Che cosa ci sia dietro ai social è ormai noto a chiunque lo voglia sapere. [1] Mi permetto di fare una breve sintesi di letture e visioni in una prospettiva personale legata ad altre riflessioni recentemente sviluppate sul capitalismo crepuscolare.
1) Costruire la “scatola”
I proprietari di Facebook, Twitter e compagnia cantante sono degli scienziati sociali. Non è una mia nomina ad honorem, lo sono veramente, in particolare sono esperti di psicologia sociale e “comportamentismo”. La nuova alleanza che hanno instaurato è con web designers ed esperti di calcolo, progettisti questi ultimi dei fantomatici algoritmi. Vediamo come funziona questa triplice alleanza.
1.1) Lo scienziato sociale
I comportamentisti mettono sul tavolo la loro psicologia sociale, ovvero lo studio del comportamento umano spontaneo, automatico, precosciente. Forti di evidenze sia teoriche sia sperimentali sulle modalità di reazione a stimoli di diverso tipo, individuano reazioni standard, soprattutto quelle legate alle pulsioni più profonde e condizionanti dell’animale uomo (piacere, dolore, paura, rabbia, autoconservazione, socialità, appartenenza ecc.). Studiano come innescare delle reazioni automatiche, utilizzando scientemente stimoli che attivino queste pulsioni profonde. In particolare sono interessati a produrre comportamenti in tutto e per tutto identici a quelle che chiamiamo “abitudini”, ovvero che si ripetono senza il ripetersi di uno stimolo esterno, ma che vengono compiuti “spontaneamente” da chi agisce: lo stimolo viene in sostanza introiettato.
Il prodotto che loro forniscono – senza che questo raggiunga il livello cosciente – funziona assecondando questa stimolazione profonda da loro stessi prima innescata. Il modo in cui esso opera serve a mantenere fedele l’utilizzatore in base a un meccanismo detto di “ricompensa variabile” che trasforma lo stimolo da esterno a interno (il cosiddetto “condizionamento operante”): esso muove da un bisogno cui il prodotto da loro fornito dà risposta in maniera da stabilire un impulso a ripetere spontaneamente e regolarmente quell’operazione (“scrollare” o “aggiornare” per esempio). Sono meccanismi ben conosciuti, consolidati in pratiche sociali di massa, già utilizzati in contesti politici, commerciali.
Il grande teorico del comportamentismo che ha sviluppato questo approccio è B.F. Skinner. Celebri i suoi studi con la famosa Skinner’s box: dei ratti messi dentro una scatola venivano sottoposti a vari tipi di stimolazione per indurli a maturare comportamenti “spontanei” senza stimolazione successiva. Usando questi sistemi di condizionamento sono riusciti a insegnare a dei piccioni a giocare a una sorta di ping pong. È la base del sistema utilizzato per addestrare cani, elefanti e animali in genere. Ora forse anche esseri umani. [2]
1.2) Il designer
Qui entra in campo il secondo professionista, il designer, che non fa vestiti e modelli come ingenuamente pensavo io; crea invece delle pagine web, della app e quant’altro in modo tale da fornire un oggetto che inneschi tutti i meccanismi di cui sopra. “Captology” l’hanno chiamata: utilizzare i vari devices per “persuadere” l’utilizzatore non solo a fare determinate cose, ma a adottare permanentemente determinati comportamenti, ovvero trasformare azioni in abitudini consolidate.
Uno dei più importanti centri di ricerca e di diffusione di questo approccio è la Stanford University in California e in particolare il gruppo cresciuto intorno a B.J. Fogg. La maggior parte delle idee e dei processi implementati oggi sugli smartphone sono tutti presenti in potenza nel suo libro Persuasive Technology, dal significativo sottotitolo Using Computers to Change What We Think and Do (San Francisco, 2003). Il tema centrale è quello della “persuasione” e “captology” sarebbe un acronimo basato sulla frase “computers as persuasive technologies”. Tuttavia, è troppo intelligente il nostro autore per celare la vera intenzione di fondo espressa dalla parola nella sua radice latina: la forma intensiva del verbo “capio”, “preso con accortezza”; quindi si tratta in realtà della “scienza del catturare”, volendo “dell’imprigionare”. In testi come questo non si fa mistero di quali siano le intenzioni, per quanto ci si nasconda dietro una foglia di fico: si dice che comunque un condizionamento ci sarebbe, quindi tanto vale studiarne scientificamente le modalità piuttosto che essere vittime degli effetti collaterali...
