A chi, alla luce del suo apparente fallimento, considera la Rivoluzione d’ottobre un inutile spargimento di sangue bisognerebbe ricordare che essa:
- ha consentito per la prima volta nella storia mondiale di “abbattere, in un angolo del globo terrestre, quella belva feroce, il capitalismo, che ha inondato la terra di sangue e ha portato l’umanità alla fame e all’abbrutimento”[1]. Possiamo, dunque, concludere a questo proposito con Lenin che “una rivoluzione vince se porta avanti la classe d’avanguardia che assesta gravi colpi allo sfruttamento. In questo caso le rivoluzioni vincono anche se subiscono una sconfitta. (…) Prendente la grande Rivoluzione francese. Non per nulla si chiama grande. Essa ha fatto tanto per la classe a vantaggio della quale operava, la borghesia, che tutto il secolo XIX, il secolo che ha dato la civiltà e la cultura a tutta l’umanità, è trascorso sotto il segno della Rivoluzione francese. In ogni parte del mondo questo secolo non ha fatto altro che attuare, realizzare una parte dopo l’altra e portare a compimento ciò che avevano creato i grandi rivoluzionari francesi della borghesia, della quale essi servivano gli interessi, benché non ne avessero coscienza, coprendosi con parole come libertà, eguaglianza e fratellanza” [2].
- ha realizzato per la prima volta nella storia “la promessa di ‘rispondere’ alla guerra tra gli schiavisti con la rivoluzione degli schiavi contro tutti gli schiavisti”[3], mantenendo sino in fondo tale impegno nonostante tutte le enormi e imprevedibili avversità che ha dovuto affrontare;
- ha dato un contributo determinante, dal punto di vista pratico e teorico, alla sconfitta su scala internazionale del colonialismo;
- non solo ha posto direttamente fine all’orribile macello della Prima guerra mondiale imperialistica, ma ha dato vita a uno Stato che ha posto termine alla Seconda guerra mondiale, sconfiggendo il nefasto progetto nazi-fascista di rilanciare su scala internazionale una società schiavista, e ha infine impedito lo scoppio di una terza guerra mondiale più volte minacciata dalle potenze imperialiste e, in primo luogo, dagli Stati uniti;
- ha contribuito in modo decisivo alla diffusione dei diritti democratici e, soprattutto, economico e sociali presenti nella propria costituzione, alla quale i paesi a capitalismo avanzato si sono dovuti in qualche modo adeguare per poter mantenere l’egemonia necessaria al loro dominio sulle masse popolari;
- ha offerto una miniera di materiali per sviluppare la teoria della Rivoluzione e le problematiche della transizione al socialismo, incomparabilmente più ricca di quella fornita dalla Comune di Parigi su cui si fondavano le precedenti concezioni. Come ha osservato a questo proposito Lenin: “nei primi mesi dopo che il proletariato aveva conquistato il potere politico in Russia (…) poteva sembrare che le immani differenze esistenti tra la Russia arretrata e i paesi progrediti dell’Europa occidentale avrebbero reso la rivoluzione del proletariato in questi paesi assai poco simile alla nostra. Attualmente abbiamo già alle nostre spalle un’esperienza internazionale imponente, la quale attesta nel modo più preciso che alcune caratteristiche fondamentali della nostra rivoluzione non hanno un significato locale, specificamente nazionale, esclusivamente russo, ma un significato internazionale” [4].
Di contro a tutto ciò, il fuoco di sbarramento dell’opportunismo transnazionale contro la Rivoluzione d’ottobre si è concentrato sulla critica alla dittatura del proletariato, per la paura “di riconoscere che la dittatura del proletariato è anch’essa una fase della lotta di classe, la quale rimane inevitabile finché le classi non sono state abolite, e cambia di forma diventando, nei primi tempi dopo l’abbattimento del dominio del capitale, particolarmente accanita e particolarmente specifica”. I reali responsabili di tale dittatura sono proprio coloro che vogliono mantenere la divisione in classi della società e non certo chi si batte per un suo definitivo superamento. Perciò, “dopo aver conquistato il potere politico, il proletariato” non può certo cessare “la lotta di classe”, a meno di non voler restaurare il dominio borghese, però, naturalmente, tale lotta si svilupperà “in un altro ambiente, sotto altre forme, con altri mezzi” [5].
