Occorre in primo luogo difendere, senza timore, la storia del partito comunista in Italia da ogni attacco ipocrita e ideologico che proviene dall’ideologia dominante espressione della classe dominante. Da questo punto di vista non si può fare nessuna concessione al pensiero unico dominante che tende naturalmente a demonizzare la nostra storia. In caso contrario si finirebbe inevitabilmente per subire l’egemonia della blocco sociale al potere.
D’altra parte, nella prospettiva del fine di cui il partito comunista costituisce il mezzo – la rivoluzione, la transizione al socialismo e la costruzione di una società comunista – è necessario che i comunisti facciano un bilancio necessariamente critico e, in parte, autocritico. Dal momento che gli scopi ultimi non sono conseguiti diviene indispensabile comprendere gli errori che sono stati compiuti nel nostro passato per evitare di ripeterli in futuro, il che sarebbe davvero imperdonabile. Anche perché, considerata in modo realistico l’attuale situazione non può che apparire catastrofica, dal momento che nonostante il capitalismo sia più in crisi che mai, le forze comuniste non sono mai state così deboli e divise.
Peraltro, dal punto di vista del marxismo, la storia costituisce la scienza per eccellenza. Da questo punto di vista vanno innanzitutto rigettate le posizioni dogmatiche, ossia i giudizi formulati senza tener conto del fatto che la verità è necessariamente figlia del tempo e della storia. Occorre quindi rigettare tutte le critiche ideologiche provenienti dalle classi privilegiate e dai loro lacchè, in quanto si fondano su pregiudizi o pseudoconcetti come quello di totalitarismo. Allo stesso modo, vanno rigettare le posizioni estremiste di sinistra che tendono a condannare praticamente tutta la storia del comunismo in Italia denunciando una presunta continuità che avrebbe portato da Gramsci ai liquidatori della Bolognina. Tanto più vanno liquidate come apologetiche, ideologiche e antistoriche le tesi opposte, dei riformisti, che tendono a vedere una piena continuità, in senso questa volta positivo, dal Partito Comunista d’Italia all’intera storia del Partito Comunista Italiano, escludendo solo i definitivi liquidatori di tale esperienza storica.
Innanzitutto bisogna criticare le posizioni borghesi e revisioniste che condannano lo stesso atto di nascita del Partito Comunista d’Italia. Da questo punto di vista, al contrario di quanto sostenuto dal senso comune dominante, si potrebbe al limite criticare, al contrario, il ritardo con cui si viene a formare anche in Italia il Partito della rivoluzione, ovvero subito dopo che la precedente fase rivoluzionaria, il biennio rosso, è ormai sfumata, mentre si rafforzano sempre di più le forze della reazione fascista.
Da questo punto di vista non ci possono essere dubbi dal punto di vista del socialismo scientifico, in quanto tutti i grandi esponenti del marxismo hanno sostenuto la necessità dello spirito di scissione nel momento in cui si ha la forza necessaria e sufficiente alla realizzazione del partito comunista, rompendo con i riformisti. La soluzione socialdemocratica – ovvero la convivenza in un solo partito della prospettiva proletaria del socialismo scientifico, con il socialismo utopistico e con i sinceri democratici piccolo-borghesi – ha senso solo in fasi di estrema debolezza delle forze rivoluzionarie, quando per esempio non sono in grado di eleggere neanche un deputato in parlamento.
D’altra parte, non è possibile astrarre dalla storia e non cogliere la profonda discontinuità fra la prima fase di vita del Partito Comunista d’Italia, sotto la direzione di Bordiga, e la seguente sotto la direzione di Gramsci. È un dato di fatto che la direzione opportunista di sinistra del PCd’I sia stata duramente criticata dalla Terza internazionale e dallo stesso Lenin. Senza contare gli errori gravissimi dell’estremismo, “malattia infantile del comunismo”, nell’analisi del fascismo e nella prassi politica indispensabile a contrastarlo.
