In questa nota si sosterrà che ci sono validi motivi per ritenere che lo smart working sopravvivrà oltre il tempo della pandemia. Esso, è, infatti, uno strumento a disposizione dei capitalisti per “destrutturare, frammentare e atomizzare” la residua resistenza della classe dei lavoratori proletari, nella lotta per la difesa delle conquiste che essi hanno realizzato nel passato [1].
La pandemia, dovuta al virus Covid-19, ha incentivato il ricorso allo smart working. Ciò, come è noto, è dipeso, principalmente, dal fatto che lo smart working può essere svolto senza vincoli stringenti di spazio e di tempo, permettendo il distanziamento richiesto per ridurre il rischio di contagio.
Ora, all’interno della disputa sui vantaggi e gli svantaggi dello smart working ci si domanda: “dopo la fine della pandemia lo smart working continuerà a svilupparsi oppure ritornerà ad essere un fenomeno relativamente marginale come nel passato?”
Per dare una risposta a questo quesito, bisogna analizzare nel dettaglio la natura dello smart working [2].
Nel dibattito tra gli “addetti ai lavori”, alcuni autori, di orientamento neo-liberista, sostengono che lo smart working si svilupperà ancora di più nel post-pandemia, poiché esso è uno strumento che soddisfa il bisogno naturale e primario di auto-organizzazione del lavoratore, bisogno che il lavoro tradizionale (taylorista-fordista) non è in grado di soddisfare perché è etero-organizzato dal capitalista. Con lo smart working – sostengono tali autori – il lavoratore si trasforma progressivamente in “un imprenditore di sé stesso”, vale a dire diventa un lavoratore che decide su quando lavorare (la mattina, il pomeriggio, la sera) e su dove lavorare (in ufficio, a casa), senza essere sottoposto ai vincoli dell’autocrazia del capitalista, come nella fabbrica fordista o nell’ufficio tradizionale delle epoche passate. In altri termini, il lavoratore “post-fordista” tende a diventare un lavoratore “autonomo”. Inoltre, il lavoratore “agile” ha un altro vantaggio: egli recupera il tempo perso per gli spostamenti casa-lavoro, che può dedicare ai suoi hobby o alla famiglia. Anche il datore di lavoro ha, naturalmente, le sue convenienze [3]. Risparmia sui costi dell’immobile (affitto) dove si svolge il lavoro (ufficio, fabbrica) sui costi delle pulizie, sui costi per il riscaldamento ecc. che vengono scaricati sul lavoratore a domicilio che sceglie la sua abitazione come luogo di lavoro.
Già per questi “buoni” motivi, lo smart working è un rapporto di lavoro che, se non è contrastato dai “lacci e lacciuoli” che sorgono dalle lotte delle organizzazioni dei lavoratori, se si applica, cioè, la formula magica del neo-liberismo “benessere = mercato + democrazia”, allora lo smart working molto probabilmente, sopravviverà e si svilupperà anche dopo pandemia [4].
Un importante manager, così si esprime in proposito: “Desidero esprimere la mia riconoscenza […] ai nostri ingegneri, […] , che, letteralmente da un giorno all’altro, hanno consentito a tutti i dipendenti di lavorare tranquillamente da remoto. Tutte queste esperienze risulteranno preziose per il futuro, specialmente in un’epoca in cui il nuovo modello operativo digitale [fabbrica 4.0] è destinato a diventare la normalità” [5].
Questa è, in breve, l’essenza della tesi di chi si ispira alla filosofia politica “neo-liberista” applicata al mercato del lavoro, centrata su: “benessere = deregulation + liberalizzazioni + massima flessibilità nell’uso della forza lavoro” (Jobs Act).
Ora, lo smart working, molto probabilmente aumenterà e si diffonderà, ma non per i motivi che sostengono gli autori di ispirazione neo-liberista.
La natura apologetica della tesi neo-liberiste è, difatti, fin troppo evidente: essa poggia, come dice Marx, nel II volume delle Teorie sul Plusvalore, “sulla falsificazione dei più semplici rapporti economici” [6].
Per mostrare gli aspetti essenziali della apologetica neo-liberista, bisogna, perciò, evidenziare, innanzitutto, dove si annidano le principali “falsificazioni” della realtà, che essa introduce.