Dunque, in tale peculiare fase della lotta di classe gli apparati repressivi dello Stato non saranno più controllati dagli sfruttatori, ma degli sfruttati, ma non per questo il conflitto sociale verrà condotto da entrambe le parti in modo meno accanito. Anzi, la fase di transizione al socialismo è considerata da Lenin necessariamente “un periodo di lotta di classe di un’asprezza inaudita, un periodo in cui le forme di questa lotta diventano quanto mai acute, e quindi anche lo Stato di questo periodo deve essere uno Stato democratico in modo nuovo (per i proletari e i non abbienti in generale), e dittatoriale in modo nuovo (contro la borghesia)” [6].
Del resto i “centristi” come Kautsky, nel dover dare una definizione alla concezione marxiana della dittatura del proletariato, cercano “con tutte le sue forze di nascondere il tratto essenziale di questo concetto, cioè la violenza rivoluzionaria” [7]. Dietro tale ritrosia si cela il tentativo dei centristi kautskiani di contrapporre il rivolgimento pacifico da loro promosso di contro al rivolgimento violento operato dai bolscevichi. Allo stesso modo i centristi kautskiani cercano di ridurre il marxismo alla lotta di classe glissando sulla dittatura del proletariato. In tal modo, pur proclamandosi marxisti, lo mutilano, lo deformano, per poterlo ridurre “a ciò che la borghesia può accettare”. Perciò può definirsi a pieno titolo marxista, soltanto chi non ha paura di estendere “il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato. In questo consiste la differenza più profonda tra il marxista e il banale piccolo borghese (e anche il grande). È questo il punto attorno al quale bisogna mettere alla prova la comprensione e il riconoscimento effettivi del marxismo” [8]. Tanto più che, come abbiamo visto, Lenin è del tutto consapevole, anche per l’esperienza diretta che ne dovrà fare, cha la lotta di classe non può che inasprirsi, in particolare, nella prima fase di transizione al socialismo. Perciò, come non si stanca di sottolineare che “anche dal punto di vista scientifico sarebbe assolutamente sbagliato e non rivoluzionario eludere o attenuare la cosa più importante: la repressione della resistenza della borghesia, che è la cosa più difficile e che richiede la lotta più intensa durante il passaggio al socialismo” [9].
Tanto più che non si può mai obliare o cercare di eludere la questione che il processo di transizione, come ricorda Lenin, necessariamente “abbraccia un’intera epoca storica” e sino alla sua conclusione permarrà inevitabilmente ben viva negli sfruttatori quantomeno “la speranza di una restaurazione, e questa speranza si traduce – inevitabilmente – in tentativi di restaurazione” [10], di fronte ai quali lo Stato proletario non potrà che rispondere, se non vuole arrendersi alla controrivoluzione, con tutti i mezzi necessari. Per tale motivo durante questa epoca storica lo Stato si configurerà necessariamente, non manca di sottolineare Lenin, quale “dittatura rivoluzionaria del proletariato” [11].
Così Lenin, ancora in polemica con Kautsky e i centristi amava ricordare le parole con cui Engels irrideva i socialdemocratici tedeschi che avevano inserito nel loro programma la rivendicazione di uno “Stato popolare libero”: “non essendo lo Stato altro che un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tenere soggiogati con la forza i propri nemici, parlare di uno ‘Stato popolare libero’ è pura assurdità: finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dell’assoggettamento dei suoi avversari, e, quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere” [lettera di Engels a Bebel del 28 marzo 1875) [12]. Allo stesso proposito Lenin ricorda le parole con cui ancora Engels si faceva beffe dei pacifisti del suo tempo, gli antiautoritari che avevano criticato i metodi violenti utilizzati dalla Comune di Parigi: “il partito vittorioso, se non vuole aver combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi ispirano ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno, se non si fosse servita di questa autorità di popolo armato, in faccia alla borghesia? Non si può al contrario rimproverarle di non essersene servita abbastanza largamente?’” [13].
Non può, dunque, che smascherarsi come auto-contraddittorio il dichiararsi favorevoli alla lotta di classe sino a che il potere è nelle mani degli sfruttatori e criticarla nel momento in cui il monopolio della violenza è posto sotto il controllo degli sfruttati. Del resto l’utilizzo del terrore è piuttosto la regola che non l’eccezione, una tragica necessità come dimostrano le principali rivoluzioni borghesi; è dunque particolarmente imbarazzante per un progressista giudicare legittimo il terrore di una classe minoritaria di sfruttatori che intende consolidare il proprio potere e non quello della grande maggioranza degli sfruttati. Tanto più che, pur dovendo rinunziare, come altri governi rivoluzionari, all’eguaglianza giuridica, ciò fu fatto dai bolscevichi in favore dello sviluppo dell’eguaglianza reale non di una minoranza, come nelle precedenti rivoluzioni borghesi, ma della stragrande maggioranza.
Note