Siamo arrivati ai 150 anni dall’eccidio nel lanificio Ajani di via della Lungaretta a Roma in cui il 25 ottobre del 1867 furono pugnalati a morte dagli zuavi pontifici: Giuditta Tavani Arquati incinta del dodicesimo figlio, suo marito Francesco e il loro figliolo dodicenne Antonio. Si salvò la loro bimba di 3 anni nascosta in una cesta sotto il tavolo. Giuditta aveva 37 anni. Col marito aveva diviso gli anni della fuga a Venezia al seguito di Garibaldi nel 1849, dopo la sconfitta della Repubblica romana. Entrambi gli sposi fecero poi ritorno a Roma, sempre nell’intento di collaborare per la sua liberazione.
Giuditta era una donna non passivamente a rimorchio del marito, una donna attiva e consapevole, che fin dalla fanciullezza aveva respirato nella Roma trasteverina l’aria “repubblicana”. Una donna che nella mattina dell’eccidio si trovava nel lanificio con vari altri cospiratori per preparare l’insurrezione che avrebbe dovuto minare il dominio pontificio e preparare l’annessione di Roma all’Italia unita. Le armi erano nascoste nelle balle di lana. Alle figlie ospitate nel Comune di Filettino residenza della famiglia Arquati, Giuditta aveva scritto: “tra poco potrete ritornare in pace e serenità”.
Quel 1867 fu un anno particolare. Il 22 ottobre c’era stato l’assalto alla Caserma Serristori da parte di patrioti (ricordiamo tra tutti Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti che pagarono con la vita quell’impresa sanguinosa. Arrestati, processati, ghigliottinati nel novembre del 1868); il 23 ottobre la battaglia di Villa Glori, un insuccesso dovuto anche alla disorganizzazione degli insorti; il 3 novembre infine la sconfitta di Garibaldi a Mentana.
La vittoria nella III Guerra di Indipendenza aveva, sì, fatto guadagnare il Veneto al neonato Regno d’Italia, ma aveva insieme messo in luce tutti i limiti di un paese con 17 milioni di analfabeti e legato all’identità secolare dei propri staterelli di appartenenza. Occorreranno ancora 10 anni con l’avvento della Sinistra al Governo perché si possa dire iniziata un’opera di nazionalizzazione che educherà gli italiani a percepirsi come appartenenti a un’unica comunità nazionale (come si vede, un’opera ancora oggi incompiuta!).
Un clima di emergenza aleggia per tutto il decennio che separa la proclamazione del Regno d’Italia dalla liberazione di Roma: contrasti tra moderati e rivoluzionari, resistenze tra i potentati che non volevano cedere all’unificazione, (Stato della Chiesa, i fedeli dei Borbone). Un clima ben diverso da quello emergenziale delle grandi speranze, degli ideali romantici di una patria unica e indipendente che avevano animato gli anni del Risorgimento trascinando fuori dalle mura domestiche donne di ogni classe sociale: pensiamo a Cristina Trivulzio di Belgioioso alla guida di un battaglione di volontari a Milano nel 1848 le cui iniziative anticonformiste dal soggiorno a Parigi alla cura di feriti e moribondi cui attrasse donne di ogni ceto sono note; a Costanza d’Azeglio, dedita a opere filantropiche a Torino; a Colomba Antonietti di più modeste condizioni sociali, colpita da un proiettile mentre prendeva parte alla difesa armata di Roma a Porta San Pancrazio, vestita in abito militare. Le cronache ci restituiscono l’immagine di questa giovane patriota adagiata sulla barella sul punto di esalare l’ultimo respiro, e di un militare che piombava sul suo corpo coprendolo di baci tra lo stupore degli astanti. Era l’amato marito ufficiale conte Luigi Porzi, passato dall’esercito pontificio alla “repubblica romana”, che Colomba aveva voluto affiancare in armi, tagliati i capelli e indossata la divisa da bersagliere per non incorrere come donna nel divieto. E sopra tutte, la donna dei due mondi, portatrice di una cultura altra, la compagna indomita, spregiudicata, di colui che era considerato “l’eroe”, Giuseppe Garibaldi , quella Anita, Ana de Iesus Ribeira da Silva, venuta dal Brasile a morire nelle Valli di Comacchio dopo la fuga da Roma nel 1849 a seguito della caduta della Repubblica romana. Aveva solo 29 anni, ma subito avvolta nel mito, ad un tempo donna votata alla causa e madre di ben quattro figli.
