Vi è un legame profondo fra le politiche imperialiste e l’affermazione dell’opportunismo fra i dirigenti del movimento operaio nei paesi a capitalismo avanzato. Anzi, si può dire che la scissione del movimento operaio in riformisti e rivoluzionari dipende in primo luogo dalla diversa valutazione che si dà del neocolonialismo imperialista.
Le caratteristiche principali di tale fase di “sviluppo” del capitalismo, restano essenzialmente ancora oggi quelle indicate da Vladimir Lenin nel suo famoso Saggio popolare, che sintetizzano le precedenti elaborazioni del concetto da parte di Hobson, Hilferding, Luxemburg e Bukharin: a) concentrazione monopolistica dei capitali; b) progressivo prevalere del capitale finanziario (bancario+industriale); c) governo ridotto a comitato d’affari dei grandi trust; d) ipertrofia degli apparati burocratici e repressivi dello Stato (volti alla salvaguardia di rapporti di proprietà sempre più irrazionali); e) ideologia dell’unità nazionale interclassista; f) spartizione del mondo fra potenze imperialiste mediante l’esportazione nei paesi extra europei dei capitali sovrapprodotti e, in caso contrario, politica delle cannoniere e guerre imperialiste. Mentre i rivoluzionari sono inconciliabili con tali politiche, il revisionismo da Bernstein a Bissolati in Italia (che appoggiò l’impresa colonialista in Libia) sino ai nostri giorni giustifica tali politiche con una concezione del mondo positivista: l’imperialismo sarebbe in definitiva progressista in quanto consentirebbe un’espansione della civiltà moderna (occidentale) a nazioni altrimenti condannate a permanere nella barbarie.
A tale posizione si contrapponeva già ai propri tempi Karl Marx, sostenendo che la mancata opposizione all’oppressione di un’altra nazionalità da parte della propria impedisce a un popolo di conquistarsi la sua stessa libertà. Così, già allora i comunisti, su questa decisiva questione, si contrapponevano agli anarco-socialisti, tanto che Marx, come non manca di sottolineare Lenin, “contrariamente ai proudhonaniani che ‘negavano’ la questione nazionale ‘in nome della rivoluzione sociale’, mise in primo piano, tenendo conto anzitutto degli interessi della lotta di classe del proletariato nei paesi avanzati, il principio fondamentale dell’internazionalismo e del socialismo: un popolo che opprime altri popoli non può essere libero” [1]. A rafforzare il concetto ci pensa l’altro padre del socialismo scientifico, Friedrich Engels, che sottolinea come la rivoluzione non solo non sia esportabile, ma tende a degenerare nella misura in cui pretende di imporsi a un altro popolo, come aveva ampiamente dimostrato la Rivoluzione francese, le guerre napoleoniche e, infine, le guerre coloniali: “il proletariato vittorioso non può imporre nessuna felicità a nessun popolo straniero senza minare con ciò la sua propria vittoria” [2].
Da parte sua Lenin denunciava che lo sfruttamento dei paesi in via di sviluppo da parte di un pugno di grandi potenze trasforma, “sempre più il mondo ‘civile’ in un parassita che vive sul corpo di centinaia di milioni di uomini” [3]. Proprio per questo il grande rivoluzionario russo polemizzava non solo aspramente con l’ala revisionista della II internazionale, che tendeva a giustificare il colonialismo, ma anche con l’ala centrista che dinanzi al fatto che l’imperialismo si stava spartendo il mondo in aree di influenza, tendeva a ritenere la parola d’ordine dell’autodeterminazione dei popoli utopista.
Al contrario, secondo Lenin: “il rafforzamento dell’oppressione nazionale durante l’imperialismo non determina per la socialdemocrazia la rinunzia alla lotta ‘utopistica’ (come viene definita dalla borghesia) per la libertà di separazione delle nazioni, ma determina, al contrario, una più ampia utilizzazione dei conflitti che sorgono anche su questo terreno, come motivi per l’azione di massa, per le azioni rivoluzionarie contro la borghesia” [4]. Quindi, secondo Lenin, le giuste lotte dei popoli per l’autodeterminazione possono divenire un’ottima occasione per le forze rivoluzionarie per rafforzare il movimento per rovesciare l’imperialismo in funzione della transizione al socialismo. Proprio per questo i rivoluzionari non possono essere veramente tali se non partecipano in prima fila a tali lotte, utilizzando tutti i mezzi necessari. Come sottolinea a tal proposito Lenin: “L’autodecisione delle nazioni non è altro che la lotta per la completa liberazione nazionale, per la completa indipendenza, contro le annessioni, e i socialisti non possono, senza rinunciare a essere socialisti, sottrarsi a questa lotta, in tutte le sue forme, compresa l’insurrezione e la guerra” [5]. Al punto che Lenin stabilisce una differenza fondamentale fra tutte le altre rivendicazioni democratiche, che nella fase rivoluzionario possono essere d’ostacolo alla conquista del potere, e la lotta per l’autodeterminazione che resta altrettanto prioritaria. Dunque, scrive Lenin: “se tutte le rivendicazioni puramente democratiche possono – al momento dell’assalto del proletariato contro le basi del potere della borghesia – ostacolare in un certo senso la rivoluzione, la necessità di proclamare e di attuare la libertà di tutti i popoli oppressi (cioè il loro diritto all’autodecisione) è altrettanto urgente” [6].
