Il disincanto della classe media americana in un’esilarante commedia di Arthur Hiller, datata 1970, e sceneggiata da Neil Simon.
di Sergio Cimino
Un provinciale a New York, film girato da Arthur Hiller nel 1970 con protagonisti Jack Lemmon e Sandy Dennis, sembra far propria in modo particolarmente zelante una caratteristica pur non infrequente nelle opere cinematografiche del tempo in cui fu realizzata la pellicola.
Non una parola viene buttata via, sprecata nello sterile tentativo di giustificare se stessa, ma diviene mattoncino, strettamente coeso agli altri, di una sceneggiatura granitica, scritta da Neil Simon.
Cantore disincantato come pochi, della media e piccola borghesia americana del secondo dopoguerra, Simon raggiunge con George Kellerman uno dei ritratti meglio riusciti della sua vasta galleria.
E quei dialoghi tagliati in modo perfetto, quel cesello lessicale che incastra alla perfezione le battute pronunciate dai personaggi anche più marginali, perdono subito qualsiasi apparente vezzo formale, appena ci si adoperi in una lettura funzionale della narrazione.
Nel seguire George Kellerman e consorte nelle loro peregrinazioni metropolitane, sempre più smarriti di fronte alla dimensione disumanizzante della grande città, abbiamo modo di renderci conto come all’affievolirsi dell’eco della risata suscitata dall’ilarità delle singole situazioni e al dileguarsi dell’amaro della riflessione che ne consegue, si accompagna il progressivo materializzarsi del ruolo che giocano i white collars nella struttura sociale americana.
Non si tratta solo della riuscita fotografia di un uomo che crede fermamente nella tendenza progressiva del modello americano, fatto di costanti miglioramenti, di cui è tangibile prova egli stesso, venuto a New York per essere impalmato nuovo vicepresidente della società per cui lavora, con la prospettiva di un’esistenza ben più complessa e ricca (in tutti i sensi) da vivere nella Grande Mela, lasciandosi alle spalle la sonnacchiosa Due Querce nell’Ohio. No. George Kellerman inizia realmente a mostrare la sua formazione politica e culturale, proprio nel cortocircuito che si verifica tra le sue aspettative e quanto gli offre la realtà.
Nella sua concezione del mondo, non vi è solo una fede incrollabile nella meritocrazia borghese ma uno schema semplificato di azione-reazione, sulla base del quale è attendibile aspettarsi determinati risultati dagli enti sovra-personali che sopravvivono nelle sue coordinate individualiste (l’autorità, il governo, la società, ecc.), nel momento in cui il singolo denuncia il venir meno della catena delle responsabilità.
La connessione negoziale in cui si vede immerso è di tipo diretto, senza bisogno di intermediari. Al suo contributo di lavoratore e cittadino deve corrispondere un ritorno in termini di benefici materiali ma anche di riguardi morali. Poco importa l’asimmetria di potere in cui si svolgono questi rapporti.
Un foglio di carta sempre più lercio è agitato sotto il naso di portieri d’albergo, impiegati delle ferrovie, poliziotti. Un foglio sul quale George segna il nome di chi ritiene sia responsabile di un disservizio o di un’ingiustizia patita. Accostamento tra due termini - disservizio e ingiustizia - che spiega bene le connotazioni che ad entrambi vengono attribuite dal protagonista, per il quale probabilmente le due cose si sovrappongono, riducendosi il secondo, la giustizia, al buon funzionamento di un sistema strutturalmente sano, in cui il vizio è causato dalle omissioni di qualcuno.
La razionalità è il principio su cui si basa la logica di sistema del Kellerman-pensiero. È questa che lo rende fulgido esemplare di quel baluardo sociale costituito dalla classe media, che espunge dal proprio orizzonte analitico la configurazione dei rapporti sociali caratterizzati dal dominio, nella spiegazione genetica di quella razionalità.
Una razionalità che nel suo dispiegarsi, ricorda l’ottimo paretiano, così come descritto nella efficace definizione di Bruno De Finetti: la condizione di optimum paretiano è solo una condizione necessaria perché un punto possa essere ottimo (nell’allocazione delle risorse, nda) ma di per sé non significa che sia buono.
La maturazione che conduce George Kellerman ad essere consapevole delle rilevanti criticità sottese al sogno americano, lo conduce nel finale a rinunciare al posto da lui tanto agognato.
Pur rimanendo nell’alveo di una rivalsa individuale, una risposta espressa nei termini “individuo versus sistema”, tipica di buona parte della cinematografia americana, nel solco di un prevalente antiautoritarismo di matrice anarchica, l’acquisizione di quella che potremmo chiamare coscienza della contraddizione sociale alla quale perviene il protagonista, deve essere valutata in connessione con il non scontato peso che assume il mosaico collettivo delle voci dei personaggi secondari: Neil Simon fa muovere questo fiero appartenente alla media borghesia sulla scacchiera delle proprie ambizioni, con una difficoltà sempre maggiore. La realtà materiale si manifesta con l’attrito conseguente ad una fluidità operativa ormai smarrita, in gran parte per il venir meno di varie categorie di lavoratori in sciopero.
Solo una prima lettura testuale può ascrivere la costante presenza di questi scioperi al fastidio che essi generano nel protagonista ancora votato alla causa da capo a piedi.
Perché ci si può chiamare anche New York ed essere il cuore dell’impero, ma senza quelli che consegnano il latte, sarà difficile che venga un nuovo giorno.