GERUSALEMME. Ti chiamerò Saba, come la tua ava che intraprese il viaggio per conoscere colui che domandò la sapienza, Salomone il re ebreo. Mi dici con il tepore di parole rosse, il colore aspro di quel liquido del corpo che non perderai più nei cicli lunari di ovuli già sterili, quello che ti è capitato nella terra desiderata, anche se non ti sarebbe dispiaciuto rimanere là dove nascesti. Tu sei tra le donne di Etiopia sottoposte con la forza al controllo delle nascite in Israele. E ti domandi la ragione e chiedi anche a me: perché?
C’è stato il direttore generale del ministero della Sanità che ha istruito i ginecologi delle organizzazioni di assistenza sanitaria israeliane perché non iniettassero più alle donne il contraccettivo a lunga durata Depo-Provera. È stata la prima volta che un funzionario governativo ha riconosciuto pubblicamente la pratica di iniettare, in particolare a donne di origine etiopica, questo discusso contraccettivo. La direttiva è arrivata in risposta a una lettera di Sharona Eliahu-Chai dell'Associazione dei diritti civili in Israele, che rappresenta donne e gruppi di immigrati etiopi. La lettera richiedeva che le iniezioni cessassero immediatamente e che un'indagine fosse avviata sulla questione. Ne dà notizia Haaretz, quotidiano israeliano più che attendibile.
Già qualche settimana fa il giornalista del programma televisivo educativo Gal Gabbay ha rivelato i risultati delle interviste con 35 immigrati etiopi. La testimonianza delle donne intervistate potrebbe aiutare a spiegare il declino, quasi del 50 percento negli ultimi 10 anni, del tasso di natalità della comunità etiopica israeliana. Il programma scopre il velo su una questione dibattuta da tempo: mentre le donne erano ancora nei campi di transito in Etiopia a volte venivano intimidite o addirittura minacciate di essere sottoposte all'iniezione di Depo-Provera. ”Ci hanno detto che sono inoculazioni per evitare che le persone che partoriscono soffrano. Il farmaco l'abbiamo preso ogni tre mesi”, mi dice Saba, che aggiunge “ho detto che non volevo”.
Ecco i protagonisti principali dell’articolo: Saba, come l’ho chiamata, è una falascià, del popolo di origine etiope e di religione ebraica, noto col termine Beta Israel che significa Casa di Israele. Preferisce essere chiamata così, vista l'accezione negativa che la parola falashà ha in aramaico: “esiliato” o “straniero”. È dal XV secolo che esistono testimonianze storiche e letterarie che parlano di ebrei neri. Essi non si distinguono dalle popolazioni delle terre di cui sono originari né per le lingue né per i tratti, ma solo per la religione professata, l’ebraismo appunto. Alcuni storici li considerano derivati dalla fusione tra le popolazioni autoctone africane con gli ebrei fuggiti dalla schiavitù Egitto, intorno al 1.800 a.C., e con quelli emigrati nel Corno d’Africa ai tempi della distruzione di Gerusalemme, nel 587 a.C., mentre dal punto di vista religioso sarebbero il frutto dell'unione tra Salomone e la Regina di Saba. Questo costituisce ancora un problema per l’ortodossia ebraica giacché l'ebraicità è trasmessa in linea femminile. La Regina di Saba non era ebrea, dunque anche i discendenti non dovrebbero esserlo…
A causa della crisi economica, della carestia e delle repressioni del governo etiope negli anni 1977-1979, i falascià emigrarono verso il Sudan, dove incrociarono il governo musulmano ostile nei loro confronti. Israele decise allora di trasportarli nel proprio territorio massicciamente con un ponte aereo: si svolsero tre operazioni denominate Mosè, Giosuè e Salomone durate fino al 1991, con il trasferimento di circa 90.000 ebrei, l'85% della comunità presente.
Le operazioni furono decise dal governo per risolvere la situazione di grave disagio: l’emigrazione regolare di singoli o famiglie, che peraltro era in atto già da anni, ma soprattutto il contingentamento dei permessi di espatrio e le continue richieste di denaro dei governi locali per concedere i permessi, rendevano di fatto ostaggi gli ebrei etiopi. Oggi in Israele vivono circa 135.000 ebrei falascià in progressiva integrazione, nonostante le difficoltà di adeguamento all’ambiente molto diverso da quello di origine, basti pensare il passaggio dalla società tribale tradizionale a una omogeneizzata tecnologica moderna. Numerosi i casi di alienazione, povertà e degrado, ma i giovani tendono ad assimilarsi facilmente nella società israeliana, in particolare nelle scuole e nell'arruolamento militare. Diversa è la questione degli anziani, soprattutto maschi, privati del rapporto con la comunità tribale e della loro importante funzione di supporto economico della famiglia. Si contano vari casi di suicidi. Migliore la situazione delle donne anziane che sono anche valorizzate maggiormente dalla cultura moderna rispetto a quella tribale.
L’altro protagonista principale dell’articolo è un farmaco, il Depo-Provera. L’Organizzazione mondiale della sanità continua ostinatamente a consigliarne l’uso come contraccettivo iniettabile. È distribuito in grandi quantità in Africa, anche se causa un forte incremento dell’osteoporosi e secondo alcuni studi aumenta il rischio di contrarre l’HIV. Pur declassando il livello di sicurezza (da categoria 1 a 2), nella nuova guida dell’Oms si afferma che il Depo-Provera e un altro anticoncezionale ormonale a base di noretisterone possono essere usati perché “i vantaggi di questi metodi pesano generalmente di più dei possibili accresciuti rischi di acquisire l’HIV”. Il “vantaggio” è quello di evitare la gravidanza, perché le eventuali complicazioni di una maternità indesiderata costituirebbero “una seria minaccia alle vite e al benessere delle donne e delle loro famiglie”.
Ancora una volta, anziché promuovere vere politiche di sostegno alla salute materna, che ridurrebbero i tassi di mortalità, le parole dell’Oms palesano come ai vertici interessi il controllo delle nascite di malthusiana memoria. In altre parole, l’obiettivo di non far nascere bambini è più importante dell’aumento di problemi ossei e della diffusione di HIV. Il legame con l’osteoporosi è poi talmente evidente che negli Stati Uniti, già nel 2004, la Food and Drugs Administration ha ordinato alla Pfizer, la multinazionale produttrice del Depo-Provera, di inserire sulle confezioni un black box warning, un’avvertenza con il massimo risalto sugli effetti collaterali e, nello specifico, sul rischio di una significativa riduzione della massa ossea, che ha generato una serie di cause giudiziarie contro il colosso farmaceutico.
Però la testardaggine dell’Oms nella promozione del Depo-Provera nei Paesi poveri svolge un favore economico prima che scientifico alla Pfizer: la prolungata azione anticoncezionale, le iniezioni fatte ogni tre mesi, possono inibire il ritorno alla fertilità per periodi che vanno da una media di 9 fino a 18 mesi. A detta di alcuni analisti economici la scarsa trasparenza sugli effetti del farmaco si spiega anche con la dipendenza dell’Oms dai suoi maggiori finanziatori, tra i quali la Fondazione Bill & Melinda Gates, che ha stretto anche un accordo con la Pfizer per aumentare la distribuzione del Depo-Provera in una forma auto-iniettabile.
Ecco, il “capitalismo dal volto umano”, si intreccia in geo-politica con l’offesa ai diritti umani, quelli violati da Israele che sterilizza le donne etiopi, come Saba, perché per voi poveri “abbiamo già fatto molto”.