La lotta di classe è una materia ibrida e dura, dura assai. Un groviglio, a tratti ripugnante, di risentimenti, di ideali, di sangue, di violenza e di liberazione. Free State of Jones di Gary Ross ha il merito di mostrarci sul grande schermo, per un attimo, tra cinepanettoni e solipsismi di varia qualità (bassa per Café Society di Woody Allen, piuttosto alta per Animali Notturni di Tom Ford), un momento forse unico nella storia disperata del sud degli Stati Uniti. Quello in cui i bianchi poveri sono riusciti, parzialmente e per poco tempo, a rompere la ragnatela ideologica del razzismo che da sempre li ha avvolti (e, Trump docet, ancora li avvolge non solo nel Sud). La violenza della guerra di secessione, la sua palese ingiustizia classista, fecero intravedere ai piccoli coltivatori bianchi chi fosse il vero nemico: non lo schiavo di colore che sudava come loro chino sui campi di cotone, ma il grande latifondista che viveva invidiato da tutti nella sua bella dimora neoclassica.
E, in effetti, Newton Knight nel 1862 è un contadino del Mississippi mandato in guerra dalla Confederazione degli Stati del Sud per gli interessi dell’aristocrazia schiavista del cotone. Una guerra che ricade in gran parte sulle spalle dei bianchi poveri, in quanto i possessori di schiavi in vario modo potevano essere esentati dal servizio militare. Knight, presa coscienza della natura del conflitto, diserta, torna a casa e forma insieme ad altri fuggitivi dall’esercito sudista e a schiavi scappati dalle piantagioni una piccola “armata” (pare di un centinaio di persone) che diede parecchio filo da torcere alla Confederazione fino a controllare gran parte dello Stato del Mississippi. Il gruppo si denominò Free State of Jones, appunto Stato Libero di Jones dal nome della contea di cui erano originari gli insorti. Il Nord, da parte sua, fece ben poco per aiutare i rivoltosi: d’altra parte gente che non faceva distinzioni di colore, ma che individuava nella proprietà la discriminante vera del conflitto, generava sospetti anche dalle parti di Washington.
La lotta fu durissima e nel film si mostra come i seguaci di Jones si ribellarono alle espropriazioni dei loro raccolti da parte dell’esercito confederato in rotta e come giunsero sino all’occupazione delle terre degli schiavisti e all’incendio dei loro raccolti di cotone. I ricchi fuggirono, ma ovviamente non poteva durare. La fine della guerra e l’occupazione nordista riportarono in varie fasi gli antichi proprietari sulle loro terre.
La storia ci dice che, in realtà, anche il periodo dell’occupazione militare nordista che pure avvantaggiò in qualche misura la popolazione di colore, non colpì affatto l’architrave del sistema schiavista, ovvero la grande proprietà terriera. Si limitò invece a dare il diritto di voto e di istruzione ai neri. Di certo, grandi passi in avanti, ma che lasciavano i bianchi poveri, sconfitti nella loro lotta contro i latifondisti, nella disponibilità delle politiche razziste. Di lì la nascita del Ku Klux Klan e quanto seguì.
Il recupero di questo piccolo episodio della storia americana già di per sé giustifica un elogio della pellicola ben diretta da Gary Ross e soprattutto il costo del biglietto. Ross, che finora si era contraddistinto piuttosto come ottimo sceneggiatore che come regista (nel 2012 ha diretto Hunger Games), mette in piedi un film aspro che non edulcora proprio niente, come accade invece spesso nella tradizione del film d’impegno sociale “made in Usa”: c’è la miseria dei bianchi e dei neri; c’è la violenza e la sopraffazione sui deboli di ogni categoria (donne in primis); c’è la compromissione del Nord nelle pratiche razziste e classiste per fare in modo che “ogni cosa cambi, perché nulla cambi”. Molto buona e originale la scansione dei tempi del film: l’azione bellica, ma soprattutto i momenti di riflessione, lo spessore dei dialoghi (curati dallo stesso Ross) e l’alternanza inaspettata tra la storia di Knight e quella del suo discendente che 85 anni dopo, alla metà del Novecento, viene processato per aver sposato una donna bianca, lui che aveva ancora un quarto di sangue nero nelle vene. La doppia storia non è una novità ovviamente, ma mi pare narrativamente convincente il fatto che il processo si palesi nelle pieghe della storia di Knight e della sua rivolta e non, come di consueto, all’inizio del film: una modalità che colpisce lo spettatore e che sottolinea maggiormente il peso della Storia sulle generazioni a venire. Buona anche la fotografia del francese Benoît Delhomme.
Tra le cose notevoli va sottolineata, poi, la prova gigantesca di Matthew McConaughey nel ruolo di Knight: a parte la sua inquietante somiglianza con il contadino insorto, l’attore conferma il suo talento interpretativo per ruoli difficili, da marginale e da ribelle, dopo la magnifica riuscita in Dallas Buyers Club del 2013. Ottimi anche tutti gli altri interpreti, tra i quali primeggia Gugu Mbatha-Raw, nel ruolo della seconda moglie di colore di Newton Knigth.
Un’ultima cosa: nel 1922 Knight, morto a 84 anni, venne sepolto in una collina vicino alla seconda moglie, benché le leggi razziste del Mississippi proibissero la sepoltura di bianchi e neri nello stesso cimitero. Sulla sua lapide campeggia una scritta: “Egli ha vissuto per gli altri”. Quanti altri vantano un titolo così nobile?