lo ha visto ridurre e Italia, Spagna, Portogallo in cui invece è esploso. È evidente che questo differenziale si ripercuota anche nei rispettivi sistemi bancari con bilanci delle banche in affanno nelle economie più deboli.
Si spiega così la crisi del Monte dei Paschi di Siena, a cui abbiamo già accennato nei precedenti due articoli, la liquidazione coatta amministrativa della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, cedute per un euro a Intesa San Paolo, il salvataggio della Banca Popolare di Bari, con l’intervento dello Stato, l'acquisto di Ubi Banca, che già era il frutto di precedenti aggregazioni, da parte di Intesa San Paolo. E non mancano altre vicende di crisi di istituti minori. Questi episodi non possono tutti essere ricondotti ad errori gestionali, pur presenti e talvolta eclatanti. Occorre piuttosto rilevare che va modificandosi, sotto l’impulso della crisi, la struttura del sistema bancario, in un processo di centralizzazione ancora in atto che ne rafforza il carattere oligopolistico.
Il nostro sistema si va timidamente ma progressivamente adeguando alla fisionomia del mercato mondiale. Lo fa nel contesto di difficoltà a smaltire le partite creditizie a rischio, i cosiddetti Npl (Non Performing Loans), del calo della redditività, che però è differenziato e che produrrà l’assorbimento delle banche meno sane, della tendenza sempre più accentuata alla centralizzazione e in mezzo a battaglie tra gruppi, spesso familiari, in assenza, purtroppo, di una strategia dello Stato che sia diversa da quella del soccorso al capitale.
Il legame fra piccole banche e territorio diverrà sempre più marginale e i capitali stranieri si vanno impadronendo di fette importanti del sistema finanziario, mentre si va affermando la tendenza a un progressivo allargamento della sfera di intervento delle banche che abbraccia tutta la finanza in senso lato: credito ordinario, credito a medio e lungo termine, attività parabancaria, consulenza, assicurazioni, gestione dei fondi comuni, partecipazioni azionarie ecc. In un tale contesto sarebbe necessario che gli strumenti di indirizzo e controllo della banca centrale venissero adeguati e potenziati. In caso contrario questa sua attività diverrà sempre più inefficace.
Quale intervento dello Stato?
Se non vuole confinare il suo ruolo a quello di tutore degli interessi del capitalismo parassitario e di coadiuvante nell’attacco alla classe lavoratrice, lo Stato, se proprio non intende percorrere la via della socializzazione dei mezzi di produzione, dovrebbe inserirsi in questa situazione finalizzando le sue partecipazioni nei capitali delle banche alla direzione della politica monetaria e creditizia e anche della politica economica tout court, visto il carattere strategico del settore, a partire dal pieno controllo politico della Banca d’Italia. Niente di rivoluzionario ma un puro e semplice adattamento al nuovo contesto che vede le politiche dei paesi emergenti, la Cina in primis, vincenti la competizione internazionale, grazie a un un modello di sviluppo fortemente diretto dallo Stato.
La stessa ipotesi del ritorno alla sovranità monetaria, che potrebbe divenire ineludibile, presupporrebbe, al fine di evitare il tracollo causato dagli attacchi speculativi, il controllo pubblico del sistema bancario. Tale controllo permetterebbe inoltre l’adozione di piani di investimento nei settori produttivi strategici e di operare per il recupero del ritardo di alcuni territori, quale il mezzogiorno, supportare i progetti che abbiano la caratteristica di far fronte a esigenze suscettibili di tutela pubblica, razionalizzare la rete degli sportelli, delle procedure e delle comunicazioni informatiche, centralizzare o almeno indirizzare alcune prestazioni quali gli studi di mercato e l’organizzazione dell’assistenza alle imprese, ristrutturare il management e anche le relative, eccessive retribuzioni, eliminando o riducendo al minimo l’istituto della stock option, cioè dei compensi effettuati attraverso il conferimento di azioni gratuite, che fa dipendere la retribuzione dalle quotazioni azionarie. Questa forma di retribuzione, subordinando i compensi all’unico obiettivo di mantenere elevate tali quotazioni, tende a far trascurare ogni altra finalità rientrante nei compiti che lo Stato dovrebbe assolvere.
Tutto questo è ben lontano dalle reali intenzioni del nostro governo che svolge passivamente il ruolo di socializzazione delle perdite.
Note:
[1] Si veda in proposito il nostro precedente articolo.
[2] A. Fazio, Considerazioni Finali, 31 maggio 2004, p.18.
[3] Cfr. J.A.Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Ed Etas, 2002.
[4] Cfr. A. Orioli, https://www.ilsole24ore.com/art/paradosso-italia-dove-ricchezza-sembra-poverta-AC9grr7?refresh_ce=1
[5] Prometeia, Rapporto di previsione, dicembre 2019.