Il meccanismo cardine del sistema capitalistico è in funzione dell’autovalorizzazione del capitale. I capitalisti ignorano che la fonte di tale arricchimento risiede solo nello sfruttamento del lavoro e vedono invece l’altro elemento importante, la competizione economica. La scintilla che fa scattare la crescita economica è data dalla volontà degli appartenenti alla classe borghese, finanziaria e imprenditoriale, di accrescere il proprio capitale inteso come ricchezza fine a sé stessa e, naturalmente, rappresentata dal denaro che altro non è se non un mezzo. L’economia di mercato determina così, tramite la domanda e l’offerta, non solo chi sono i vincitori e chi sono gli sconfitti della competizione economica ma l’esistenza stessa della competizione economica, la quale sortisce l’effetto di condannare le classi ultime alla terrena frustrazione di chi ha perso e alla contemporanea invidia verso coloro che la società ha posto sul podio dei primi. In poche parole la molla del progresso nel sistema capitalistico è rappresentato dal concetto tanto banale, quanto utopico, del sogno cosiddetto americano. Come mai è un concetto utopico? Lo è poiché la speranza di vittoria rappresentata dalla competizione economica è un sogno irrealizzabile. Tale impossibilità però si palesa a solo a livello collettivo ed è difficilmente percepibile a livello personale. Il sogno di poter divenire un giorno capitalisti, in accordo con la tipica etica protestante, spinge implicitamente alcuni membri della classe lavoratrice ad assecondare la pulsione del capitale alla crescita esponenziale della produttività. Faticano, lavorano e producono sottomettendosi al padrone, il quale si sente legittimato dal sistema ad appropriarsi dei mezzi di produzione, con relativa accettazione fra l’altro, sperando un giorno di divenire essi stessi padroni. È così che buona parte della classe stipendiata oggi giorno ha barattato il sogno rivoluzionario fondato sull’uguaglianza senza compromessi fra tutti gli esseri umani con l’utopia egoistica di poter divenire sfruttatori a loro volta. Questo è il grande paradosso: si sogna di sfruttare gli altri esseri umani per arricchirsi senza capire che, anche presupponendo una bontà di intenti o una totale assenza di presa di coscienza, il “tutti” non può divenire padrone poiché esso esiste in funzione dei suoi dipendenti e viceversa. Al contrario, il sistema a economia pianificata, tramite l’eliminazione della proprietà privata e quindi della possibilità di accrescere il proprio capitale, non solo elimina l’esistenza dei vincitori e degli sconfitti ma elimina l’esistenza stessa della competizione economica con, ovviamente, tutte le conseguenze che la partita capitalistica comporta. Allora, dove si trova la scintilla del progresso economico in un sistema collettivista? Sotto questa domanda, così semplice ma allo stesso tempo fondamentale, si celano i secoli che hanno portato il mondo a essere così come noi lo conosciamo, lo viviamo, e lo interpretiamo. Il “naturale” desiderio delle persone di accrescere sempre di più e in maniera esponenziale il proprio capitale è una reazione umana acquisita storicamente con il sistema capitalistico. Da secoli il mondo è cresciuto grazie alla ricerca del superfluo, del confort, del vizio e del privilegio. Per molti è un elemento naturale, per altri una constatazione triste, a ogni modo è un fatto innegabile. Lo storico e antropologo di orientamento socialista, nonché nipote del filosofo francese Emile Durkheim, Marcel Mauss ebbe ad affermare: “non è nella produzione che la società ha trovato il proprio slancio: il grande promotore è il lusso” [1]. Condividevano tale presupposto molti altri umanisti degli ultimi due secoli, uno di questi fu il filosofo Gaston Bachelard con l’affermazione che “la conquista del superfluo provoca un’eccitazione spirituale superiore a quella della conquista del necessario. L’uomo è una creatura del desiderio, non del bisogno” [2]. L’economista Jacques Rueff arrivava perfino a sostenere che “la produzione è figlia del desiderio” [3]. È bene tuttavia soffermarsi sulle contraddizioni insite in seno al concetto di “bene di lusso” o, più precisamente, al “bene di consumo di lusso”. Esso è sì un possibile sbocco del plusvalore, il quale, come scriveva Marx nel Capitale è il prodotto dello sfruttamento del lavoratore, ma in una certa misura è anche la negazione stessa del capitale. Perché? Il plusvalore così consumato non si ritrasforma in capitale e non costituisce - a livello sociale - valorizzazione del capitale, come invece lo è il plusvalore impiegato per acquistare nuovi mezzi di produzione e nuova forza-lavoro che consentono di allargare la scala della produzione. Perciò ove il consumo di lusso assumesse un carattere dominante, non solo esso rappresentaerebbe la manifestazione stessa del declino morale che il sistema capitalistico produce, ma diverrebbe anche il segnale dell’incapacità del modo di produzione di svolgere il suo ruolo propulsivo della crescita, di trovare vantaggio nell’investimento produttivo. La crescita si arresterebbe a prescindere dall’esistenza di bisogni non soddisfatti, in quanto è il saggio di profitto e non i bisogni l’indicatore dell’opportunità di investire e produrre. In un sistema a economia pianificata il meccanismo della crescita economia intesa come aumento della produttività