Karl Marx ha mostrato come sia stata la stessa conquista storica da parte delle masse popolari del suffragio universale – contrastata in ogni modo dai liberali e, perciò frutto di imponenti rivolgimenti sociali – che ne ha permesso di demistificare la sua illusoria idealizzazione da parte dei democratici [1]. Il potere nelle democrazie rappresentative borghesi è solo apparentemente un luogo vuoto occupabile a turno dai rappresentanti dei singoli cittadini, liberi da ogni vincolo sociale. Chiamato alle urne è sempre il cittadino ideale, che deve assolvere al suo compito astraendo dalla sua determinazione sociale, eleggendo dei rappresentanti che dovrebbero a loro volta prescindere dagli interessi particolari della classe di cui sono espressione, per poter realizzare gli interessi – non solo necessariamente differenti, ma opposti e contraddittori – dell’insieme sociale.
A tale astrazione idealistica liberaldemocratica, Marx contrappone la dura realtà per cui, a votare effettivamente, non è mai il cittadino ideale, ma l’homme della società civile, l’atomo individuale, ovvero – nella maggioranza dei casi – il proletariato che ha alienato nel capitale la sua essenza sociale e finisce il più delle volte per subire l’egemonia della borghesia. Le classi possidenti del resto, come abbiamo visto, tengono saldi nelle loro mani tutti i poteri per condizionare l’elettore proletario nelle sue “libere” scelte, dai mezzi d’informazione, alla chiesa, agli apparati dello Stato, agli strumenti finanziari, al controllo sull’educazione, la formazione delle classi dominate e la stessa magistratura.
D’altra parte secondo Marx i lavoratori si dovrebbero comunque servire del diritto di voto conquistato quale strumento per contrastare il dominio sociale borghese. A tale fine, si deve però, innanzitutto, demistificare la rappresentazione democratica che ne fa uno strumento neutrale per selezionare la direzione d’una struttura inter-individuale prestabilita. Non va, allo stesso tempo, sottovaluta la portata potenzialmente sovversiva del suffragio universale, nel momento in cui si è in grado di ricondurre la sua astratta politicità al suo fondamento sociale reale.
Da questo punto di vista Marx osserva: “dopo gli esperimenti che nel 1848 hanno minato il suffragio universale in Francia, gli abitanti del continente tendono facilmente a sottovalutare l’importanza e il significato della ‘Carta’ inglese. Essi dimenticano che la società francese è composta per 2/3 di contadini e per 1/3 abbondante di persone che vivono in città, mentre in Inghilterra più di 2/3 degli abitanti risiedono nelle città e meno di 1/3 in campagna. Perciò in Inghilterra i risultati del suffragio universale staranno in un rapporto inverso ai risultati francesi così come è inverso nei due paesi il rapporto fra città e campagna. Questo spiega il carattere diametralmente opposto che la rivendicazione del suffragio universale ha assunto in Francia e in Inghilterra. Lì era la rivendicazione degli ideologhi politici, a cui ogni ‘persona colta’ poteva più o meno aderire a seconda delle sue convinzioni. Qui costituisce la grossa linea di demarcazione fra l’aristocrazia e borghesia da un lato e le classi popolari dall’altro. Lì è una questione politica; qui, sociale” [2].
Al suffragio universale deve essere strappato, quindi, a parere di Marx: l’“indeterminato carattere idealistico che ne faceva il pio desiderio di tutti gli strati della popolazione che non appartenessero direttamente alle classi dominanti” per renderlo la “‘Carta’ delle classi popolari” funzionale all’appropriazione “del potere politico come mezzo per realizzare i loro bisogni sociali” [3]. Da “parola d’ordine della fratellanza universale”, come era ancora in Francia nel 1848, deve divenire “grido di guerra” [4] come sarà considerato in Inghilterra, in quanto esso non è il risultato della rivoluzione sociale, ma suo presupposto. In Francia “il significato più immediato della rivoluzione era il suffragio universale;” mentre in Inghilterra “il significato più immediato del suffragio universale è la rivoluzione” [5].
Al contrario la lotta per la difesa dei diritti umani e delle garanzie democratiche che i sinceri democratici portano avanti contro il sovversivismo delle classi possidenti finiscono con l’essere, a parere di Marx, funzionali all’illusione di un capitalismo dal volto umano, che sarebbe in grado di risolvere al proprio interno la contraddizione strutturale fra rapporti di produzione e forze produttive, nell’armonia interclassista di una società di piccoli produttori indipendenti. Perciò Marx si fa beffe di “quei sublimi che separano le moderne forme statali dalla società moderna e vaneggiano di autonomia locale unita alla concentrazione dei capitali, di unicità dell’individuo combinata con la divisione del lavoro che è contraria all’individualità” [6].
Tanto più che già dopo la Rivoluzione del 1848 l’accordo fra piccola borghesia e proletariato, in base alla quale la conquista della democrazia politica avrebbe aperto le porte alla realizzazione dell’emancipazione sociale, fu ben presto rinnegato dagli stessi democratici. Ci penserà poi la dura repressione in Francia dell’insurrezione operaia del Giugno 1848 a dimostrare che la realtà dei diritti dell’uomo, la differenza di classe, prevale necessariamente sull’idealizzata identità, sull’inerme morale dei diritti del cittadino. Del resto già la stessa rivoluzione del febbraio 1848, che aveva segnato il completamento del ciclo rivoluzionario della borghesia francese apertosi nel 1789, abbattendo la monarchia aveva squarciato anche il velo dell’ancien Régime dietro il quale si era nascosto il dominio del capitale sulla società civile e i principali ministeri – che avevano fino ad allora coperto i privilegi di classe che difendevano dietro nomi apparentemente disinteressati – divennero appannaggio di veri lupi di borsa.