Il modo in cui questi oggetti e i loro software sono fatti ci sollecitano per far partire il meccanismo (“trigger”), lo implementano fin quando non diventa abitudine e poi lo mantengono stabile. Il designer è colui che trasforma l’oggetto (il device) nello strumento di attuazione, di pratica effettiva, del piano dello scienziato sociale. Il modo in cui Facebook, Twitter e altri sono disegnati è appositamente ideato per farci cadere in questo meccanismo che ha l’obiettivo dichiarato di cambiare stabilmente il nostro comportamento senza che noi ce ne accorgiamo.
1.3) L’ingegnere informatico
La terza figura necessaria al funzionamento della scatola è l’ingegnere incaricato di progettare il famoso algoritmo. Che cos’è un algoritmo? È una successione di istruzioni e passi da eseguire su dei dati per ottenere dei risultati. Questi passi devono essere elementari (non ulteriormente semplificabili), interpretabili in modo diretto ed univoco dall’esecutore, l’algoritmo deve essere finito (un numero limitato di passi relativamente a un numero limitato di dati), l’esecuzione deve avvenire in un tempo finito e deve portare a un unico risultato. Questo schema base viene poi implementato in un’infinità di modi sempre più complessi. I più sofisticati imparano da soli a mano a mano che operano a fornire risultati sempre più precisi a partire da una mole di dati impressionante. Qual è la sintesi dell’azione dei tre colleghi?
Perché le teorie del primo, rese operative dal secondo, possano funzionare, è necessario raccogliere ed elaborare una quantità gigantesca di dati sull’utente. Chi raccoglie i dati? Il nostro inseparabile amico smartphone (e tutti i device che ormai popolano il nostro mondo sempre più capillarmente). Che cosa ha di diverso lo smartphone dai vecchi device? La straordinaria capacità di essere sempre con noi, di sollecitarci continuamente e quindi di fornire in tempo reale una mole impressionante di feedback: qualunque cosa facciamo è raccolta dalla smartphone, che abbiamo sempre in tasca in qualunque luogo o situazione ci troviamo, che ne manda traccia all’elaboratore. Lì, l’algoritmo fornito dall’ingegnere, dopo averci lui stesso stimolato, inizia a “calcolare” le nostre risposte e ci profila. Piano piano, continua a raccogliere dati e ci sollecita in maniera sempre più personalizzata e precisa, proprio come si farebbe mandando degli impulsi elettrici al sistema nervoso di un ragno per vedere quale zampetta alza… insomma, per chi non lo avesse ancora intuito, è una nuova sofisticata Skinner’s box! Così facendo, crea un avatar di noi stessi che sa prevedere che cosa desideriamo e quali saranno le nostre scelte future: ci fa la sedia della forma del sedere e ce la propone al momento giusto (qui fanno addirittura i colti e parlano di Καιρός! [3]); vale a dire: ci conosce meglio di noi stessi e ci propone quello che più vorremmo nel momento in cui lo desideriamo. [4] Ci coccola come una tenera mamma… ma chi è che ci coccola? E perché lo fa?
