Il romanzo “Milano Pastis” di Davide Pappalardo ci spinge a una riflessione sul perché la narrativa di genere gialla è divenuta, nel Novecento, una delle più efficaci forme di comprensione della realtà.
di Giuseppe Carroccia
Il romanzo di esordio di Davide Pappalardo Milano Pastis è un giallo moderno: cammina con un passo nel presente, l’altro nel passato. Ricostruisce, reinventandola, la rapina di via Montenapoleone del 15 aprile 1964. Sei banditi francesi con un’azione eclatante nel centro della capitale del miracolo economico, sparando all’impazzata, ma senza ferire nessuno, rapinano una famosa gioielleria, dileguandosi con un’abile e spericolata manovra automobilistica. E uno straordinario bottino.
L’opinione pubblica è scossa, mentre nei piani alti del Palazzo altre manovre, altrettanto spericolate, del presidente Segni vogliono bloccare, o almeno limitare, l’azione del governo Moro, il primo con dentro i socialisti. Sono i mesi del Piano Solo del generale dei carabinieri De Lorenzo, figura complessa di militare che aveva schedato le principali autorità del paese e si predisponeva a neutralizzare, deportandoli in Sardegna i dirigenti comunisti, i sindacalisti, le personalità di sinistra, per bloccare eventuali proteste per il cambio di governo.
Nei pochi mesi successivi accade di tutto: Segni è colpito da un ictus dopo un furibondo litigio con Saragat che lo sostituirà alla Presidenza della Repubblica, Moro varerà un nuovo governo meno orientato a sinistra, muore Togliatti e una folla oceanica gli darà l’ultimo saluto davanti ai dirigenti comunisti di tutto il mondo.
Difficile deportarli tutti in Sardegna.
Il generale De Lorenzo, che aveva partecipato alla Resistenza, diviene capo di stato maggiore e andrà ad uno scontro durissimo con Aloja, un fascista che voleva ricostruire con i corsi di ardimento gli arditi nell’esercito. Quando poi blocca l’acquisto di carri armati americani, verrà rimosso.
Gli appoggi che i rapinatori, i futuri clan dei marsigliesi, hanno con esponenti dell’estrema destra, aprirà una stagione che passando per la banda della Magliana arriva fino a oggi: a Mafia Capitale.
L’intreccio molto ben documentato tra storia e cronaca consente all’autore di dipanare le vicende e le azioni dei protagonisti, le loro aspirazioni disegnando personaggi psicologicamente credibili, vivi.
In particolare il rapporto tra i due fratelli Bresciani, la storia d’amore tra Roberto e Sherazade, gli scambi di battute tra l’appuntato e il commissario siciliano e tra quest’ultimo e il suo omologo francese.
La costruzione della trama è robusta. Aderente, sobria e pulita la scrittura. Equilibrato l’alternarsi di diversi piani narrativi, matura, senza mai strafare, la scelta di non risparmiarsi, di concentrare generosamente molte storie, fatti, descrizioni: materiali sufficienti per diversi altri libri.
Una maturità raggiunta già al primo libro che è più di una promessa di futuri, appassionanti lavori.
Un talento, una passione appunto, che è squisitamente politica: il bisogno di descrivere per poter meglio capire la storia del nostro strano paese, spesso straniero a noi stessi, come fossimo a un tempo nativi e migranti. I fatti degli ultimi cinquant’anni, le cronache di questi giorni, diventano infatti meno oscuri se illuminati dalla trasparente luce del giallo.
La lettura di questo romanzo perciò, oltre ad essere piacevole (il quasi ineguagliabile piacere della lettura: la felicità addirittura secondo Renard), ci spinge a una riflessione sul perché la narrativa di genere gialla (come le copertine dei Mondadori e il pastis che dopo la birra era la bevanda preferita del commissario Maigret) è divenuta nel Novecento, una delle più efficaci forme di comprensione della realtà.
Non si tratta del meccanismo universale che spinge lo scrittore a incatenare il lettore alla curiosità della vicenda raccontata, di cui le arabe “Le mille e una notte” sono la migliore dichiarazione poetica, ma proprio della spiegazione di come funziona la società, la “commedia umana” di Balzac che tanto entusiasmava Marx facendolo preferire agli economisti suoi contemporanei.
D’altronde se la proprietà è un furto, fondare una banca è più delittuoso che rapinarla e l’accumulazione originale del capitale inizia con un crimine, due secoli di capitalismo maturo per poter essere raccontati, dovevano per forza far lievitare un universo narrativo che facesse dell’azione criminale il suo polo d’attrazione.
Ma questo universo, anche quando è seriale, finisce per svilupparsi all’infinito, allargando sensibilmente i limiti della intera letteratura, facendo crescere schiere di lettori e scrittori, contaminando in un pasticciaccio i generi, le forme i linguaggi, rivitalizzando il cinema, la graphic novel ( i nuvolari fumeti), la stessa televisione, rendendoci tutti immaginari detective della realtà.
E sedimentando i germi della rivolta. Tra i primi e migliori giallisti troviamo infatti molti scrittori comunisti. Dagli inventori della hard boiled, Dashiell Hammett e Raymond Chandler, ai latino americani Paico Ignazio Taibo II, Sepulveda, Rolo Diez, al nostro Camilleri. Fino a uno dei più grandi dirigenti comunisti del secolo scorso, il segretario del partito comunista portoghese Alvaro Cunhal autore, con lo pseudonimo di Tiago, di parecchi romanzi gialli da cui la tv portoghese ha tratto una fortunatissima serie televisiva.
Insomma, il compagno Davide Pappalardo è in buona compagnia ed è anche per questo che ha fatto centro al primo colpo.
Davide Pappalardo “Milano Pastis” Nero Cromo 2015 pag.190.