La trasfigurazione degli interessi borghesi dietro le antiche casate nobiliari è stata così inserita nei faux frais della produzione. Il governo provvisorio sorto dalla rivoluzione di febbraio si premurò immediatamente di rassicurare le classi possidenti che i vecchi costumi rivoluzionari non sarebbero serviti ad altro che a fornire “un nuovo costume da ballo per la vecchia società borghese” [7]. Le misure d’eccezione che erano state prese durante la fase giacobina della prima rivoluzione francese furono prontamente rinnegate da coloro che presero il potere dopo la rivoluzione del 1848, nessun terrore mise in discussione le proprietà dei peggiori sciacalli che si erano cominciati ad arricchire sempre di più dopo il Termidoro e la Restaurazione. Accanto alle libertà formali borghesi che furono ripristinate, gli apparati decisivi dello stato, esercito, tribunali, amministrazione, rimasero nelle mani della vecchia burocrazia, posta a garanzia della continuità del dominio sociale dei proprietari. Il controllo diretto della borghesia sul potere politico si esprime ora nella forma parlamentare e nella aperta repressione operaia di giugno atta a garantire i settori più reazionari, monarchici, della borghesia e i proprietari fondiari, che la risorta repubblica avrebbe garantito nel modo migliore la sicurezza dei rapporti di proprietà divenuti dominanti almeno dalla rivoluzione del luglio 1830.
I democratici, che avevano la maggioranza e controllavano il governo dopo la rivoluzione del 1848 invece di esigere i crediti sociali contratti dalla stessa piccola borghesia che rappresentavano, nei confronti del dominio dell’alta borghesia sulla società civile, si posero al suo servizio quale debitore moroso riconoscendo il debito pubblico contratto dallo Stato precedente ed aggravato dal rivolgimento politico di febbraio. Marx fa di tutto per far tesaurizzare al proletariato il fallimento dei democratici che – giunti al governo con la rivoluzione del 1848, che aveva instaurato il suffragio universale – invece di sfruttare il potere politico per porre in discussione il dominio dei grandi proprietari sulla società civile lo avevano consolidato inchinandosi al meccanismo del debito che fonda il dominio di tali rapporti sociali economici sullo Stato politico.
Al di là delle illusioni dei democratici è un nuovo rivolgimento nella società civile, che vede l’affermarsi del capitale finanziario, a trovare sanzione politica mediante il progressivo indebitamento dello Stato. Il suo necessario risultato è, infatti, “il dominio del commercio dei debiti dello Stato, il dominio dei creditori dello Stato, dei banchieri, dei cambiavalute, dei lupi della Borsa” [8]. L’affermarsi del capitale finanziario produce una reale rivoluzione del diritto di proprietà affermatosi nella società precedente. Aggirando la legislazione contro l’usura, che tali precedenti rapporti di proprietà intendeva preservare, mediante la percezione di interessi sul capitale la finanza ha preso il controllo dapprima dell’intera ricchezza sociale e, quindi, dello Stato politico. Come ogni reale rivolgimento esso non è avvenuto sul piano giuridico, ma sul terreno del conflitto sociale e politico. La sanzione giuridica dei nuovi rapporti di proprietà che tali lotte hanno prodotto non può che essere posteriore alla sconfitta del tardivo e fallimentare tentativo insurrezionale della classe operaia nel giugno 1848.
Con il progressivo affermarsi del monopolio sul principio della libera concorrenza, su cui si regge la fictio iuris dei diritti umani, anche gli spazi di democrazia formale, conquistati al prezzo di dure lotte dai lavoratori, sono considerati dalla borghesia alla stregua di faux frais della produzione, quando non un’inaccettabile ostacolo al pieno dispiegarsi del proprio dominio sociale.
Note
[1] Come osserva a questo proposito Marx, ricostruendo la storia di questa magnifica illusione, al cui fascino aveva egli stesso, in un primo momento fatto delle concessioni: “in Inghilterra l’agitazione per il suffragio universale ha attraversato uno sviluppo storico prima di diventare lo slogan delle masse. In Francia esso fu prima introdotto e solo dopo intraprese il suo corso storico. In Francia naufragò la prassi, in Inghilterra l’ideologia del suffragio universale. Nei primi decenni di questo secolo, con Sir Francio Burdett, col maggiore Cartwright e con Cobbett, il suffragio universale aveva ancora quell’indeterminato carattere idealistico che ne faceva il pio desiderio di tutti gli strati della popolazione che non appartenessero direttamente alle classi dominati. Per la borghesia in realtà era soltanto un’espressione che riassumeva eccentricamente ciò che essa ha rivendicato nella riforma parlamentare del 1831 (…). Nel 1842 svanirono le ultime illusioni. A quell’epoca Lovett fece un estremo ma inutile tentativo di fare del suffragio universale la comune rivendicazione dei cosiddetti radicali e delle masse popolari”. Karl Marx - Friedrich Engels, L’associazione per la riforma amministrativa, tr. it. di S. de Waal, in Id., Opere complete, 1855-1856, vol. XIV, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 239-41.
[2] Ivi, p. 239.
[3] Id., Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in Opere complete vol. VII, tr. it. di P. Togliatti, Ed. Riuniti, Roma 1987, p. 110.
[4] Id., L’associazione…, op. cit., p. 239.
[5] Ivi pp. 239-40. “Se si ripercorre la storia del suffragio universale in Inghilterra si scoprirà che esso depone il suo carattere idealistico nella stessa misura in cui si sviluppa nel paese la società moderna con le sue infinite antitesi quali produce il progresso dell’industria” ivi, p. 240.
[6] Ibidem.
[7] Id., Le lotte di classe…, op. cit., p. 47.
[8] Ivi, p. 110.