2) Il modello imprenditoriale
Il perché è semplice: tenerci attaccati allo schermo il più a lungo possibile (e le statistiche dicono che, grazie alle procedure descritte, ci riescono molto bene). A che fine? Per rispondere a questa seconda domanda dobbiamo porci la prima di cui sopra: chi è che lo fa? La risposta è semplice: un imprenditore, un capitalista, che ha come obiettivo quello di valorizzare il suo capitale. Come lo valorizza? Vendendo pubblicità. Il meccanismo suddetto garantisce agli inserzionisti un pubblico ben disciplinato, del quale si sa tutto, il quale non ha consapevolezza del meccanismo in cui è inserito e al quale è dunque più semplice vendere quello che l’inserzionista vuole vendere. Far incontrare produttore e consumatore. Il cerchio è chiuso. La prosaica fine è che quello che alcuni definiscono un gigantesco meccanismo di manipolazione di massa ha lo scopo di vendere pubblicità…
A quale prezzo tutto ciò? Regalare ai social le nostre identità affinché esse vengano rigirate come un calzino, indagate nei loro meandri più intimi e profondi; queste informazioni vengono utilizzate per una profilazione commerciale e persino per cambiarci (!) subliminalmente, addirittura condizionando in base a stimolazioni subconscie il nostro comportamento, le nostre abitudini. Non è un film di fantascienza, è quanto già succede quotidianamente a miliardi di persone. In cambio di tutto ciò ci viene fornito – in modo programmato, lo ricordo ancora una volta – l’equivalente di una coperta di Linus, un ciuccio, una pasticca per dare una risposta alle nostre ansie per avere delle piccole gioie momentanee. Il meccanismo funziona molto bene: è l’utente che lo vuole! Questa volontà però è stata prodotta a sua insaputa attraverso una intenzionale applicazione di tecniche e procedure comportamentali studiate a tavolino con quell’esplicito obiettivo.
3) Domande
Le domande ovviamente sono molteplici. La prima è se tutto ciò si possa considerare legale. L’inventore della “captology” non chiama questa procedura manipolazione, ma persuasione, perché le persone sono convinte a fare certe cose, le fanno volontariamente. È un argomento molto debole, perché nell’idea di volontarietà è implicita la consapevolezza e la conoscenza di quello che si sta facendo, quando qui è evidente che i meccanismi messi in campo si basano scientemente su risposte precoscienti del nostro organismo e della nostra mente. Fogg evita di affrontare esplicitamente il tema del rapporto tra “persuasione” e “manipolazione”. Preferisce impostarlo in termini di persuasione e “coercizione”, la quale sarebbe evitata proprio per la volontarietà dell’atto (p. 15). La questione è tuttavia la stessa, perché senza consapevolezza non si capisce bene che cosa significhi volontario.
In vari libri in cui si teorizza, esplicita, addirittura manualizza questo approccio, c’è sempre un capitoletto sulla “questione etica”. Dato che alla fine non si può negare che si tratti di manipolazione, si imposta la discussione parlando di una manipolazione a fin di bene e una a fin di male, come se questo fosse un punto di partenza negoziabile (!). A questo punto si introduce il tema della responsabilità nell’utilizzo commerciale, dando qui per scontato che sia lecito utilizzare un sistema esplicitamente manipolatorio a fini commerciali (!!). Concesso anche questo, inizierebbe la vera discussione, ovvero si dovrebbero implementare queste procedure solo se a fin di bene; il criterio fondamentale per stabilire la nobile finalità è capire se il prodotto lo utilizzeremmo noi stessi. La decisione su come operare è comunque delegata alla buona coscienza dell’imprenditore (!!!).
Al di là di questa pseudodiscussione, la vera domanda è: è lecito che sistemi dichiaratamente manipolativi siano implementati a livello di massa? Sistemi il cui controllo è nelle mani di imprenditori privati, che per giunta sono fuori dalla giurisdizione nazionale?
La seconda domanda è medica: gli effetti anche fisici dell’abuso di device sono già clinicamente evidenti e statisticamente rilevati; dal 2007, anno di introduzione degli smartphone, ansia, crollo delle capacità di concentrazione, compulsività, depressione, modificazioni della postura e molti altri, sono “patologie” conclamate e collegate all’uso di smartphone e in costante diffusione. Dipendenza fisica e psicologica.
La terza domanda è “ideologica”: questi servizi non filtrano, sono pseudo-“neutrali”. Essi fanno associazioni e ci propongono qualsiasi cose sulla base della nostra profilazione. Il sistema non sta a “sindacare” se a me interessi il calcio, a Tizio squartare gli animali e a Caio la violenza sui bambini, ci dà ciò che ha capito catturare la nostra attenzione, qualunque cosa sia, legale o illegale, vera o falsa, piacevole o perversa, perché vuole semplicemente che restiamo attaccati al device il più a lungo possibile. Si crea allora una bolla di alienazione in cui la realtà non è solo filtrata dalla macchina (perché queste sono tutte procedure automatiche realizzate in base ai calcoli dell’algoritmo), ma è ridisegnata in modo tale da corrispondere a ciò che desideriamo, qualunque cosa essa sia. Perdita della percezione della realtà.
