Se volete poi sapere qualcosa di più sulla bellezza,
che cos'è esattamente,
consultate una storia dell'arte
e vedrete che ogni epoca ha le sue veneri
e che queste veneri (o apolli) messi assieme e confrontati,
fuori dalle loro epoche,
sono una famiglia di mostri.
Bruno Munari
Nel 1946, subito dopo la fine del conflitto mondiale, alcuni critici francesi, guardando i film americani che la guerra aveva inesorabilmente cancellato dalla programmazione, si accorsero che il cinema oltreoceano era improvvisamente diventato cinico, cupo, pessimista. Ma quello che videro fu solo la punta dell’iceberg. Non era mai successo, in effetti, che lo sguardo del cinema sulla vita americana fosse così severo e intransigente.
Quella parte di mondo uscita vittoriosa dalla guerra, portò con sé un’atmosfera nonché una sensazione di paura e paranoia. In gran parte, dovuta anche da un gigantesco “plotone” di intellettuali e Filmemigranten di sinistra che lasciarono la Germania e l’Austria nazista per motivi politici o razziali. Sebbene Hollywood non abbia mai subìto un processo di germanizzazione, è indubbio che i registi tedeschi abbiano portato la maestria del chiaroscuro proprio del cinema espressionista.
Il mondo noir fu dunque il risultato e il ritratto di una lenta agonia, l’esperienza di una dissoluzione senza ritorno che coinvolge il piano individuale quanto quello sociale. Il malessere diviene la sensazione dominante, vi si presenta uno stato perenne di incertezza, di perdita di equilibrio, di attrazione verso il vuoto in cui spesso si cela la paura di guardare sé stessi.
William Barrett, filosofo vicino alle idee marxiste ed esistenzialiste, scrisse a tal proposito: “L’Americano non ha ancora assimilato psicologicamente la scomparsa della propria frontiera geografica, e il suo orizzonte spirituale continua ad essere lo sconfinato gioco delle possibilità dell’uomo come individuo”. Che cosa dunque collega l’esistenzialismo al mondo noir statunitense? Al posto del mito della frontiera e del mito americano esaltato dal genere Western, troviamo ora un senso di paranoia e di claustrofobia. Per la prima volta troviamo la paura del futuro, l’insicurezza individuale, l’dea di sconfitta, la morte.
Il protagonista è dunque l’eroe svuotato di qualsiasi significato eroico. È l’“uomo senza memoria” di Camus. Un protagonista che paga amaramente il prezzo del suo auto-isolamento e auto-emarginazione dietro alle maschere che egli stesso si è imposto. Un isolamento che nessun criminale, in una società di crimini, è costretto ad affrontare. Il noir non fa altro dunque che descrivere una società in gran parte priva di spirito comunitario, dove il culto dell’individualismo e l’apoteosi della libera impresa hanno eroso la fede nella lealtà verso il bene comune propagandato dal New Deal di Roosevelt, ormai al capolinea. Questo sentimento di denuncia, verso un individualismo che corrode la società americana, è ben presente nel noir, tanto da essere definita l’“ispirazione di sinistra” del noir stesso.
Non è un caso, dunque, che il periodo più florido del noir – che va proprio dal 1945 al 1954 circa – coincida esattamente con l’epoca dell’anticomunismo, quello della caccia alle streghe del senatore McCarthy in cui caddero i migliori registi, sceneggiatori, e direttori di fotografia dell’epoca, mandati in prigione per essersi rifiutati di rispondere alle domande davanti al Comitato per le attività non americane della Camera (HUAC). Il loro rifiuto di testimoniare era basato su il primo emendamento alla Costituzione che garantisce le libertà di parola e di associazione. Secondo la costituzione, avrebbero potuto invocare la protezione del quinto emendamento contro l'autoincriminazione, ma questo non lo fecero, per lo stesso motivo che, in primo luogo, non avevano fatto nulla di sbagliato.
I “Dieci” non erano i soli a subire le conseguenze dell'era dello stato di polizia ora nota come “maccartismo”; in migliaia a Hollywood, nelle scuole e nelle università, nel governo e nel movimento operaio, furono inseriti nella lista nera; non pochi furono deportati, imprigionati o costretti a chiedere asilo all'estero; e due, Julius ed Ethel Rosenberg, furono addirittura giustiziati. Una conseguenza è chiara: la sinistra negli Stati Uniti ha ricevuto un colpo da cui non si riprenderà mai più.
Ma il paradosso è evidente. Da una parte, Hollywood è terrorizzata, colta dalla frenesia di sbarazzarsi del pericolo rosso (conseguenza dalla minaccia atomica e dalla Guerra di Corea), dall’altra le stesse case di produzione realizzano, in questi anni di isteria politica, i migliori film noir in assoluto. Sebbene l’idea che la propaganda comunista si insinuasse nel cinema hollywoodiano fosse motivo di allarme, pare proprio che i membri stessi della HUAC considerassero il contenuto reale dei film come l’ultima preoccupazione, l’ultima cosa da valutare. C’erano in ballo troppi soldi. Ed è proprio così che muore il noir classico. Il genere più americano, ucciso dal peggior americanismo di facciata. Certi argomenti furono considerati tabù, tutta una tradizione di pensiero politico americano alternativo fu soggetto alla repressione più feroce da cui il noir non si riprese più, neppure dopo il recupero negli anni Sessanta. Eppure, a ben vedere, cosa ha fatto emergere il noir se non quell’ipocrisia positivista fatta di sventolio di bandierine a stelle e strisce in cui si annidava, invece, lo stesso spettro che pochi anni prima si aggirava per l’Europa? Il Noir è stato il rovescio della medaglia: alla fabbrica dei sogni, era contrapposta la fabbrica degli incubi.
Filmografia consigliata:
Little Caesar (1930) di Mervyn LeRoy
Il Falcone Maltese (1941) di John Houston
Murder My Sweet (1944) di Edward Dmytryk
Double Indemnity (1944) di Billy Wilder
Laura (1944) di Otto Preminger
The Big Sleep (1946) di Howard Hawks
White Heat (1949) di Raoul Walsh
The Dark Past (1949) di Rudolph Maté
Border Incident (1949) di Anthony Mann
In a Lonely Place (1950) di Nicholas Ray
Pickup on South Street (1953) di Samuel Fuller
Kiss Me Deadly (1955) di Robert Aldrich
Touch of Evil (1958) di Orson Welles