La delusione per l’esito moderato del Risorgimento coinvolge molte donne che dopo aver partecipato attivamente alla lotta patriottica si vedono rifiutare l’appartenenza alla comunità politica che avevano contribuito a costruire. Se per molte di loro questo segnerà un riflusso verso il privato, e quasi la cancellazione della precedente esperienza politica, per altre sarà invece l’inizio di un nuovo impegno emancipazionista e femminista.
Sempre nel 1867, pochi mesi prima degli eventi che contrassegnarono quel drammatico autunno, Salvatore Morelli, patriota liberale, eletto nel Parlamento italiano, improntò un suo programma per il miglioramento della condizione femminile ed il raggiungimento di una sostanziale parità tra l’uomo e la donna. Il documento si intitolava Per la reintegrazione giuridica della donna.I tre disegni di legge si proponevano di superare le disposizioni contenute nel Codice civile del 1865 che escludeva le donne dalla vita pubblica e politica del paese, ritenute “soggetti naturalmente immaturi”. Disegni che, pur presentati alla Camera, non vennero né ammessi alla lettura né registrati tra i fascicoli degli archivi. L’intervento rivendicava per le donne in quanto persone, madri, mogli e “depositarie della moralità della comunità”, i medesimi diritti civili e politici di cui godevano gli altri cittadini del Regno d’Italia. La modernità di questi intenti riformistici suscitava tuttavia sgomento e ilarità che si esprimono nel filone satirico della “politica in gonnella” (cfr. il componimento satirico nel periodico napoletano “Il Folletto”, la presa in giro delle “maestrine” considerate donne che volevano soltanto avere “la scusa” per uscire di casa… e andarsi a prostituire).
Anche se alcune donne usarono l’esperienza risorgimentale per affermare il loro diritto a una cittadinanza piena come italiane, di fatto lo Stato nazionale venne dunque a sanzionare la loro subordinazione nella famiglia e nella società con leggi che in alcuni casi rappresentavano persino un arretramento rispetto alle legislazioni degli Stati pre-unitari. In realtà, tuttavia, l’impegno nazionale delle donne non si limitò al semplice ritorno ai ruoli domestici; l’esperienza direttamente o indirettamente vissuta spinse non poche di loro ad attivarsi nella sfera pubblica, specialmente attraverso il dibattito sull’educazione delle donne italiane in funzione patriottica. Ne è un esempio Caterina Franceschi Ferrucci la cui lunga vita si trovò a cavallo tra Risorgimento e Unità d’Italia. Essa, come altre donne di fervente fede cattolica, propugnava il modello della donna cristiana dedicata interamente ai figli e subordinata al marito, ma esercitando il ruolo educativo nell’ottica della difesa della causa nazionale.
Riguardo al rapporto fede religiosa/Stato della Chiesa, gli anni che precedettero la liberazione di Roma rappresentano uno scenario animato da una laicità istintiva nella popolazione romana. Giuditta girava nelle incursioni per le vie di Roma gridando come le era stato insegnato “Viva l’Italia”, “Viva la religione” e Maria, la madre di Gaetano Tognetti, dialoga con un parroco, che non fa certo parte dell’alto clero, proprio mentre il figlio sta organizzando l’attacco alla Caserma Serristori, e si trova in mezzo alla cospirazione pregando la Madonna perché non capiti nulla di male a suo figlio. Questa donna, figlia del popolo romano, la incontriamo in seguito nelle pagine del romanzo di Gaetano Sanvittore “I misteri del processo Monti-Tognetti” (1869) (da cui il film di Gigi Magni “In nome del Papa re”), affrontare disperata la nobildonna legata al potere vaticano dalla cui intercessione spera di ottenere la liberazione del figlio, come essa era riuscita a fare per il proprio figlio, frutto di una relazione indicibile, anche lui tra i cospiratori. La principessa non ha il coraggio di ricevere la donna. Due tipologie di madri di diversa estrazione sociale al centro di una cospirazione ignorata, unite dall’amore per i figli. Altro scenario: due popolane, la moglie di Monti e la madre di Tognetti, “pazze per la disperazione” di fronte alle teste rotolanti dopo l’esecuzione dei propri cari.
Patriottismo e religione non hanno nulla a che vedere con gli zuavi pontifici, servi di un potere che impedisce l’unificazione dell’Italia con Roma capitale. La religione cattolica, radicata nel tessuto dei diversi staterelli preunitari, con particolarità rituali, non è certo coinvolta nella lotta per la liberazione di Roma contro un potere che non si identifica con la religione, un potere sorretto da eserciti “stranieri”. Va ricordato a questo proposito il racconto raccapricciante delle ultime ore di Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti nelle loro celle. Entrambi hanno espressioni di sincero pentimento, chiedono i sacramenti sollecitati dal sacerdote che li conforta; sono rivolti solo alla fede religiosa. L’ideale della liberazione di Roma compare velatamente sotto forma di colpa da espiare.
