Il gran finale della campagna elettorale richiama alla memoria l’ultima scena di Zabriskie Point, il film di Antonioni. Tremate, tremate Governanti inetti: populisti di tutto il mondo unitevi. Gli operatori dell’informazione fanno ammenda. Per poco. Hanno già iniziato conversioni e ad effettuare i primi salti sul carro del vincitore.
Trump… Trump… USA, USA! “È un trionfo, è anche uno shock!” intitola il New York Times. La kermesse post elettorale segue le procedure tradizionali. Il Presidente eletto elogia l’avversaria sconfitta che fino a due giorni fa voleva mandare in galera e invita tutti a rimarginare le ferite da lui stesso aperte con una campagna elettorale grondante di insulti e vilipendi degli avversari e dei dissidenti repubblicani. E naturalmente si appella all’unità della nazione tutta. Più amarognolo il discorso di concessionedell’ex-first lady, ex senatrice, ex segretaria di stato, parole e parole sui valori da preservare ma che rievocano sotto traccia l’italico destino cinico e baro. Buon ultimo Barak Obama che insieme a Michelle aveva profuso impegno ed eloquenza per la signora che avrebbe dovuto affidare alla storia il suo primato politico perseguendo le stesse direttive da lui enunciate e male applicate per otto anni. Gran parte del discorsetto pronunziato nel giardino delle rose della Casa Bianca è stato così dedicato ad una difesa del suo operato ed alla negazione dei fallimenti che lo hanno contraddistinto. Fallimenti che hanno contribuito alla sconfitta della stessa signora.
Barack Obama potrebbe ora apporre a questi suoi fallimenti un minimo ma importante riparo con un atto di generosità: concedere un pardon, una grazia presidenziale ai detenuti politici negli Stati Uniti, primi fra tutti Mumia Abu-Jamal, il gionalista afro-americano in carcere dal 1982 ed ora in fin di vita, Leonard Peltier, il pellerossa incarcerato nel 1977, Chelsea (Bradley) Manning del Wikileaks - in una prigione federale dal 2013 - che ha tentato tre volte di suicidarsi. Dubitiamo che il Presidente sia capace di gesti generosi del genere alla fine del suo mandato.
Dureranno intanto ben poco i mea culpa dei commentatori politici e soprattutto dei mass media statunitensi per non aver valutato e previsto gli effetti della delusione e della rabbiosa ostilità di una parte dell’elettorato attivo contro l’establishment che ha prodotto il cataclisma Donald Trump – qualcosa di molto simile all’ultima scena di “Zabriskie Point”, il film di Michelangelo Antonioni.
(Un atto di immodestia: vedere “Considerazioni inattuali n. 88” del 3 marzo 2016 dal titolo “Trump alla Casa Bianca” dove si riteneva ancora improbabile ma più possibile di prima la vittoria del cialtrone repubblicano dovuta anche ad una Clinton “Giovanna d’Arco senza virtù e compromessa da trascorsi negativi e quanto mai equivoci”).
Perché dureranno poco le resipiscenze e le autocritiche? Perché prevarrà il vecchio adagio del malcostume giornalistico USA “If you can’t lick ‘em, join them”, se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro. Si sono già verificate le inversioni a 180 gradi: prima tra tutte quelle della CNN, da anni in rovinoso declino, che abbandona la sua asettica e fittizia neutralità e preannunzia un cambiamento di registro da parte di Trump già deciso e che diventerà radicale il 20 gennaio 2017 quando entrerà nell’ufficio ovale di Pennsylvania Avenue: il neo eletto verrà cioè condizionato dalle sane istituzioni democratiche del sistema e dall’assunzione di responsabilità finora ignorate per via di un’esasperata campagna elettorale. Non è vero che le donne dovranno rinunziare ai loro diritti, tornare ai fornelli e rendersi più disponibili al macismo trionfante nella repubblica stellata. Qualche correzione forse alle unioni di fatto, ai matrimoni gay, all’aborto, alle pari opportunità, ma nulla di drastico e sostanziale. La politica estera e le aperture alla federazione russa di Putin? Ma il neo-presidente non è già impegnato ad aumentare a dismisura il bilancio della difesa? I ventinove milioni di nuovi posti di lavoro? Basterà mantenere bassi i salari e promuovere l’ammodernamento delle infrastrutture, ridurre con qualche dazio le importazioni senza guerre commerciali. Gli alleati della NATO possono tranquillizzarsi, basterà che aumentino i contributi finanziari alla difesa comune e via dicendo.
Per concludere alcuni dati sul voto dell’otto novembre di cui non si trova traccia sui mass media USA e su quelli europei. È saltato il mitico “balance of powers” del sistema tra poteri esecutivi, legislativi e giudiziari. Trump dominerà un Senato ed una Camera dei rappresentanti a maggioranza repubblicana amica e sodale, ridurrà gli oneri fiscali con decreti esecutivi che aumenteranno il già astronomico debito pubblico, e nominerà un magistrato ultraconservatore al posto vacante della Corte suprema (avremo così cinque giudici dell’ultra destra e quattro di destra moderata).
Pochi dati sull’aritmetica dei risultati elettorali che a livello ufficiale minimizzano o ignorano del tutto il fenomeno dell’astensionismo, una peculiarità da primato del sistema USA. Su una popolazione che supera i 321 milioni gli aventi diritto al voto sono 240 milioni, quelli che lo hanno esercitato per via della registrazione obbligatoria sono stati 122 milioni, 58 milioni e rotti per Trump, forse a conteggi ultimati qualche migliaio in più per la Clinton e 5 milioni 970 mila per gli indipendenti che dovranno attendere mesi prima di sapere a chi sono andati (è il Collegio Elettorale a trasformare un’eventuale maggioranza minima nei suffragi nazionali della candidata democratica in una vera e propria debacle: sono 290 i delegati del collegio che hanno assegnato la vittoria a Trump sui 228 concessi alla Clinton). Se si tiene presente l’alto numero degli astenuti che non esercitano il loro diritto di voto per ostilità allo establishment come gli afro-americani perché derivano questa ostilità dalla loro estraneità alla supremazia sistemica dei bianchi, il risultato vero è che il signor Donald Trump è stato eletto con il 25 per cento dei voti. Nei prossimi giorni si farà un gran parlare dei flussi elettorali, della defezione in campo democratico dei giovani sostenitori del socialista Bernie Sanders, del voto ispanico, di quello dei bianchi anziani e acculturati. Non si parlerà o si parlerà ben poco della lobby ebraica anche se il Primo Ministro Netanyahu ha proclamato Trump un vero amico di Israele. È una lobby ovviamente legittima che esercita una notevole influenza grazie alla sua devozione alla causa ed alla sua grande abilità. Non indica le sue divergenze o ostilità per un candidato alla presidenza o assessore comunale perché indifferente o contrario alle repressioni sanguinose della nazione palestinese, ma estende un appoggio ufficiale o ufficioso a qualsiasi suo avversario politico anche se poco presentabile nel contesto elettorale americano.
Comunque sia siamo entrati in Europa e nel mondo nella nuova era trumpista: le turbolenze saranno certe ed inevitabili. Allacciamo le cinture.