L’attuale processo di de-emancipazione rischia di ridurre il pensiero critico a strumento delle classi dominanti. Anche la filosofia corre il rischio di esser ridotta a sofistica, per essere inglobata nel pensiero unico. In tal modo da strumento di emancipazione sociale, la formazione filosofica rischia di divenire mero mezzo di perpetuazione della classe dominante, cooptando le poche teste pensanti delle classi subalterne.
di Renato Caputo
La filosofia, favorendo lo sviluppo di un sapere critico e di una visione del mondo scientifica, è stata sempre considerata con sospetto dai ceti sociali dominanti. Inoltre, ponendo la questione della verità come un compito collettivo, da realizzare attraverso un costante dialogo fra diversi, essa non può che essere avversata da chi auspica soluzioni autoritarie fondate sul diritto del più forte, la legge di natura quale legge della giungla. Un modo di pensare che parte dal sapere di non sapere non può che essere combattuto da ogni forma di fondamentalismo, di totalitarismo, di fanatismo.
D’altra parte, essendo fondata sull’amore per la verità, la filosofia non può che, ancora, essere avversata da chi, per mantenere i propri privilegi, deve mantenerla celata, dal momento che la verità è rivoluzionaria. Il pensiero filosofico, come riconosceva lo stesso Benedetto Croce, è un sapere in sé e per sé democratico, in quanto si fonda sulla ragione quale caratteristica peculiare del genere umano, di cui ogni uomo è almeno potenzialmente portatore. Quindi non solo essa offre a ognuno la possibilità di uscire dallo stato di minorità, quale “incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”, per dirla con Kant, ma è presente in sé in ogni uomo, in quanto tale potenzialmente filosofo. In tal modo essa è animata da uno spirito radicalmente egualitario, tanto che i suoi più acerrimi nemici - quali Nietzsche - imputano al suo fondatore, Socrate, di essere il primo responsabile della rivolta degli schiavi e accusano il fondatore della filosofia moderna, Cartesio, di essere il nonno della rivoluzione.
La filosofia moderna ha infatti portato ogni presunta verità fondata sull’autorità e la tradizione davanti al tribunale della ragione, conquistandosi così l’odio implacabile di ogni reazionario e conservatore. La visione immanentista, alla base della rivoluzione scientifica e filosofica moderna, non solo mette in questione la sacralizzazione del privilegio e del potere costituito ma porta la filosofia a incontrarsi con la storia. Tale incontro genera una miscela esplosiva in quanto ponendo la verità come un prodotto storico, mette in quanto tale in questione ogni rendita di posizione e, di conseguenza, rende instabile ogni forma di privilegio.
Ponendo come compito storico comune la ricerca della verità, la filosofia costituisce il migliore antidoto all’egoismo individualista e mette in discussione ogni forma di legalitarismo. Anzi, il considerare la legge interiore, ossia la morale, e l’eticità superiori al diritto costituito, apre la strada all’utopia di una società civile in grado progressivamente di autogestirsi su basi puramente razionali, senza bisogno dell’apparato giuridico e repressivo dello Stato. D’altra parte l’intellettuale collettivo che tende a produrre, favorisce da sempre lo spirito egualitario e la sperimentazione di forme di comunismo, quantomeno all’interno della comunità filosofica.
Per tutti questi motivi la filosofia è oggi nel mirino del pensiero unico dominante che in quest’epoca di restaurazione liberista si pone in maniera sempre più aperta contro la filosofia e la storia. Al punto che, ormai, il senso comune, prodotto di tale pensiero unico, assume sempre più sfacciatamente la posizione della servetta Tracia che si faceva beffe del filosofo e scienziato Talete, che assorto nell’osservazione del cielo sarebbe caduto in una buca. Senza sapere che tale interesse per il movimento dei corpi celesti non solo è alla base dell’astronomia ma ha consentito anche la capacità scientifica di prevedere l’andamento del tempo e delle stagioni, consentendo così il notevole sviluppo di un sistema economico fondato sull’agricoltura. Tanto più che, come ricordava Aristotele, il filosofo-scienziato può certo cadere in un fosso ma è in grado di uscirne prontamente, mentre chi è servo del senso comune, ossia del pensiero unico dominante, chi per pigrizia e viltà non vuole uscire dallo “stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso”, non sa neppure di vivere in un fosso, quello della “tenebra dell’immediato”, per dirla con Ernst Bloch.
Considerati gli attuali rapporti di forza – in una situazione storica assimilabile a quell’epoca di decadenza dopo la sconfitta epocale della democrazia nella guerra del Peloponneso, in cui non a caso il più sapiente, Socrate, fu condannato a morte da una sedicente democrazia degenerata in populismo, per aver traviato i giovani portandoli a dubitare degli dèi e delle leggi costituite – ci si potrebbe domandare come mai la filosofia non è stata ancora bandita. In realtà la mancata soluzione in senso progressista della crisi sta condannando zone sempre più ampie del pianeta a precipitare nuovamente nella barbarie della teocrazia, del fanatismo religioso, della xenofobia e dello sciovinismo che hanno come prima vittima designata proprio la filosofia. In situazione meno compromesse, in cui non sono ancora del tutto schiacciate le forze di alternativa capaci di contrapporre alla crisi sistemica del modo di produzione capitalista la prospettiva del socialismo, il pensiero unico dominante cerca di sabotare dall’interno la ricerca filosofica portandola nel vicolo cieco della sofistica, per ridurla a retorica al servizio di chi può acquistarsela, quale giustificazione ideologica del proprio privilegio.
