Dal punto di vista del giovane György Lukács l’esteriorizzarsi delle qualità umane trattate come cose va di pari passo con la crescente autonomia e il progressivo irrigidimento di sistemi parziali. Il processo di razionalizzazione, comportando l’indipendenza formale di ciascun settore rispetto agli altri, fa saltare i loro nessi organici, per cui il loro legame acquista il carattere di mera accidentalità. Ciò si manifesta pienamente nel periodo di crisi, quando lo scompaginarsi dell’intero sistema, l’arresto imprevisto – perché imprevedibile dalla ragione reificata – del funzionamento complessivo mette alla luce il suo fondo irrazionale. Irrompe con violenza proprio ciò che era stato lacerato dalla razionalità strumentale: l’aspetto qualitativo e concreto, il processo organico e unitario della vita e del lavoro: “l’essere qualitativo delle «cose» che conduce la propria vita extra-economica come una cosa in sé, incomprensibile e rimossa come valore d’uso, che si pensa di poter trascurare in tutta tranquillità durante il normale funzionamento delle leggi economiche nelle crisi diventa improvvisamente (per il pensiero razionale, reificato) il fattore decisivo. O, per meglio dire: i suoi effetti si manifestano nell’arresto del funzionamento di queste leggi, senza che l’intelletto reificato sia in condizione di scorgere un senso qualsiasi in questo «caos»” [1].
La frantumazione oggettiva in cui versa l’intero, causa ed effetto insieme del formalismo della razionalizzazione, impone al pensiero dei limiti metodologici insuperabili per la comprensione della crisi; poiché l’esistente è assunto in questa immediatezza, scompare l’immagine dell’intero e sfugge alla ragione calcolistica proprio il sostrato concreto e autentico della realtà. E non potrebbe essere altrimenti, essendo la società organizzata secondo il modello delle scienze particolari, alle quali pure è precluso l’accesso alla propria essenza.
La denuncia di tale stato di cose e il tentativo di approntare una sintesi filosofica da parte di alcuni pensatori borghesi (Lukács cita la linea irrazionalistica da Johann Georg Hamann a Henry Bergson) in nome della salvaguardia della “vita vivente”, non raggiunge il proprio scopo: il fondamento della reificazione resta inafferrabile. “Il mondo reificato appare invece – filosoficamente alla seconda potenza, nell’elucidazione «critica» – definitivamente come l’unico mondo possibile, l’unico mondo concettuale afferrabile e comprensibile che sia dato a noi uomini. Che tutto ciò sia accompagnato da una trasfigurazione, o dalla rassegnazione e dalla disperazione, oppure che si cerchi una via che conduca alla «vita» attraverso l’esperienza mistico-irrazionale non cambia nulla nell’essenza della situazione” [2].
Nel capitolo dedicato a “Le antinomie del pensiero borghese” Lukács coinvolge nella sua critica la filosofia moderna, che al pari della scienza si è accompagnata alla struttura reificata della società. Il pensiero borghese, a partire da René Descartes, si dibatte nell’impossibilità di rendere intelligibile il sostrato, il contenuto della realtà. A fondamento del suo carattere razionalistico – ossia il progetto sistematico di sottoporre a un unico principio tutti i fenomeni naturali e sociali – sta la “concezione secondo la quale l’oggetto della conoscenza può essere da noi conosciuto per il fatto che è nella misura in cui esso è stato prodotto da noi stessi ” [3].
Il modello metodologico cui si ispira il costruttivismo razionalistico dell’oggetto è la scienza matematica, per cui si passa dalla concezione qualitativa – ancora presente in età rinascimentale – alla concezione quantitativa dei fenomeni con l’individuazione del loro nesso immanente nel principio di causalità meccanica. Tuttavia mentre nel caso della matematica il contenuto, essendo omogeneo alla forma razionale e calcolistica, viene da essa inglobato e dissolto nella sua posizione soltanto relativamente irrazionale, nel campo della esperienza conoscitiva la datità dell’oggetto, l’empiria nella sua accidentalità si presentano assolutamente eterogenei e resistenti ai tentativi di formalizzazione e di sistemazione razionale.
Avendo identificato la conoscenza di tipo matematico con la conoscenza tout court, la filosofia moderna, nel suo sviluppo, non è riuscita a venire a capo del suo assunto iniziale e del suo fondamento metodologico: la razionalizzazione di tutto il reale e la sua riduzione alla legalità formale dell’intelletto. È questa la problematica ereditata da Immanuel Kant e che nel suo pensiero si rivela in tutta la sua ampiezza e drammaticità.
