Nello scritto autocritico del 1933, György Lukács caratterizza il momento di svolta nel suo processo di maturazione come una fase di crisi segnata dal passaggio dall’“idealismo soggettivo” all’“idealismo oggettivo” [1]. Teoria del romanzo sarebbe stato concepito, dunque, sotto questa costellazione teorica, tanto più che, nelle varie occasioni in cui Lukács si è pronunciato sul proprio iter intellettuale, non viene fatto nessun cenno al progettato libro su Dostojevskij. Dopo il ritrovamento degli appunti di Heidelberg su Dostojevskij, in molti hanno nutrito dubbi sulla ricostruzione lukacsiana per cui Teoria del romanzo è stato reinterpretato alla luce del progetto originario concepito da Lukács. La critica filologica ha accertato che l’opera pubblicata nel 1920, ma scritta durante la guerra, non è che la prima parte del lavoro su Dostoevskij. Su questa base, anche la tesi di Lucien Goldmann su Teoria del romanzo verrebbe a cadere. Uno dei più convinti assertori del contenuto antihegeliano di questo scritto è Elio Matassi, secondo il quale l’indubbio recupero della storicità avviene all’interno di un progetto di filosofia della storia antitetico a quello di Hegel. E ciò è facilmente rilevabile per Matassi, in quanto in Teoria del romanzo è teorizzata la profonda frattura storica determinatasi con l’avvento del mondo moderno rispetto alla totalità organica della comunità greca [2]. All’omogeneità e alla compiutezza del mondo greco, alla pienezza di senso, nel quale gli uomini si sentono a casa propria e nessun sentimento di estraneità turba il loro animo, è subentrata la “produttività dello spirito” e con essa la distruzione dell’essenza e l’inizio della scissione tra l’io e il mondo: “Abbiamo scoperto la produttività dello spirito: ecco perché gli archetipi ai nostri occhi hanno perduto, una volta per tutte, la loro oggettiva evidenza, e il nostro pensiero batte la strada senza fine di un’approssimazione mai compiuta. [...] Abbiamo trovato in noi stessi, l’unica, vera sostanza: ragion per cui abbiamo dovuto scavare incolmabili abissi tra conoscere e fare, tra anima e immagine, tra io e mondo, e spazzar via passivamente ogni sostanzialità posta al di là dell’abisso; ragion per cui, ancora, la nostra essenza ha dovuto per noi assurgere a postulato, scavando tra noi e noi stessi un ancor più profondo e minaccioso abisso” [3].
L’accento posto sulla discontinuità tra i due momenti della storia e lo stato di alienazione in cui versa l’umanità attuale, esprimentesi nel romanzo con l’anelito dell’eroe alla totalità, rappresenta per Matassi la cifra più evidente dell’antihegelismo lukacsiano. Infatti, se è vero che le figure della coscienza – nella Fenomenologia dello spirito – si sviluppano nel rapporto dialettico-negativo con l’oggettività attraverso un cammino disseminato “dal dubbio e dalla disperazione”, è altresì vero che l’esigenza sistematica della filosofia hegeliana costringe alla chiusura e alla conciliazione finale, sanzionando con il sapere assoluto il “corso storico del mondo”. È quanto non accetta Lukács, per il quale il movimento della storia assume un senso negativo, di estraneazione e di decadenza rispetto ai “tempi beati” [4] della grecità, piuttosto che un andamento positivo teleologicamente e aprioristicamente orientato verso la conclusiva pacificazione e l’auto-trasparenza dello Spirito. Ciò si riflette anche a livello della concezione estetica. In Hegel i generi letterari sono articolazioni particolari del concetto universale dell’arte: la poesia; essi entrano a far parte di una totalità sistematica in cui ciascun genere – l’epico, il lirico, il drammatico – è funzionalizzato al disegno teleologico complessivo, vale a dire che il precedente è inverato dialetticamente dal susseguente secondo lo schema del superamento dialettico [Aufhebung] [5]. Per Lukács, invece, nel periodo storico in cui vige la scissione, ogni possibile dialettica tra i generi è esclusa, essendo ogni forma artistica autonoma e obbediente alla propria legalità interna: “Dramma, lirica ed epica non sono tuttavia coinvolti – in qualsivoglia ordine gerarchico li si pensi –, quali tesi, antitesi e sintesi, in un processo dialettico, ma ognun d’essi è un modo, agli altri qualitativamente del tutto eterogeneo, della raffigurazione del mondo” [6].