Ecco così come l’ideologia dominante, con la complicità degli intellettuali tradizionali della a-sinistra, hanno minato il fine ultimo della filosofia, quale amore per la verità, sostenendo la vecchia tesi sofistica che la verità non esiste, fondamento del mefistofelico disprezzo per la scienza. Ciò ha consentito a molti ex giovani, nel senso hegeliano di sedicenti rivoluzionari, di entrare a pieno titolo nella classe dirigente, abbandonando non solo l’esigenza di trasformare la realtà ma persino quella di comprenderla, dedicandosi a decostruire la verità. Ad aprire la strada alla sofistica post-strutturalista è stata la radicale negazione della storia portata avanti, proprio all’inizio dell’attuale epoca di restaurazione, dallo strutturalismo. Così la negazione stessa della ragione di essere del materialismo storico è stata propedeutica al radicale attacco alle conquiste progressive della modernità, pudicamente celate dalla foglia di fico del post-modernismo.
Del resto, come i pensatori progressisti sono in grado di anticipare idealmente le conquiste storiche di un’epoca rivoluzionaria, gli intellettuali reazionari hanno la capacità di anticipare le epoche di restaurazione e di de-emancipazione. Non a caso lo sdoganamento della destra reazionaria, fino a riproporla come classe dirigente del Paese – su un piano inclinato che non può che rifarci precipitare nella barbarie, nel frattempo rivalutata dal rovescismo storico – è stata anticipato a livello del pensiero dagli intellettuali tradizionali. Questi ultimi, fiutando il cambiamento del vento, ossia il passaggio in coincidenza della crisi da una fase storica di emancipazione a una di de-emancipazione, hanno prontamente abbandonato il materialismo storico e più radicalmente lo stesso razionalismo, per riabilitare i grandi esponenti del pensiero reazionario da Nietzsche a Heidegger e, persino, Carl Schmitt. Gli attuali “giovani” della a-sinistra, epigoni dei sedicenti rivoluzionari d’antan, confondendo l’essere radicali con il radicalizzare il pensiero unico dominante, hanno finto con l’occuparsi degli epigoni di Nietzsche e Heidegger, ossia prima Derida, Deleuze e ora Foucault.
In tal modo le stesse facoltà di filosofia tendono a divenire luoghi di formazione della futura classe dirigente, al servizio della classe dominante, o più modestamente dei suoi sofistici mandarini. Dall’insegnamento della filosofia come ricerca critica e collettiva della verità, in funzione della comprensione dell’attuale epoca storica propedeutica alla sua trasformazione radicale, si è passati all’elaborazione di ideologie sempre più irrazionali, in quanto votate a giustificare un modo di produzione sempre meno razionale.
Ciò è andato di pari passo con la progressiva negazione del diritto allo studio della filosofia per i figli delle classi subalterne, grazie alla progressiva privatizzazione e alla diminuzione del salario sociale. I pochi figli dei moderni umiliati e offesi superstiti che sono stati in grado di superare coraggiosamente le barriere economiche e ideologiche elevate per impedirgli l’accesso alla facoltà di filosofia, rischiano di trovarsi davanti un panorama sconfortante. Quest’ultimo è la negazione stessa della filosofia non solo come funzionale alla trasformazione della realtà, per consentire un’emancipazione dei subalterni, ma della sua stessa natura di amore per la verità.
Nei piani di studi sempre meno liberali, vi sono corsi esplicitamente volti a sviluppare l’attuale distruzione della ragione – fondamento dell’uguaglianza fra gli uomini – e altri volti a trasmutare i grandi classici del pensiero filosofico, in quanto tali progressisti e potenzialmente sovversivi, in morti e inerti classici o, addirittura, in ispiratori dell’attuale sofistica. Tale sistematica mistificazione del potenziale rivoluzionario del sapere filosofico è un aspetto sovrastrutturale del feticismo, della reificazione e dell’alienazione dominanti a livello della struttura socio-economica.
Infine la filosofia e la scienza debbono essere sempre più rese estranee al contesto storico, sociale e politico, devono essere anestetizzate per divenire docili strumenti manipolabili al servizio del privilegio e del potere costituito. Quel che si vuole perpetuare, in tal modo, è la netta separazione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, base della strutturazione della società in classi sociali in perenne lotta fra loro. Le sovrastrutture rese estranee alla struttura storica economica e sociale, divengono così mera ideologia, mera retorica, mera sofistica. In tal modo più che intellettuali organici si tendono a formare intellettuali tradizionali che, come sottolineava Gramsci – proprio per questo sempre più bandito nelle facoltà di filosofia –, esercitano la loro egemonia sulle classi subalterne, ridotte a mera forza lavoro manuale, grazie a una retorica altisonante, tanto complicata proprio perché in realtà priva di significato.
L’obiettivo che si intende così raggiungere è di far perdere l’entusiasmo per il sapere e la verità ai figli dei subalterni, per farli pentire della propria coraggiosa scelta controcorrente, a meno che non siano disponibili a essere cooptati fra i futuri mandarini e sofisti al servizio della classe dominante, come avveniva per i giovani seminaristi provenienti dalle classi popolari.
In tal modo i potenziali intellettuali organici alle classi subalterne sono integrati al servizio delle classi dominanti o rischiano di vedere frustrate le proprie ambizioni e il proprio interesse per l’acquisizione di un sapere critico e potenzialmente rivoluzionario. Così, non essendo in grado di produrre nel proprio seno intellettuali organici, capaci di sviluppare la coscienza di classe indispensabile all’emancipazione sociale, i subalterni sono costretti a continuare a ricorrere agli strutturalmente infidi intellettuali tradizionali.
A tali insidie che attendono gli intrepidi figli delle classi subordinate che accedono alle odierne facoltà di filosofia non possiamo che ricordare il monito di Gramsci: “Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”.