Se domandiamo a un giuslavorista (un giurista competente): “che cosa si intende di preciso con smart working?” egli risponde che la legge n. 81/2017 definisce il “lavoro agile” o smart working come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze (lavoro subordinato, ovvero lavoro non autonomo).
Si noti che questa definizione di “lavoro agile” fa esplicito riferimento ad una forma di lavoro eterodiretto. Il “lavoro agile” non è, perciò, lavoro autodeterminato, come tendono a far credere gli ideologi del neoliberismo. Non è, cioè, un ”lavoro derivante da un rapporto di prestazione professionale con partita IVA” come quello di un medico, di un avvocato, di un idraulico, di un elettricista ecc.
Usando l’apparato concettuale introdotto nella teoria economica da Marx, si può dire che lo smart worker non vende il suo lavoro come un libero professionista, ma vende la sua forza lavoro, che, in quanto merce, ha un valore d’uso e un valore (di scambio). Come è noto, per “forza lavoro” Marx intende “l’insieme delle attitudini fisiche ed intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente dell’uomo e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso (cose utili) di qualsiasi genere” [7].
L’uso della forza lavoro, deciso e controllato dal capitalista, è il lavoro stesso. Il capitalista paga al lavoratore il “giusto salario”(valore) per avere in cambio il diritto all’uso temporaneo della forza lavoro e il diritto ad intascare il prodotto che deriva dal suo uso.
Ciò premesso, il lavoro agile, inteso correttamente come uso della forza lavoro, si attua con le seguenti modalità.
1) È svolto in assenza di precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro. Perciò, la flessibilità della prestazione è massima. Questo è il motivo per cui si definisce questa tipologia di lavoro come “lavoro agile”.
2) È remunerato con un trattamento economico (in genere salario a cottimo) non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda (Parità di trattamento economico tra lavoro in presenza e lavoro a distanza – Art.20).
3) È svolto nel rispetto dell’articolo 4 della legge n. 300/1970, come recentemente modificato dal Jobs Act, sui controlli a distanza (Potere massimo di controllo del datore di lavoro sulla prestazione).
4) È svolto in modalità che è regolata da un accordo individuale. Tale accordo, scritto di fatto dal capitalista, determina le condotte – connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali – che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari (massimo potere sanzionatorio – disciplinare del datore di lavoro) (Potere di controllo e disciplinare – Art. 21)
Nel complesso, quindi, lo smart worker è un lavoratore che è ancora sottoposto al comando e al controllo ferreo del capitalista (etero-determinazione). Il lavoratore non è, quindi, un libero prestatore d’opera, come apologeticamente sostiene il pensiero neo-liberista. Non è, cioè, un “imprenditore” di se stesso.
Occorre precisare, per concludere su questo punto, che la legge 81/2017, disciplina, oltre allo smart working, anche il lavoro autonomo (quello dei professionisti, delle partite Iva e dei freelance).
Sul piano formale il lavoratore autonomo non è un lavoratore subordinato come lo smart worker. Nei fatti, tuttavia, il lavoratore autonomo, sottoposto a ricatto occupazionale, si comporta come un lavoratore subordinato. Il popolo delle partite IVA si è progressivamente trasformato in quello di lavoratori subordinati, mascherati da lavoratori autonomi. Si dice infatti che quello delle partite IVA è un “lavoro autonomamente subordinato”. La maggior parte dei lavori che appaiono, formalmente, come non dipendenti, nella sostanza hanno due finalità principali.
1) Servono ad occultare la crescita del comando del capitale in una parvenza di autodeterminazione.
2) Servono, inoltre, per ridurre i costi e oneri del lavoro (contrattuali, pensionistici, assicurativi e di fine rapporto). Tali costi sono, infatti, scaricati sul lavoratore a partita IVA [8].
Che la realtà effettiva non sia quella descritta dagli ideologi del neo-liberismo lo si può dedurre anche osservando ciò che concretamente fa uno smart worker.
Per illustrare il significato concreto e le implicazioni della definizione giuslavorista di “lavoro agile”, appena commentata, consideriamo, un prototipo di produttore di software”(vale a dire un prototipo di smart worker).