Non a caso la Terza internazionale convocherà Gramsci proprio con lo scopo di sostituire la fallimentare direzione degli opportunisti di sinistra, prima della completa conquista del potere da parte della reazione fascista e la messa fuori legge dei comunisti. Anche in questo caso, al massimo si potrebbe obiettare che la lotta interna per portare Gramsci e il gruppo dell’“Ordine Nuovo” alla guida del Partito, nel 1926 con il congresso di Lione, sia risultata tardiva. Dal momento che alla nuova direzione non sarà dato il tempo da parte del nemico di classe di sviluppare una opposizione reale alla reazione fascista. Non a caso immediatamente dopo il congresso di Lione si affermerà lo Stato totalitario fascista che, altrettanto immediatamente, fece arrestare Gramsci e condannò alla illegalità i comunisti.
Si dovrebbe riflettere sugli indubbi errori della successiva direzione del Partito dopo l’arresto di Gramsci, denunciati a ragione da quest’ultimo e da Terracini. Indubbiamente Gramsci, ancora una volta in linea con la posizione di Lenin, metterà, invano, in guardia dalla catastrofe che avrebbe prodotto l’insanabile spaccatura prodottasi nel partito della rivoluzione e di conseguenza nel comunismo internazionale. Altrettanto corrette sono state le critiche di Gramsci e Terracini alle posizioni opportuniste di sinistra affermatesi durante l’età staliniana che hanno portato a politiche sostanzialmente fallimentari come quelle del socialfascismo.
D’altra parte bisognerebbe considerare quali margini, oggettivamente, avrebbe avuto di sopravvivere la direzione in esilio del Partito Comunista d’Italia se avesse esplicitato i propri dubbi sugli eccessi più rovinosi dell’età staliniana, nella tragica stagione delle grandi purghe, che porta a conclusione lo scontro apertosi fra le diverse anime del Partito bolscevico, che rischiava di provocare una rovinosa guerra civile. Ciò non toglie che l’aver messo in minoranza Gramsci e Terracini, nonostante avessero colto i principali errori della direzione staliniani di quegli anni, abbia costituito un oggettivo arretramento per il Partito Comunista d’Italia.
Allo stesso modo non si può certamente negare la portata della svolta di Salerno operata da Togliatti non appena tornato in Italia dal lungo esilio. Svolta che significava di fatto l’abbandono della linea rivoluzionaria del Partito Comunista d’Italia. Anche in questo caso bisognerebbe considerare quanto margine per un’azione più efficace avrebbe avuto non operare la sopra menzionata svolta, vista la scelta della direzione staliniana di sacrificare l’Internazionale all’alleanza con gli imperialisti angloamericani per sconfiggere il nazifascismo e considerato lo sbarco degli Alleati nell’Italia meridionale. Da questo punto di vista sarebbe necessario uno studio comparato fra le diverse strategie della resistenza e dei partiti comunisti italiano, jugoslavo e greco. D’altra parte in questa fase la svolta di Togliatti era stata accettata anche dalla componente più di sinistra del partito.
Le cose cominciano a mutare con la seguente svolta, ancora più decisiva, operata dalla maggioranza togliattiana con l’abbandono del Partito ©omunista d’Italia leninista e gramsciano, in funzione della creazione di un partito non più di quadri, ma di massa. Il partito nuovo, che da sezione italiana dell’Internazionale comunista – ormai sepolta dalla direzione staliniana – diviene Partito Comunista Italiano, rinuncia ben presto, per aprire ai cattolici, all’unità ideologica del partito sulla base del marxismo e del leninismo. Senza che questa nuova significativa cesura con la tradizione leninista e gramsciana porti a una reale riabilitazione della democrazia interna del partito, ovvero il ristabilimento del centralismo democratico, sospeso sine die a seguito della rivolta di Kronstadt. In tal modo, nel secondo dopoguerra, l’opposizione di sinistra alla linea sempre più prudente e meno rivoluzionaria di Togliatti, opposizione sostenuta dalla maggioranza dei partigiani e fomentata dalla stessa direzione staliniana dell’Unione sovietica, non può organizzarsi.