L’affermarsi delle posizioni socialimperialiste, ovvero socialiste a parole ma filo-imperialiste nei fatti, nei partiti dei lavoratori di diversi paesi europei è stato preparato dal progressivo ripudio delle esperienze rivoluzionarie del passato. A ulteriore conferma di quanto sia importante la lotta di classe e per l’egemonia a livello delle sovrastrutture, che non è meramente complementare allo scontro politico, ma costituisce un aspetto ineludibile del processo di trasformazione della realtà sociale. Non può, dunque, considerarsi un caso che la Spd, partito guida della Seconda internazionale prima di assumere posizioni socialimperialiste e di gettare la maschera svelando la propria metamorfosi socialsciovinista, con il voto dei crediti di guerra necessari a dare vita alla prima guerra mondiale, abbia sviluppato nei proprio organi di stampa un’ampia campagna volta a mostrare l’inattualità e l’esaurimento della spinta propulsiva della Comune di Parigi, primo tentativo di realizzare uno Stato socialista.
Allo stesso modo, il più riconosciuto teorico della Seconda Internazionale, Karl Kautsky, elaborò una concezione revisionista, come quella dell’ultraimperialismo, secondo cui la guerra non era più da considerarsi una qualità specifica e inevitabile del capitalismo giunto nella sua fase di sviluppo monopolistica, ma era una mera caratteristica temporanea e ormai tendenzialmente superato dalla presunta nuova fase di sviluppo superimperialista. L’imperialismo avrebbe potuto svilupparsi in un capitalismo ragionevole, in quanto nell’ultra-imperialismo i capitalisti di tutti il mondo avrebbero finalmente collaborato fra di loro ponendo fine all’epoca delle guerre imperialiste. In tal modo lo stesso sviluppo del capitalismo avrebbe impedito nuove guerra fra nazioni. Se ne poteva, quindi, desumere che non era più necessario doverlo rovesciare a causa delle sue degenerazioni imperialiste, per il loro carattere comunque transitorio e in via di superamento, ma sarebbe stato sufficiente un programma di riforme strutturali.
Queste tendenze revisioniste sul piano teorico favorirono l’opportunismo politico del funzionari di partito e in particolare di quelli impegnati nel sindacato, in primo luogo nella Spd che, proprio alla vigilia della Grande guerra mandò nei fatti in frantumi l’Internazionale ripudiando le tradizionali posizioni di totale opposizione alla guerre imperialiste, solennemente ribadite anche nell’ultimo congresso della Seconda internazionale a Basilea. Anche in questo caso il tradimento dei vertici riformisti e revisionisti fu cercato di giustificare con lo stato di arretratezza delle masse, che rendeva nei fatti superate e utopiste le posizioni contro la guerra imperialista assunte appena due anni prima. Contro queste pseudo-giustificazioni dei dirigenti che cercano in tal modo di scaricare le proprie gravissime responsabilità sulle masse dei subalterni, reagisce con decisione Lenin, sottolineando come: “le masse, nel momento critico, non potevano far nulla di fronte al tradimento dei loro capi, mentre il ‘manipolo’ di questi capi aveva la piena possibilità e il dovere di votare contro i crediti, di prendere posizione contro ‘la pace civile’ e contro la giustificazione della guerra, di pronunciarsi per la disfatta dei propri governi, di organizzare un apparato internazionale per la propaganda della fraternizzazione nelle trincee, di organizzare la stampa illegale che affermasse la necessità di passare alle azioni rivoluzionarie” [7].
Note
[1] V. I. Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, in Id., Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 43.
[2] Da una lettera di Engels a Kautsky, non a caso ripresa da Lenin in Risultati della discussione sull’autodecisione [luglio 1916], in Id., Sulla rivoluzione… cit., p. 50.
[3] Id., L’imperialismo e la scissione del socialismo [ottobre 1916], in Id., Contro l’opportunismo di destra e di sinistra, contro il trotskismo, Edizioni Progress, Mosca 1978, p. 286.
[4] Id., La rivoluzione…, cit., in Sulla rivoluzione…, cit., p. 39.
[5] Id., Intorno a una caricatura del marxismo e all’‘economismo imperialistico’ [agosto-ottobre 1916], in op. cit., p. 64.
[6] Id., La rivoluzione…, cit., in ivi, p. 47.
[7] Id., Il fallimento della II internazionale [maggio-giugno 1915], in ivi, p. 26. Allo stesso modo Lenin polemizzava con veemenza con chi aveva abbandonato il programma di Basilea con la giustificazione che l’attesa rivoluzione dinanzi alla guerra imperialista non c’era stata: “il manifesto di Basilea dice: 1) che la guerra creerà una crisi economica e politica; 2) che i lavoratori considereranno la loro partecipazione alla guerra come un delitto e riterranno criminoso ‘sparare gli uni sugli altri per il profitto dei capitalisti, per l’orgoglio delle dinastie per la stipulazione di trattati segreti’; e che la guerra provocherà tra gli operai ‘l’indignazione e la collera’; 3) che i socialisti hanno il dovere di utilizzare la crisi e lo stato d’animo sopra indicato degli operai per far ‘leva sugli strati popolari e affrettare la caduta del dominio capitalistico’; 4) che ‘i governi’, nessuno escluso, non possono scatenare la guerra ‘senza pericolo per loro stessi’; 5) che i governi ‘hanno paura di una rivoluzione proletaria’; 6) che i governi ‘debbono ricordare’ la Comune di Parigi (cioè la guerra civile), la rivoluzione del 1905 in Russia, ecc. Tutte queste sono idee assolutamente chiare; in esse non v’è la garanzia che la rivoluzione avverrà; ma in esse si mette l’accento su una precisa caratteristica di fatti e di tendenze. Chi dice, a proposito di questi argomenti e di questi ragionamenti, che prevedere lo scoppio della rivoluzione significa illudersi, dimostra di avere, verso la rivoluzione stessa, un atteggiamento non marxista, ma stravista, poliziesco, da rinnegato” ivi, p. 11.