Dal liquidismo al socialismo, per una nuova lotta di classe

Come Hegel, Feuerbach e Marx hanno introdotto l’alienazione nella storia e come questa sia ancora la caratteristica fondamentale di cui tener conto per il progresso della nostra società.


Dal liquidismo al socialismo, per una nuova lotta di classe Credits: www.voxeurop.eu/it

“Società liquida”. Due parole, una sola realtà: il conformarsi del comportamento umano a modelli variabili, ma valenti ugualmente per tutti. Un tema in voga ai nostri giorni, senz’altro, questo dell’universalità del genere umano sotto ogni aspetto, che si fa applicazione di una costante tipica della condotta alla nostra quotidianità, questa forma di democraticismo iperbolico, sorta di uguaglianza a ribasso, di omologazione e appiattimento delle individualità senza più differenza, che ci vede tutti impegnati a standardizzarci; perché tutti uguali siamo tutti un po’ più uniti in questo mondo diviso, siamo tutti più vicini se a venir accorciate sono le distanze, e poco importa se parliamo di eliminare quelle ideologiche. In fin dei conti a mancarci è il nostro prossimo, e con esso la nostra stessa natura, questo conta, che insomma, siamo soli.

Questo stesso intendeva quel vecchio professore tedesco di Karl Marx quando parlava dell’alienazione!

Marx capì per primo, sulla storia dei processi materiali e dialettici, quello che Feuerbach aveva per primo capito dell’umanismo hegeliano: l’alienazione, quale costante del processo di ri-conoscimento di sé da parte dell’autocoscienza, che, prima di venir riconosciuta in quanto tale da se stessa, passa per il venir posta come altro-da-sé da un’altra autocoscienza, finendo coll’immedesimarsi in questa alterità per poter infine tornare a sé in piena consapevolezza di non esser mai stata se non questo processo di riconoscimento, appunto autocoscienza. In breve, non soltanto l’uomo s’aliena per potersi trovare, ma s’aliena perché perdersi è più facile (in quanto vien prima e quindi meglio) che trovarsi, e in ciò sta la predilezione dell’uomo feuerbachiano dello smarrirsi in dio, così prossimo all’uomo da sembrargli vero, ma tale perché da lui creato, senza che ora se ne renda più conto. Una dimenticanza che all’ottimismo metafisico hegeliano faceva subentrare il realismo umanistico di un pensiero rinnovato nell’ateismo come stile di vita, un atteggiamento, una “postura” intellettuale prima che una scelta effettiva. Marx diede ampio respiro al suo ateismo e ne fece una dottrina storica, materialistica e dialettica: materialistica, perché alla scienza dello spirito hegeliano si sostituiva l’analisi di classe, e dialettica, perché l’opposizione tra due realtà, il loro contrasto, era, ed è, l’unica maniera di porle in relazione senza che venga data identità – se son diversi, restano diversi e lottano fra loro!

La lotta faceva così il suo ingresso nella storia del pensiero, con la sua portata demistificante, rivoluzionaria; e faceva pure il suo ingresso nella storia dei fatti accaduti, nell’Ottocento, perché l’essenza del materialismo storico dialettico inebriava le masse operaie e contadine, alienate dal duro lavoro a cui venivano sottoposte perché il di esso prezioso frutto potesse venirgli sottratto: questa era, ed è, la logica del capitalismo, quel sistema totalitario che vale per tutti come “apparato usurpante”, metodo scelto per “risucchiare” al lavoratore la sua fatica per intero, nel doppio aspetto dell’attività produttiva e del prodotto finale. Marx intuì che la storia era ovunque popolata di realtà che fungevano come “l’altra autocoscienza” hegeliana, quella che funge per la tua da limite al riconoscimento, e capì che avevano tutte la stessa origine. Marx comprese che il problema del riconoscimento di sé era diventato per l’uomo non più solamente una costante esistenziale della sua vita, ma una costante sociale della sua storia, sicché l’autocoscienza di colui il quale incontra un limite insormontabile al suo sviluppo non è solo un altro uomo, ma è ogni altro uomo che lo coercide, e comprese che questi facevano un’associazione. A Marx si disvelò l’opposizione di classe: l’insieme degli individui che per interesse ostacolano lo sviluppo di tutti gli altri appartiene alla classe sociale che a quella di questi si contrappone. Perciò, la differenza ideologica sviluppata dalle due distinte classi non è una differenza che si può banalmente superare tentando di conciliare gli interessi, perché essendo una differenza primaria di interessi è la differenza che mette capo proprio a questa inconciliabilità! Eppure il mondo odierno sembra proprio caratterizzato da quella “società liquida” dove tutti abbiamo gli stessi valori, dove tutti facciamo gli stessi acquisti, dove tutti usufruiamo degli stessi sistemi e dove non riusciamo a scappare da queste medesimezze senza che ci paia di rinunciare pure a noi stessi, rinunciando a questi caratteri!

In effetti il capitalismo ha divorato la nostra originalità con la nostra individuale singolarità, perché ha soggiogato questa all’interesse produttivo unico del proprio modello economico: l’arricchimento tramite il denaro della classe che lo detiene, la classe borghese. Allora non soltanto siamo stati tutti vittime di un’espropriazione materiale ai nostri danni, con lo sfruttamento del lavoro salariato, ma pure di un’espropriazione spirituale, ovvero l’essenza del lavoro – che è l’essenza umana – contenuta nel prodotto finale di lavoro che il capitalismo destina al mercato. Dov’è finita la nostra autocoscienza di classe (la marxiana classe in sé e per sé)? È finita nel “calderone” del mercato globale, reificandosi in coscienza-d’altro, portandosi dietro la consapevolezza di ognuno per ognuno di noi, facendo sì che dal riconoscerci in quella folla inferocita, di ottocentesca memoria, a caccia del proprio spazio nella storia, carica di pretese e cognizione di causa, ci riducessimo a riconoscerci apparentemente in quella massa equivoca, incolta e alienata che costituisce la “melma” sociale del mondo imborghesito: i consumatori.