Quarto: questo meccanismo potrebbe essere intenzionalmente utilizzato non solo a fini commerciali, ma per spingere persone a determinati comportamenti politici; non solo a votare per Tizio o Caio, ma ad agire abitudinariamente in una determinata maniera, a cambiare umore (cosa già verificata efficacemente da “esperimenti” realizzati da alcuni social). I rischi potenziali sono chiaramente di grande impatto. Chi ha cercato di condizionare il voto per la Brexit o le elezioni non ha hackerato il sistema, ma ha semplicemente utilizzato le possibilità offerte dai social per targettizzare la propaganda politica.
Inutile negare che tutti abbiamo abboccato, siamo stati presi all’amo (“hooked” dicono in gergo); [5] non solo lo sprovveduto analfabeta, ma anche il sofisticato professore universitario (i progettisti se ne vantano), ma addirittura le stesse persone che hanno progettato il sistema, perché non solo il meccanismo è subliminale, ma agisce sulle pulsioni più profonde del nostro comportamento. Certo, non tutti sviluppano una vera e propria dipendenza, ma non ci si deve scordare che il meccanismo nasce con quell’obiettivo e che dall’altra parte dello schermo ci sono mille computer, sofisicati algoritmi progettati dalle menti più brillanti al mondo che sono lì ad attendere proprio noi, presi uno a uno col nostro telefonino in mano per fare quanto sopra descritto. Chi vincerà?
Ovviamente sull’altro piatto della bilancia ci sono gli incredibili servizi che i device offrono: come ci rendono più semplice la vita, quanto ci facilitano il lavoro e il piacere che ci danno anche grazie ai social. Anche la profilazione ha i suoi aspetti positivi perché è molto difficile trovare tra i milioni di prodotti quelli che ci interessano veramente; i suggerimenti di Netflix per esempio mi fanno risparmiare molto tempo evitandomi di visionare una parte dell’offerta che effettivamente non mi interessa affatto. Sugli aspetti positivi si potrebbero scrivere pagine e pagine, ne siamo tutti consapevoli. Quindi, che fare?
4) Un passo in più
Il primo passo è fare quanto meno i borghesi progressisti, quindi richiedere che si regolamenti, si pongano dei limiti fiscali, di diritto d’autore, di responsabilità giuridica, di raccolta dati a questi organismi; ancorarli territorialmente in modo che debbano pagare tasse, rispondere a normative scelte e votate dai cittadini dai quali traggono i loro esorbitanti profitti. Quindi porre la domanda di fondo di cui sopra: si può accettare che un sistema intenzionalmente manipolativo e così capillarmente efficace sia implementato non solo a fini commerciali, ma a qualunque fine? Ne va credo proprio del concetto di democrazia, anche nel mero senso formale liberale (libertà, uguaglianza, che cosa significherebbero?). Anche perché i nostri amici, creando un sistema che dà dipendenza (il cellulare è stato definito la nuova sigaretta, se non peggio; il piacere dato dal suo utilizzo attiva le stesse zone del cervello attivate dagli stupefacenti e la sua assenza causa “astinenze” del tutto analoghe), avrebbero sicuramente la maggior parte degli utenti dalla loro parte in caso di decisioni drastiche.
Se una regolamentazione è auspicabile, si tratta però di fare un passo in più e comprendere come ciò si colleghi alle dinamiche di quello che chiamo capitalismo crepuscolare. In primo luogo vale la pena far notare che mettere insieme i tre signori di cui si parlava nel primo paragrafo e dar vita a questo meccanismo è stato possibile, come nel caso di altre innovazioni tecnologiche fondamentali, per dare risposta alle esigenze della riproduzione sociale in forma capitalistica, in particolare far migliorare il meccanismo per cui domanda e offerta si incontrano. Insomma, valorizzare il capitale.
