Commissione grandi rischi: la Cassazione sentenzia ma i problemi rimangono

Dopo la sentenza della Cassazione che ha definitivamente assolto i membri della Commissione Grandi Rischi, resta il bilancio delle vittime e dei danni sul terreno.


Commissione grandi rischi: la Cassazione sentenzia ma i problemi rimangono

Dopo la sentenza della Cassazione che ha definitivamente assolto i membri della Commissione Grandi Rischi, resta il bilancio delle vittime e dei danni sul terreno. E di come la sospensione dei diritti e il potere di deroga giustificati dall’emergenza abbiano fatto di L’Aquila un laboratorio per il capitale che utilizza la ricostruzione, come le precedenti costruzioni, nell’ottica di riduzione a merce della protezione di cose e persone.

di Alessandro Bartoloni

Dopo sei anni, arriva la sentenza della Corte di Cassazione riguardante il processo che ha coinvolto sette dei partecipanti alla riunione della Commissione grandi rischi, svoltasi a L’Aquila il 31 marzo del 2009, alla vigilia di quel terribile terremoto che il 6 aprile, alle 3.32, si portò via 309 persone, ferendone circa 1.600. Sentenza che conferma quanto stabilito in appello: assoluzione dall’accusa di omicidio colposo plurimo e lesioni per tutti gli imputati, meno uno.

Il verdetto emanato dalla Suprema Corte mette la parola fine ad un processo che ha visto alla sbarra gli scienziati con l’accusa di aver indotto le vittime a cambiare le proprie abitudini diffondendo un messaggio distorto e tranquillizzante. È nota l’intervista al vice-capo della Protezione civile, De Bernardinis, rilasciata prima della riunione - la situazione è favorevole perché c’è un continuo rilascio di energia - e l’intercettazione in cui Guido Bertolaso, il capo, rivela all’assessore regionale Daniela Stati lo scopo politico di quella riunione: usare gli scienziati per tranquillizzare la popolazione. Ma note sono anche le problematiche legate all’edilizia, scadente qualità del cemento, violazione delle norme antisismiche, errori di progetto, così come è noto il ruolo che politici e stampa hanno giocato in quei giorni nel dar spazio a opposte semplificazioni (le presunte previsioni del tecnico Giuliani, la positività del graduale rilascio di energia).

Archiviata la vicenda giudiziaria, rimangono aperte le ferite causate dal disastro e le contraddizioni che lo hanno generato: il malaffare come forma necessaria dell’accumulazione capitalistica; la prevenzione come sfera di investimento residuale; il disorganico rapporto tra gli esperti e la popolazione, in particolare quella lavoratrice. La mancata soluzione di questi tre nodi – non la pericolosità della natura! – è ciò che realmente fa dell’evento un disastro, e fin quando non si provvederà a scioglierli la tragedia è destinata a ripetersi.

Il malaffare non solo nelle costruzioni (la maggior parte delle scuole in Italia non sono a norma) ma anche nelle ricostruzioni. Di queste tratta brillantemente Roberto Galtieri (Il laboratorio Aquila, La Contraddizione n. 145) che descrive e analizza i poteri speciali e derogatori di cui viene dotata la protezione civile subito dopo la scossa che sconvolge “L’Aquila” al fine di «coprire e permettere di tutto, anche la presenza della criminalità organizzata. Poteri speciali che sono serviti a permettere accumulazione straordinaria di capitale. Non si tratta, infatti, solo di ruberie dovute a maggiorazioni di prezzo sul costo della realizzazione piuttosto che utilizzazione di materiali di qualità e costo inferiore a quanto pattuito – e tutto ciò è avvenuto – quanto piuttosto di aver creato un sistema libero di agire, senza controlli istituzionali di sorta, al fine di aumentare a dismisura, al di là delle “normali opportunità di mercato”, il capitale inizialmente investito producendo accumulazione. La sospensione dei diritti costituzionali e il potere di deroga hanno impedito la costituzione di un’opposizione di classe che avrebbe potuto orientare differentemente il disegno edilizio e controllare quanto si veniva formando. Come durante il ventennio fascista, la grande industria ha potuto indisturbata riprodurre continuamente accumulazione. Per questo Aquila è da considerarsi “laboratorio delle speranze del capitale”.