Il capitalismo si regge sul modello del consumismo, e noi, dimentichi di noi stessi, consumiamo (dopo averli prodotti), gli stessi valori, gli stessi oggetti, gli stessi spazi, persino la stessa “aria” per così dire, della classe borghese. Ci siamo adeguati, abbiamo lasciato che il giudizio moralizzante dell' “altra autocoscienza” hegeliana, quella che ci dice che cosa siamo prima che il nostro saper-d’essere sia completato, ci mettesse a nudo, ci scarnificasse fino a levarci colla pelle pure l’anima! Ci ritroviamo perciò a vivere in un mondo bigotto e fatto di prodotti di consumo, sicché tutto si svolge per noi ad un ritmo frenetico di metabolizzazione;

l’ “indigestione sociale” può solo accompagnare! Viviamo chiusi in una “bolla speculativa”, con l’illusione di socializzare: non è un caso che la comunicazione si sia resa interamente informatica, quando il mondo della finanza è stato il primo a farsi tale! A dettare le leggi dello sviluppo, in ogni ambito del vivente, è il modello voluto da quella classe che funge per la storia collettiva come il dio di Feuerbach funge per l’esistenza singolare: come un potente moralizzatore, alienante, insovvertibile finché lo si pensi tale, ma falso e ripugnante, come ripugnante è la vita di chi inconsciamente l’ha concepito. Basta allora che le masse, “diluite” nel mondo odierno, tornino a ricondurre la frattura di classe nella quotidianità, tornino cioè a ricordare a chi le sfrutta chi è che le alimenta, perché tornino a fare il loro ingresso nella storia, tornando così a ridare consapevolezza di sé a chi oggi, venendo derubato di se stesso dalla proprietà privata del lavoro, non la possiede. Non manca forse nella nostra realtà di tornare a predicare la differenza anziché l’identità? Non ci manca forse di poter dire che lo stile di vita e le norme di condotta del nostro nemico non ci appartengono, e quello è proprio un nemico per via delle sue imposizioni ai nostri danni? Non è un segno del progresso l’assoluta uguaglianza di tutti gli uomini; quello è il segno del taylorismo! Il progresso umano e storico lo si avrà sul serio solamente quando sarà cessata la dialettica tra interessi contrapposti, quando cioè si potranno porre in relazione di identità gli uomini, senza lotta fra loro, affinché l’uno non passi attraverso l’altro per ri-conoscersi, ma ci si veda immediatamente. L’interesse borghese, egoista e prevaricatore, fa sì che ogni uomo sia altrettanto. L’interesse comunista, paritario e mutuale, fa sì che siano rispettate da tutti le volontà di tutti. Le singole volontà sono così radicalmente differenti che quando si attuano pienamente sono irriducibili le une alle altre; ma in quanto tutte parimenti dignitarie, il loro sviluppo non può che avvenire nel rispetto reciproco e nella giustizia collettiva, che solamente uniscono sotto il segno dell’immediatezza, quella identità costituita dal ritrovare la propria essenza espressa già nell’altro; autocoscienza immediata, senza più perdita, senza più smarrimento, senza più “travaglio dialettico”. O fine delle differenze di classe, come avrebbe detto Marx. Per questo, perciò, la democrazia borghese non è il desiderio dell’uomo veramente giusto; questi desidera che la differenza sia valorizzata, sostituendo all’uguaglianza la pariteticità.

E se qualcuno volesse obiettare che le masse da sé non possono farsi, dimentica costui che il genio che dà forma migliore alla realtà non nasce fuori di questa: solamente chi si ribella, all’ingiustizia e all’oppressione, può dar vita ai suoi talenti. In un mondo grigio e imbarbarito dalla presenza della disumanità come norma della mondanità, non c’è intelligenza che si sviluppi, ci sono solo finti ideologi, fenomeni da baraccone!

Senza un ritorno alla ferocia intimamente sentita contro il nemico borghese, coalizzato con la tecnologia e coi suoi simili per dividere il fronte opposto degli oppressi; senza un’efferatezza che ci riconduca all’odio di classe e all’odio avverso agli strumenti dell’oppressione, non ci mancherà soltanto un’intelligenza che faccia progredire la folla riunitasi per l’occasione, ma ci mancheranno pure degli strumenti nostri per portare avanti la lotta, una tecnologia proletaria e antiborghese. È facile vedere allora, distopicamente lo sviluppo contemporaneo: si dirà che in fin dei conti la tecnologia giova, e giova sì, ma a chi la detiene; e il fatto che ogni cosa, dalla pubblicità ai social network, sia gestita oggi da un sistema totalitario di potere, perché totalitaria è la classe che lo detiene e totalitario è il suo interesse, è ovviamente preoccupante. Ricordiamoci perciò, laddove trovassimo in questa nostra “società liquida” l’occasione per “illanguidire” le distanze ideologiche e “ammorbidire” la differenza di classe, che ci sono sia aspetti positivi che negativi della nostra contemporaneità borghese: ma quelli positivi sono tutti del nemico e quelli negativi sono tutti nostri!

04/03/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Giacomo De Fanis

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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