Ciò detto, si può ricordare che una delle caratteristiche salienti del modo di produzione capitalistico è sicuramente la creazione ideologica dell’atomo individuale, scollegato da un contesto lavorativo, da legami sociali, da realtà collettive. Se, però, da un lato il modo di produzione capitalistico in auge creava questa ideologia, dall’altro, costituiva nel processo produttivo dei legami pratici di unità e solidarietà. La fase crepuscolare, attraverso l’automazione, la subordinazione delocalizzata, le nuove tecnologie che individualizzano sempre più anche tipologie di lavoro di fatto cooperative, spezza questi legami e produce l’apparenza dell’individualità anche nello stesso processo produttivo. Inoltre, generando una disoccupazione di massa e una pletora di individui costretti a vivere di espedienti come singoli, si determina una condizione per cui essi si trovano pure esclusi e senza prospettiva; il loro motto è mors tua vita mea. Infine, il tempo libero che la produttività crea per molti ha bisogno di essere riempito; l’incapacità sempre più diffusa di farlo costruttivamente è sia il segno del fallimento culturale del capitalismo, sia la causa prima del bisogno del cosiddetto “intrattenimento” al quale i social e internet danno una risposta anche di altà qualità, costante e infinita.
Nel capitalismo crepuscolare, inteso come quel contesto sociale in cui l’individualismo atomizzato diventa la forma principale di soggettività, non sorprende che si radicalizzi un profondo bisogno di socialità. Qui ovviamente la connettività di internet e i device che la consentono sono la risposta più semplice, efficace e intrigante. Che i legami instaurati siano solidi e di lunga durata è probabilmente più dubbio, almeno nei grandi numeri. La risposta alla socialità effimera dei social (nel senso che gli individui creano legami così superficiali da essere individualmente reversibili in qualunque momento senza che ne vada della loro identità personale, restano quindi sostanzialmente sempre dei singoli che si relazionano con una massa anonima) può solo nascere da contesti pratici di vita, di azione, di produzione che diano un contenuto concreto alla parola “sociale”. Non bisogna dunque credere, a mio avviso, che i social inventino i problemi cui danno risposta (bisogno disperato di socialità). Non inventano neppure il conflitto sociale (che sarebbe dovuto a qualche malintenzionato che li userebbe per manipolare e polarizzare le masse). [6] La crisi di socialità, il conflitto sono nella dinamica sociale e i social ne sono ribalta e detonatore. Sono strumenti potentissimi, potenzialmente pericolosissimi nel senso suddetto, ma sono momenti di un processo storico sociale che non si riduce a loro. Anzi, semmai tendono a disinnescare soprattutto il conflitto sia mandando in pappa il cervello degli utenti, sia canalizzando le pulsioni più violente di rivolta verso gli obiettivi più fantasiosi e improbabili, assolutamente innocui per chi vuole evitare cambiamenti sociali sostanziali e progressisti. Insomma, si tratta di un potente strumento che può sfuggire di mano, ma che non crea i contenuti che veicola. Credere dunque che regolando i social la conflittualità cesserebbe perché riusciremmo a parlarci non accecati dalla fake news è, questo sì, veramente ideologico. Il conflitto sociale, i processi alienanti dell’atomizzazione (e quindi un uso perverso dei social) si superano solo superando le dinamiche strutturali/sovrastrutturali storicamente determinate che li producono.
Note:
[1] Sul tema è recentemente uscito un interessante documentario su Netflix dal titolo The Social Dilemma. Estremamente istruttiva anche una puntata di Presadiretta disponibile su Raiplay. Il problema si sta ponendo anche in termini di tenuta del sistema anche da un punto di vista prettamente “borghese”. Si veda S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Roma, 2019.
[2] Skinner espose la sua “utopica” società umana “ideale”, addestrata in base ai principi del comportamentismo, in un celebre e controverso romanzo dal titolo Walden Two (1948). Essa si autoregolava in base al “condizionamento ambientale” di contro all’inesistente “libero arbitrio”.
[3] Kairos, la divinità greca del “momento opportuno”. Questo il desideratum di Fogg nel libro sopra citato (p. 41); quel sogno è oggi realtà.
[4] Molto informativa la puntata di Presadiretta dal titolo “Tutti spiati”.
[5] Esistono manuali per creare un business capace di “prendere all’amo” il cliente: Nir Eyal (with R. Hoover), Hooked: How to Build Habit-Forming Products, 2014.
[6] Queste un po’ le ingenue conclusioni di The Social Dilemma.