L'utilizzo del marxismo quale strumento più che mai vivo d'interpretazione e cambiamento della realtà è la cifra fondamentale del nuovo libro di Domenico Moro Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, crisi secolare e euro, edito da Imprimatur.
di Fabio Nobile
Il testo di Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, crisi secolare e euro, coglie nella caduta tendenziale del saggio di profitto la causa delle crisi e, allo stesso tempo, la leva delle trasformazioni del capitalismo nel corso della storia contemporanea fino alla creazione del mercato mondiale. Si mette in luce quanto siano proprio i fattori antagonistici alla caduta del saggio di profitto, indicati da Marx nel terzo libro del Capitale, a determinare la grande capacità del capitale di auto-rinnovarsi e di non arrivare ad un “crollo” sistemico. Allo stesso tempo, si rende evidente quanto le stesse cause antagonistiche alla caduta del saggio di profitto siano alla base del ripetersi in forma sempre più allargata e profonda delle crisi economiche.
Un concetto, questo, molto importante proprio in relazione al ruolo determinante della soggettività rivoluzionaria nella possibilità di trasformazione e superamento del modo di produzione capitalistico, il quale non è destinato ad un esito predeterminato. Né in termini di crollo, né necessariamente verso una società di tipo superiore. L’analisi concreta svolta nel libro si concentra sul passaggio di fase dal capitalismo monopolistico di Stato al capitalismo globalizzato, a partire dagli inizi degli anni '90 fino ad oggi. Con questa lente di lettura il testo entra nella specificità della crisi italiana, superando con nettezza la narrazione che vuole gli sprechi, la corruzione e le inefficienze della “casta” quale causa dell'attuale situazione.
E', invece, proprio la necessità di aumentare la massa dei profitti e contrastare la loro caduta in percentuale sugli investimenti che ha spinto il capitale - in Italia in maniera particolarmente aggressiva anche per la presenza, nella fase precedente, di un forte movimento operaio che ne ha condizionato lo sviluppo - a costituirsi nella sua frazione dominante in impresa globale. Questo è avvenuto attraverso una spinta accentuata alle delocalizzazioni produttive, alle fusioni e accorpamenti societari internazionali, alle privatizzazioni, alla creazione di un mercato globale dei capitali, decretando la fine di una politica basata sulla crescita della domanda interna.
Nella sostanza, i destini della crescita interna e del Pil dei singoli stati-nazione vengono sganciati dalla crescita dell'impresa globale. Ad esempio, il fatturato di Fiat (oggi Fca) non è più legato alla domanda di auto in Italia ma a quella del mercato mondiale. In questo nuovo contesto, si spiega, viene disintegrato lo stesso blocco sociale che aveva sostenuto il keynesismo e la socialdemocrazia nella fase ormai superata. Questo non significa che si sposi la teoria della fine dello stato-nazione ma che la sua funzione di sostegno agli interessi dominanti si è modificata: da una parte, il singolo stato-nazione continua a sostenere la propria frazione del capitale transnazionale e, dall'altra, compete con gli altri stati-nazione per attrarre gli investimenti delle imprese globali. Nel libro tali cambiamenti vengono ben evidenziati arrivando a sottolineare la trasformazione delle caratteristiche dello stesso imperialismo nel XXI secolo.
Un imperialismo che andava a definirsi negli anni delle due guerre mondiali in “Imperi” chiusi e contrapposti tra loro. Oggi proprio il dominio dell’impresa globale rende le stesse dinamiche imperialiste meno rigide e, al momento, con schieramenti meno definiti rispetto al passato senza - e su questo Moro è molto netto - cadere nelle fantasie negriane sulla presenza di un potere globale e unico del capitale. Del resto, della confutazione di queste tesi si è incaricata anche la storia degli ultimi vent’anni, come è dimostrato dalle evidenti contraddizioni che contrappongono l’imperialismo euro-atlantico ai Paesi emergenti e dalla continua dialettica competitiva che si esprime all’interno dello stesso blocco “occidentale”.
Attraverso tale punto di vista si fa chiarezza sulla funzione dell'euro quale strumento delle élites capitalistiche europee per dotarsi di una valuta forte, che gli garantisca la capacità di adeguarsi alla concorrenza del mercato globale, e per imporre nei singoli Paesi UE una politica indirizzata al pieno dominio sulla forza lavoro e mirata alla riduzione dei salari diretti, indiretti e differiti. La critica all'euro e la necessità di un suo superamento vengono posti come riappropriazione popolare e democratica di alcuni dei gangli vitali dell'economia e della società ora completamente in mano alle élite.
Non si intende affatto inneggiare al nazionalismo ma evidenziare la necessità di riconquistare spazi ed agibilità per i dominati al fine di costruire un'alternativa politica e sociale di sistema. La stessa solidarietà internazionale tra i salariati europei - si evidenzia - è più difficile da raggiungersi con la presenza dell'euro che, invece, aumenta la competizione e le divisioni. Si evince con chiarezza, sulla base di una riflessione scientifica basata su di un ampio uso di dati ed elaborazioni statistiche, che senza un recupero di sovranità popolare non c’è capacità di riconquistare una capacità di lotta sul piano sovranazionale. Tenendo in considerazione questo aspetto - ossia la necessità di una dialettica tra elemento nazionale e sovranazionale - verrebbe da dire che senza la base e le fondamenta è complicato arrivare a costruire il tetto di un edificio.
Ma sono proprio la “crisi secolare" ed il caos sistemico, che derivano da quest’ultima fase di sviluppo globale così descritta, che evidenziano in maniera nitida i limiti del capitalismo, il suo fallimento e l’indispensabilità di una sua trasformazione. Su questo Moro indica con lucidità spunti per rilanciare un alternativa al capitalismo non come utopia astratta ma come realizzabile e razionale necessità storica dell'umanità.