“Viviamo in una società paradossale. Da una parte siamo stati colpiti da una sorta di epidemia di narcisismo globale, ossessionati come siamo da noi stessi, dal nostro aspetto, e dal voler apparire a tutti i costi. Dall’altra, siamo sempre più insicuri, fragili ed incapaci di accettare noi stessi. Ma forse questa tendenza non è poi così paradossale. Forse siamo così fragili ed insicuri proprio perché siamo troppo concentrati su noi stessi, ma soprattutto perché ricerchiamo continue conferme all’ esterno, spaventati di guardare dentro di noi e trovare un vuoto siderale”. Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, 1975.
La società odierna è l’era del narcisismo che attribuisce una grande importanza al successo, al denaro, all’apparire, al mostrarsi sicuri di sé e capaci in ogni situazione. E se non lo sei diventi oggetto di ‘squalifica sociale’ o additato come poco carismatico e sconfinato nel calderone dell’anonimato. E nell’apparire, slogan tanto caro ai conformisti e agli ‘omologati’ di cui la comunità è piena, l’egotismo individuale e collettivo amplificato dai social, emerge con forza e si collude con il ‘narcisismo’. Non il narcisismo perverso e patologico come disturbo di personalità, ma il narcisismo ‘sano’ che nasconde una debole natura dell’individuo di presentarsi per quello che non è, a mo’ di maschera. Come non dare ragione a Pirandello il quale afferma in “Uno, nessuno e centomila’ “che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”. Finti volti e campioni dell’ ipocrisia che sotto mentite spoglie si presentano come individui virtuosi, affabili e portatori di ‘sani’ valori.
Oggi quasi nessuno riesce a fare a meno della propria maschera. Si ha talmente timore di mettersi a nudo e in discussione, mostrarsi nella propria naturalezza e farsi capire per quello che realmente si sente e si prova. Insomma per tutto quello che si è. Tutto nasce da questo complesso di ansie e timori e siamo soltanto maschere. Non ci interessa l’essenza delle cose, ma il loro apparire. Viviamo in un contesto storico e culturale di disillusioni collettive nel quale preferiamo amarci male anziché mostrare la vera natura dei nostri sentimenti. Sui luoghi di lavoro, come nelle relazioni sociali, è più funzionale indossare un’esistenza che non sia la nostra. Esibire la propria con i suoi difetti e le sue fragilità è a dir poco sconveniente. Siamo maschere che mentono, fedeli imitatori camaleontici dell’apparenza e delle convenzioni stereotipate. Abbiamo paura di conoscere noi stessi e di entrare in contatto con le nostre fragilità soprattutto se riteniamo pericoloso che gli altri possano conoscerci per quello che in realtà siamo. Indossando, o meglio esibendo la maschera siamo gli artefici del grande inganno cosmico del niente che mistifica tutto. La finzione sopprime noi stessi, ma preferiamo non abbassare la guardia, non mostrare quello che siamo capaci di fare con il nostro cuore discinto. Gli altri non devono sapere come siamo fatti davvero, pena l’essere additati come deboli. Dobbiamo mentire per guadagnarci un posto al sole nella società che giudica dalle apparenze e defrauda il proprio “io” con un ‘falso sé’ che sfocia a volte nella psicopatologia mediale.
Dalla maschera alla rete come specchio narcisistico: il culto dell’immagine è tutto ciò che conta. In rete e con la diffusione dei social, il fenomeno è dilagante e il concetto di ‘maschera’ è ben spiegato. Basta volgere lo sguardo su Facebook, Twitter e dintorni, per scovare personaggi che mostrano una facciata che poco si rispecchia con il loro vissuto quotidiano. Uomini e donne a caccia di like, poeti de noartri che usano il copia e incolla, con tanto di frasario aulico e ridondante, come specchietto d’allodole per reclutare adepti e fan che li possano seguire. È il caso della politica, Trump e Salvini per esempio, e delle celebrità. Amore per la natura, per la famiglia, per i valori e affini vengono fatti risaltare in maniera iperbolica e che in sostanza risultano bizzarri e forzati.
Lasch e la ‘cultura del narcisismo’. Un concetto quello dell’apparire e dell’ostentare che si lega all’autostima e alla soddisfazione del proprio ego. Non ci sono ancora selfies e social media quando Christopher Lasch scrive questa postfazione al suo libro del 1979 La cultura del narcisismo. Il suo sguardo anticipatore spiega che “il nuovo narcisista è ossessionato non dal senso di colpa, ma dall’ansia. Non infligge agli altri le proprie certezze, ma cerca un significato nella vita. Liberato dalle superstizioni del passato, dubita perfino della realtà della propria esistenza (…). I suoi atteggiamenti sessuali sono permissivi anziché puritani, ma la sua emancipazione da antichi tabù non gli offre pace sessuale. Ferocemente competitivo nella sua ricerca di approvazione e consenso, diffida della concorrenza (…). Elogia cooperazione e lavoro di squadra quando ha impulsi profondamente antisociali. Afferma il rispetto delle regole nella segreta convinzione che non si applichino a se stesso. È acquisitivo, nel senso che le sue voglie non hanno limiti (…), ma esige soddisfazione immediata e vive in uno stato di desiderio inquieto e perennemente insoddisfatto”. Insoddisfazione, quella evidenziata dallo storico e sociologo statunitense, che si lega all’approvazione e al consenso. Quindi, lungi dai benpensanti che si celano nei mille volti e nelle maschere bisogna ricordare una massima di Pavese in cui “conta ciò che si fa e non quello che si dice”. Difficile da applicare nei rapporti di circostanza coltivati nel digitale in cui tutto rimane in superficie come una bolla di sapone…