Arbitrio di cui occorre liberarsi senza annacquarlo nell’illegalità. Il problema di impedire che eventi naturali si trasformino in tragedie, infatti, non si risolve semplicemente (ammesso che sia possibile) impedendo ai rappresentanti del capitale di violare le loro stesse regole. È invece indispensabile una massiccia e miglior prevenzione, quindi l’impiego di lavoro, vivo (umano) e morto (macchine), per conservare l’integrità di persone e cose, soprattutto fabbricati e infrastrutture, minimizzando i danni in caso di eventi naturali estremi. Rendere gli oggetti e le persone meno vulnerabili. Il che ne modifica il valore d’uso (e quindi, in regime capitalistico, incrementa valore e prezzo) e incide sui costi di produzione, il cui incremento però rappresenta una sottrazione di ricchezza sociale, sebbene sia una condizione di esistenza della stessa.

L’avvento del capitalismo non muta la prevenzione in quanto costo necessario a preservare cose e persone, bensì il metro con cui si misura e giudica che cosa merita di essere tutelato e fino a che punto. Né cambia l’autonomizzarsi della produzione dall’applicazione, se non per i risparmi derivanti dalla concentrazione del primo momento in capo a enti e industrie specializzati. Il privato, infatti, investirà nella ricerca e nello sviluppo di conoscenze e tecniche che migliorano la prevenzione unicamente nella misura in cui la vendita della merce-prevenzione gli consente di accumulare profitto e nulla più, senza che ciò aumenti di per sé la ricchezza sociale prodotta. Al più questa potrà meglio conservarsi se le migliori tecniche fossero adottate, il che avviene, però, sulla base della comparazione tra le risorse da investire e il danno da evitare. Se i beni da preservare sono cari, di difficile o costosa riproducibilità o si valorizzano cospicuamente converrà investire o spendere nella loro protezione e salvaguardia più di quanto non si faccia nel caso opposto, indipendentemente dalla pericolosità degli eventi naturali.

Fatta da pubblici poteri, invece, la prevenzione conserva unicamente la sua utilità, che per quanto alta non aumenta le risorse sociali di cui lo stato dispone né, soprattutto, modifica gli scopi comuni della classe dominante che l’azione pubblica mira a tutelare e sviluppare e che non consentono di spendere nell’ottica di salvare vite umane prive di valore perché inutili ai fini dello sfruttamento o facilmente rimpiazzabili. Dunque, la diffusione della “cultura della prevenzione” – il suo consumo da parte di cittadini e imprese – è necessariamente limitato dalla sottomissione del valore d’uso al valore di scambio e dalla grandezza di quest’ultimo.

La coscienza di questo stato di cose, qui solo accennato, è ancora largamente assente tra gli scienziati e gli esperti del settore. Ciò si traduce in campagne di sensibilizzazione che molto spesso hanno come obiettivo i cittadini indipendentemente dalla loro funzione sociale e dalla classe sociale di appartenenza, col risultato di allontanare i lavoratori dalle nozioni indispensabili per maturare la necessaria coscienza. Spiegare il grado di probabilità di un fenomeno e il potenziale impatto; esortare l’esecuzione di verifiche, collaudi, migliorie ed esercitazioni; coadiuvare le autorità a predisporre i migliori piani è utile, ma trova concreta applicazione solo nella misura in cui i destinatari sono padroni delle proprie azioni e delle condizioni in cui esse si sviluppano. Minore è la capacità di scelta e di spesa dei cittadini ed in particolare dei lavoratori, il potere e la grandezza di mercato delle aziende, minori e peggiori sono le precauzioni che si possono effettivamente adottare e maggiore il dominio degli eventi. Dunque aumentare le risorse è necessario ma non basta; c’è bisogno di liberarle dal vincolo del profitto, in modo da ovviare agli attuali limiti della divisione internazionale del lavoro e rispondere finalmente in maniera diversa alla domanda: chi paga?

26/11/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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