Non a caso, dopo la morte di Stalin e la rapida affermazione della destra del Partito in Unione sovietica, la maggioranza togliattiana ne approfitta per mettere definitivamente all’angolo l’opposizione di sinistra che faceva capo a Secchia. In tal modo il Partito Comunista Italiano si allontana sempre di più dalle sue origini rivoluzionarie provenienti dal Partito Comunista d’Italia. Così, dopo il fatidico 1956, il Partito Comunista Italiano aderirà pienamente alla linea della coesistenza pacifica e della distensione di Kruscev, abbandonando la prospettiva della rivoluzione in nome di una politica di riforme di struttura e della via elettorale al socialismo. Tanto che il Partito Comunista Italiano diverrà il principale sostenitore del compromesso trovato nella Costituzione messo in discussione dall’inasprirsi della guerra fredda. Così il Partito Comunista Italiano si porrà alla destra del movimento comunista internazionale, su una linea antitetica a quella del Partito Comunista Cinese sotto la direzione dell’ala sinistra maoista.
Questo ritorno, di fatto, a una linea socialdemocratica diviene sempre più evidente con il testamento di Togliatti e con la successiva direzione di Longo che proseguirà, in modo sempre più deciso, in questa direzione. In tal modo il Partito si dimostrerà di fatto disinteressato a dare una consapevole direzione ai movimenti spontanei sorti alla fine degli anni Sessanta, fino a farsi trovare del tutto impreparato dinanzi al secondo biennio rosso del 1968-69. Da qui una nuova pesante rottura del movimento comunista, con le tendenze rivoluzionarie che accuseranno il Pci di essere ormai un partito revisionista. D’altra parte tali componenti potenzialmente rivoluzionarie, anche per un tendenziale estremismo, non riusciranno mai a unirsi e a creare un nuovo Partito Comunista d’Italia dinanzi alla metamorfosi in senso sempre più socialdemocratico del Pci.
Così, mentre le tendenze a sinistra sfoceranno nel settarismo e ricadranno nella malattia infantile del comunismo, nel Pci durante la direzione Berlinguer si porterà a compimento la transizione socialdemocratica del Partito, con il compromesso storico – che avrebbe dovuto portare il Partito Comunista a divenire una componente di minoranza di una coalizione volta ad amministrare un paese imperialista – con l’adesione al polo imperialista europeo e alla stessa Nato, secondo la linea ormai liquidazionista del sedicente Eurocomunismo. La stessa minoranza radicale ingraiana e filosovietica cossuttiana verranno sempre più emarginate, mentre si affermerà progressivamente la componente migliorista che mirava, addirittura, a una fusione con il Psi craxiano. Al punto che, dinanzi al rischio di una completa liquidazione dell’eredità comunista, seppur tardivamente l’ultimo Berlinguer si vedrà costretto a prendere le distanze dai miglioristi capeggiati da Napolitano.
Tuttavia, questo tardivo tentativo di chiudere la stalla avvenne quando ormai, sostanzialmente, i buoi erano scappati e così, dopo la morte di Berlinguer, i liquidatori ebbero sempre più la preminenza, tanto che al momento dello scioglimento il Partito non si trasformerà in un partito socialista o socialdemocratico, ma in un Partito Democratico di Sinistra, passando definitivamente dalla estrema destra del movimento operaio, alla sinistra dello schieramento imperialista. Posizione presto abbandonata per riposizionarsi, con la successiva metamorfosi in senso democratico, su una posizione centrista dello schieramento borghese, tanto da divenire di fatto uno strumento di egemonia sulla società civile del blocco sociale dominante.
D’altra parte, il significativo Movimento per la Rifondazione Comunista fallirà ben presto il suo obiettivo, per il prevalere della componente gorbacioviana, che ha portato a istituzionalizzare il partito sino a farne un soggetto disponibile ad amministrare, peraltro da posizioni minoritarie, uno Stato imperialista. Ciò non poteva che portare a una serie di scissioni e alla perdita del proprio blocco sociale di riferimento. D’altra parte, gli scissionisti non sono stati in grado di riunirsi e di rilanciare la prospettiva del Partito Comunista d’Italia, prevalendo nuovamente il settarismo tafazziano.