L’autonomia dei generi si fonda, a sua volta, sull’autonomia dell’arte che – inconcepibile e impossibile nella condizione di compiuta totalità dell’essere [7] – diventa un dato proprio del mondo moderno: “La verità visionaria del mondo a noi congruente, l’arte, è perciò divenuta autonoma: essa ha cessato dall’essere una copia, dal momento che tutti i prototipi sono sprofondati; ed essa è una totalità creatrice, ché la naturale unità delle sfere metafisiche è per sempre infranta” [8].
Se la spontanea totalità dell’essere non può rinascere, soltanto l’arte, come sfera metafisica separata può aspirare alla costruzione di una totalità al livello delle sue forme, le quali devono farsi carico di questo compito inglobando in sé la frantumazione del loro oggetto e senza alterarne o giustificarne l’intima contraddittorietà. Per soddisfare questa esigenza il romanzo, genere artistico rappresentativo del mondo borghese, cerca con le sue creazioni di dare espressione alla nascosta totalità della vita, ma, essendo quest’ultima intrinsecamente scissa, “tutte le crepe e gli abissi che la situazione storica si porta appresso devono essere trasferiti nella raffigurazione e non possono e non devono essere mascherati da mezzi compositivi” [9]. È questa la paradossale sintesi antitetica di forma e contenuto che, secondo Matassi, è il contributo teorico più rilevante di Teoria del romanzo: “Ci troviamo davanti ad un processo assai articolato e che possiamo scomporre nei suoi «momenti» fondamentali nel modo seguente. La «totalità sviluppata» si mostrerà solo nella forma, che, a sua volta, non ratificherà come non supererà la negatività, limitandosi a «produrla» da un punto di vista che prevede l’immanenza della forma. Proprio tale forma anticiperà in questa particolare «dialettica» quella che si viene svolgendo insieme col tempo” [10].
Note:
[1] “Ma questa crisi – invero a mia insaputa – era determinata oggettivamente da un più intenso manifestarsi dei contrasti imperialistici e fu accelerata dallo scoppio della guerra mondiale. Certamente questa crisi si manifestò dapprima solo nel passaggio dall’idealismo soggettivo all’idealismo oggettivo (Teoria del romanzo, scritta nel 1912-15), e naturalmente Hegel venne ad acquistare per me un’importanza sempre crescente, in particolare la Fenomenologia dello spirito” Lukács, G., La mia via al marxismo [1933], traduz. di Gimmelli, U., in Id., Marxismo e politica culturale, Einaudi, Torino 1968, p. 13.
[2] “Il romanzo è l’epopea di un’epoca, per la quale la totalità estensiva della vita non è più data sensibilmente, per la quale l’immanenza vitale del senso si è fatta problematica, e che tuttavia ha l’anelito alla totalità” Lukács, G., Teoria del romanzo [1920], introduz. di Goldmann, L., traduz. di Saba Sardi, F., SugarCo Edizioni, Milano 1962, p. 87.
[3] Ivi, p. 59.
[4] Teoria del romanzo si apre con il celebre passo, venato di struggente nostalgia per la perduta condizione di compiutezza del mondo greco, “tempi beati: tali, quelli in cui è il firmamento a costituire la mappa delle vie praticabili e da battere, e le cui strade illumina la luce delle stelle. Tutto è nuovo, per essi tempi, e insieme familiare, avventuroso eppure noto. Il mondo è ampio e tuttavia quale la propria casa, ché il fuoco che nell’animo arde è della stessa sostanza delle stelle ...” ivi, p. 53.
[5] Cfr. Hegel, G.W.F., Estetica, traduz. e a cura di Merker, N., Feltrinelli, Milano 1978, vol. II, pp. 1371-75.
[6] Lukács, G., Teoria del …, op. cit., p. 182.
[7] “La totalità dell’essere è possibile solo laddove tutto già sia omogeneo, prima di essere avvolto dalle forme; laddove le forme non siano una violentazione, ma soltanto il divenir coscienza, il venire alla superficie di tutto ciò che finora ha sonnecchiato per entro l’informe – cui dar forma, quale oscura nostalgia; laddove il sapere sia virtù e la virtù felicità, laddove la bellezza dia evidenza al senso del mondo. Questo è il mondo dei filosofi greci. Ma è una nozione che prese piede, quando già la sostanza cominciava a impallidire” ivi, p. 60. In quest’ultimo riferimento, inaspettatamente, emerge una profonda consonanza con Hegel a proposito del sorgere della filosofia, quasi che Lukács stia evocando l’immagine hegeliana della civetta che s’alza al tramonto, al compimento di un’epoca storica.
[8] Ivi, p. 63.
[9] Ivi, p. 93.
[10] Matassi, E., Il giovane Lukács. Saggio e sistema, Napoli, Guida 1979, p. 138.