In Kant l’esigenza sistematica non è una prerogativa soltanto della Critica del Giudizio, dove si cerca di ricomporre il dualismo di necessità e di libertà, ma è presente fin dall’inizio nella nozione di cosa in sé. Il concetto di cosa in sé – nella sua funzione di limite e di barriera della conoscenza, oltre la quale all’intelletto discorsivo umano non è dato di andare – ha nell’economia del criticismo una duplice accezione, ciascuna di esse corrispondente a due grandi complessi problematici: “in primo luogo, al problema della materia (in senso logico-metodologico), alla questione del contenuto delle forme, con le quali «noi» conosciamo e possiamo conoscere, perché le abbiamo generate noi stessi; in secondo luogo, al problema dell’intero ed a quello della sostanza ultima della conoscenza, alla questione di quegli oggetti «ultimi» della conoscenza che sono i soli che consentono, quando sono appresi, di raccogliere i diversi sistemi parziali in modo tale da formare una totalità, un sistema del mondo compreso nella sua interezza” [4].
Il rifiuto kantiano della metafisica [5] acquista il significato di una rinuncia alla comprensione unitaria del reale, o, meglio, è la presa d’atto dell’impossibilità di accedere alla totalità dell’essere, lasciando irrisolto il nodo dell’irrazionalità del contenuto. L’unica conoscenza a noi accessibile rimane per Kant quella relativa ai fenomeni parziali, tematizzati dalle singole scienze nella loro diversificazione metodologica e contenutistica.
La filosofia, come acutamente osserva Lukács, si avvia a limitarsi alla semplice riflessione sulle condizioni di validità delle scienze, ad abdicare al suo ruolo tradizionale e a ridursi a epistemologia: questo risultato storico del pensiero filosofico moderno è anch’esso il prodotto della struttura della società borghese: “infatti, se da un lato la società borghese domina sempre più i momenti particolari della sua esistenza sociale sottomettendoli alle forme dei suoi bisogni, dall’altro – ed anche qui in misura crescente – essa perde la possibilità di arrivare a dominare con il pensiero la società come totalità e quindi anche la destinazione a dirigerla” [6].
Anche il Kant morale, il quale avverte l’esigenza di dissolvere la cosa in sé e coglie il principio della praticità, cade nella concezione di una praticità astratta, riferita all’individuo capace soltanto di una libertà puramente interiore e formale, che lascia fuori di sé il contenuto. La dicotomia kantiana di necessità e libertà, di essere e dover essere, nel rappresentare l’esito tragico del pensiero borghese nella sua fase rivoluzionaria, si radica nel carattere alienato della società capitalistica: “voglio dire che la contraddizione qui emergente tra soggettività e oggettività nei moderni sistemi formali razionalistici, i grovigli problematici e gli equivoci che si celano nei loro concetti di soggetto e di oggetto, il contrasto tra la loro essenza di sistemi da noi «prodotti» rappresentano la necessità fatalistica estranea e lontana dall’uomo. Tutto ciò non è altro che la formulazione sul terreno logico-metodologico dello stato della società moderna: uno stato nel quale gli uomini, da un lato, infrangono sempre più i legami puramente «naturali», i vincoli irrazionali e fattuali, staccandosi da essi e lasciandoli alle proprie spalle, dall’altro, e nello stesso tempo, erigono intorno a sé, in questa realtà che si «autocrea» ed «autogenera», una sorta di seconda natura, il cui decorso si contrappone a essi con lo stesso inesorabile carattere di legge con il quale si contrapponevano in precedenza i poteri irrazionali della natura (o più precisamente, quei rapporti sociali che si presentavano in questa forma)” [7].
Lo stato di frantumazione dell’essenza vitale dell’uomo moderno e la dispersione irrelata delle sue qualità è stato il tema dominante che ha caratterizzato la Stimmung della cultura tedesca durante la Goethe-Zeit.
La soluzione estetica datane da Friedrich Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica dell’umanità – dove egli afferma che l’uomo “è interamente uomo, solo quando gioca” (XV Lettera) – ha, per Lukács, una portata che va ben al di là del campo estetico, perché con essa si avverte profondamente il problema del senso dell’esistenza sociale dell’uomo e si manifesta chiaramente la questione principale della filosofia classica tedesca.
Note:
[1] Lukács, György, Storia e coscienza di classe [1923], traduz. di G. Piana, introduz. di M. Spinella, Milano, SugarCo Edizioni 1967, p. 137.
[2] Ivi, p. 143.
[3] Ivi, p. 145.
[4] Ivi, pp. 149-50.
[5] È noto il grande apprezzamento tributato da Hegel a Kant, per avere quest’ultimo nella “Dialettica trascendentale” e, precisamente, nell’Idea cosmologica scoperto il carattere necessariamente dialettico della Ragione; ma, “tanto quanto è profonda questa prospettiva, altrettanto è banale la soluzione che consiste in una sorta di riguardo per le cose del mondo” [Hegel, G.W.F., Enciclopedia delle Scienze filosofiche in compendio, a cura di Verra, V., Torino, Utet 1981, § 48 nota, p. 206.
[6] Lukács, G., Storia…, op. cit., p. 158.
[7] Ivi, p. 168.