Relativamente al pluralismo delle identità, caratteristica spiccata delle donne di questo periodo storico, vanno citati periodici come, esempio tra tutti, il romano “La donna italiana. Giornale politico letterario” nato nel 1848. Le donne sono esortate a sostenere la causa dell’indipendenza non solo come “madri, sorelle, amantie spose dei crociati italiani” ma anche come “promotrici di battaglie femminili che aiutassero gli uomini combattenti occupandosi della cura dei feriti e provvedendo ad altre necessità”. Un ruolo “pubblico”, insomma, per quanto ritagliato sullo stereotipo femminile.
In aperto contrasto col quadro legislativo vigente, i decenni postunitari vedono molte donne conquistarsi uno spazio nel campo della cultura, delle lettere, della filantropia e delle professioni, iniziando a scorgere nella loro sessualità il fattore aggregativo di un nuovo movimento. Le rivendicazioni riguardano, da un’istruzione più completa all’estensione dei pieni diritti civili e politici (tali diritti erano allora estesi, nella legge elettorale della Destra storica, mutuata dal Regno savoiardo di Sardegna, soltanto agli uomini più ricchi e più colti). Le donne smentiscono col loro impegno pratico i pregiudizi sulle loro incapacità intellettuali e organizzative. Si gettano in questo modo le basi dei grandi filoni che nel secolo successivo daranno il via alle lotte per il diritto di voto, ai movimenti emancipazionisti e più intransigentemente femministi con la teoria della differenza, cui si è accennato.
Anna Maria Mozzoni, nata da una famiglia di patrioti lombardi mazziniani, è una delle voci più ascoltate nel panorama dell’emancipazionismo italiano. Interessante è la sua posizione cosmopolita, con attenzione alle donne protagoniste a diversi livelli, impegnate ad esercitare potere e influenze a favore della civilizzazione delle società (es. Caterina di Russia). Nel suo libro “La donna e i suoi rapporti sociali” congiunge l’impegno patriottico delle italiane al contributo che le donne hanno dato e possono dare al progresso sociale. “L’umanità e la patria, la civiltà e la morale hanno bisogno della donna”.
Altra figura di donna, attiva in questi anni postunitari è Gualberta Alaide Beccari, letterata filo mazziniana, fondatrice a Padova nel 1868 del settimanale “La donna”. È il primo giornale che si presenta non come una corrente di pensiero bensì come coordinamento di un movimento: quello femminile, che ha bisogno per consolidarsi, della solidarietà femminile, della collaborazione e dell’unità interclassista, per progredire sul cammino delle conquiste politiche. Istruzione e lavoro sono considerati “mezzi” per liberare le donne dall’ignoranza e dalla dipendenza economica. Si diffonde con la Beccari in Italia l’espressione “sorellanza” che caratterizzerà i movimenti femministi dell’occidente nel secolo ventesimo. “Siano con noi le donne che sanno e possono. Si uniscano a quella falange ancora troppo povera che fu ed è l’antesignana del movimento femminile, e l’appoggino con tutta la loro potenza ed influenza”, scriveva Gualberta Beccari.
Situazioni emergenziali – come s’è visto – sono indubbiamente il crogiuolo in cui il coraggioe la determinazione delle donne hanno il modo di manifestarsi e di espandersi mettendo spesso in crisi le proprie appartenenze. A differenza degli uomini, fatta salva l’identità di genere, le donne si battono da sempre per la liberazione dal giogo esercitato su di loro dal patriarcato (pensiamo ad esempi come Ipazia, Giovanna d’Arco); gli uomini - al contrario - si battono per la conquista del potere. Occorrono ideali - il principale alimento, questo, per il riscatto - ideali che solo la cultura può alimentare. Ideali di libertà, e di pace nella libertà.
Così si sono mosse le nostre donne nella Resistenza italiana ed europea, imbracciando anche le armi ma solo per la liberazione della propria condizione dall’oppressione nazifascista, così si è mossa “fazzoletto rosso”, la ragazzina turca unitasi ai Kurdi uccisa recentemente nella lotta contro la violenza dell’ISIS. Ben altra vicenda quella delle donne occidentali che abbracciano le armi dell’ISIS attratte da un fondamentalismo che è ansia di potere terreno e soprannaturale. Cultura e laicità sono l’alimento insopprimibile per la libertà di tutti gli esseri umani in una visione universalistica delle società.