tramite la volontà del singolo e della spinta all’innovazione tecnologica si basa su altre fondamenta ed essa sarà innescata dal desiderio dell’individuo di poter apportare un beneficio all’intera società. Questa logica collettivistica, a differenza dell’individualismo innescato dal sistema a economia di mercato, non si è affermata da secoli nella stragrande maggioranza della popolazione mondiale poiché le idee marxiste e anche quelle degli scrittori protocomunisti come Saint-Simon o Owen, non solo non sono state storicamente quelle dominanti, ma anche perché semplicemente sono molto più recenti rispetto al mercantilismo e alla successiva evoluzione del sistema capitalistico, e questo porta pressoché tutta l’umanità, o almeno quella occidentale e abitante le nazioni economicamente avanzate, ad avere una determinata visione del mondo e quindi un’interpretazione totalizzante di esso. Allora, se il desiderio del lusso non è un dato naturale dell’uomo, bensì un dato storicamente acquisito, è possibile cambiarlo? La risposta è sì, per questo la vera rivoluzione è anche antropologica e culturale. Ovviamente non bastano pochi decenni e probabilmente nemmeno tanti ma la natura degli uomini e l’orizzonte di valori, sentimenti ed emozioni che condividono sono mutevoli nel tempo, anche in relazione alle trasformazioni della struttura economica, e anche questo è un dato storicamente innegabile. Da qui è in parte spiegabile una delle cause che sotto diversi aspetti ha portato molte nazioni socialiste all’arretratezza economica rispetto ad altre a economia di mercato. Per consolidarsi, tali società, che sono nate come nuovo modello solo nel ’900, avevano bisogno di una cosa di cui non hanno disposto a sufficienza: il tempo. Non ve n’è stato abbastanza per giungere all’affermazione di tutta una nuova serie di orizzonti culturali ed emozioni condivise negli esseri umani. Molte sono però le degenerazioni che il capitalismo tristemente produce. Guardiamo agli Stati Uniti, l’emblema del capitalismo e del libero mercato a livello mondiale. Tramite la logica capitalistica della ricerca continua del privilegio e dell’accumulo di capitale fine a sé stesso si è giunti al punto drammatico in cui lo stato stesso permette che si possa fare del commercio su ciò che in un sistema a economia pianificata, ma anche in molte nazioni paladine del welfare, sarebbe impensabile commerciare, ovvero la salute, le armi e l’istruzione: un continuo commerciare sul male assoluto rappresentato dalle armi e una progressiva mercificazione dei servizi. Assistiamo anche in Europa e in Italia a scaffali interi dei supermercati in cui vengono mostrati al consumatore cibi del tutto dannosi per la salute come merendine stracolme di zuccheri aggiunti appositamente per dare assuefazione al fine di ingannare il consumatore e portarlo indirettamente a comprare di più. Un’economia del genere finisce per immettere sul mercato un sacco di prodotti inutili e talvolta dannosi poiché tali beni saranno il risultato non di una consapevole volontà di produrre col fine di contribuire al bene comune della società tutta ma di un’azione egoista volta alla perpetua conquista del profitto personale per mezzo dello sfruttamento di altri esseri umani. Il capitalismo, tristemente, è anche questo: la creazione nell’uomo del bisogno impulsivo di consumare sempre di più e quindi anche l’inevitabile dannazione e vuotezza morale per il non riuscire a colmare la propria essenza ontologica tramite la progressiva acquisizione di lussi, vizi, comodità e privilegi. Un cadenzato presente formato di piaceri momentanei a discapito della sincera e costante nobilitazione etica e ricerca della serenità interiore. In un sistema a economia pianificata non è possibile rifugiarsi nei piaceri momentanei ed effimeri che il capitalismo offre, in compenso concentra i propri sforzi economici su ciò che veramente è necessario, e il cui sviluppo è indice del vero progresso umano, come il sistema scolastico, sanitario, assistenziale, tralasciando gran parte del superfluo. Nel pensiero marxista l’uomo è quindi potenzialmente redimibile e, soprattutto, lo è nel mondo terreno. In questo sta una delle principali differenze con l’ideologia cristiana: essere convinti del fatto che gli esseri umani non siano inevitabilmente macchiati dal peccato originale che li porta alla passività terrena mentre aspettano l’arrivo della morte per guadagnarsi la propria salvazione, bensì che gli esseri umani siano portati a peccare perché viventi all’interno di un sistema secolarmente consolidato che premia l’arroganza, la competizione, il privilegio e lo sfruttamento. Il comunismo è perciò anche questo: un mondo in cui non vi è un vincitore e non vi è un premio che non sia quello di gioire per aver donato qualcosa di veramente utile a tutta la società e, il superfluo e il privilegio di alcuni vengono sacrificati per far posto al necessario e all’indispensabile di tutti. Un mondo in cui nessuno debba piangere perché non ha la possibilità di studiare, di curarsi e di mangiare. Un universo in cui non si aspetta la morte per essere persone migliori ma ci si attiva concretamente per salvare gli esseri umani su questo pianeta.
Note:
[1] Braudell, F., in Civiltà materiale, economia e capitalismo vol. I – Le strutture del quotidiano, 1979, ed. italiana 1982, p. 163.
[2] Ibid.
[3] Ibid.