Il lavoro compiuto da un “proletario del digitale” (gli operai 2.0 o i softwaristi) è descritto qui di seguito.
“Essi (softwaristi) lavorano al computer a cottimo (misurato in termini di righe di codice di un software per ora), senza orari né tutele, per realizzare video, software, siti web ecc. Sono i manovali del nuovo millennio che lavorano in assenza di precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro. Occhi aperti davanti al monitor, mano sul mouse, comandi da eseguire su un software. Se oggi essi chiedessero a Charlie Chaplin di raccontare il proletario digitale contemporaneo, i suoi Tempi Moderni, forse li illustrerebbe con uno «schiavo del click click» seduto di fronte al computer, più che tra gli ingranaggi di una catena di montaggio.
In altri termini, i softwaristi sono quei «manovali moderni» che tengono in piedi i siti web, che sudano perché film e serie tv arrivino in tempo nei nostri salotti. Nel mondo la loro schiera conta già molti milioni di addetti; Le condizioni proposte da questi impieghi non possono certo paragonarsi al sudore dell’industria pesante. Ma, dietro l’apparenza, si celano spesso mansioni ripetitive, meccaniche; in una parola: alienanti, che rendono possibile l’applicazione del Taylorismo Digitale. I diritti conquistati nel passato, poi, sono spesso solo un ricordo: i galoppini della Rete sono abituati ad andare avanti senza orari, a cottimo, a sgobbare da casa, come le sarte del lavoro a domicilio di una volta” [9].
In altri termini, il softwarista può lavorare nel luogo che preferisce, con lo strumento che preferisce (PC o altro strum0ento, in comodato d’uso) e negli orari che preferisce, ma deve raggiungere entro un tempo prefissato, gli obiettivi scelti dall’azienda capitalistica che lo ha assunto alle sue dipendenze, altrimenti niente cottimo o premio di produttività. Come ogni lavoratore alle dipendenze di un capitalista, in cambio del salario per vivere, il softwarista è costretto a cedere al capitalista il valore d’uso della sua forza lavoro.
Quindi, i fatti, come quelli ora descritti, mostrano una situazione diversa da quella sostenuta dall’ideologia neo-liberista. Lo smart worker è libero di scegliere il luogo dove lavorare; è libero di decidere quando lavorare. Ma, gli obiettivi (gli standard) strategici sono decisi e pianificati dal capitalista, da cui lo smart worker dipende e al quale è subordinato.
Il capitalista standardizza il prodotto (output del processo produttivo) e la sua qualità, mediante la specifica dei risultati che si attende dal lavoratore. Pianifica, cioè, l’obiettivo che il lavoratore deve realizzare e poi controlla se il lavoratore lo ha realizzato o meno. Il lavoratore è, cioè, come un conducente di taxi di Huber. “Ai conducenti di taxi – dice Mintzberg – non viene detto, dal cliente, come guidare e quali strade percorrere. Essi sono solo informati sulla destinazione che il cliente deve raggiungere (l’obiettivo)”[10]. Lo smart worker sa che deve realizzare gli obiettivi pianificati dal capitalista , altrimenti è licenziato. La prospettiva della disoccupazione è, cioè, il più potente inibitore (disincentivo) del comportamento del lavoratore che non realizza gli obiettivi pianificati e che gli sono assegnati dal datore di lavoro.
Se questa è la realtà, allora è evidente che lo smart worker non è un “imprenditore di sé stesso”, ma un lavoratore “alle dipendenze”, sfruttato dal suo datore di lavoro, come ogni altro lavoratore salariato alle dipendenze. E’, in definitiva, questo “terrore” della disoccupazione e non il bisogno di autorganizzazione il motivo che sta alla base di un probabile sviluppo futuro dello smart work, finalizzato al plusvalore.
Osserva Marx che nel cosiddetto lavoro a domicilio lo sfruttamento (plusvalore) diventa più spudorato perché, in primo luogo, la capacità di resistenza degli operai diminuisce quando sono dispersi [7]. Lo smart working, come il lavoro a domicilio, è, cioè, un potente strumento che il capitalista impiega contro i lavoratori per dividerli e comandarli (divide et impera) e, quindi, per sfruttarli.
È anche evidente che il migliore antidoto contro la finalizzazione capitalistica dello smart working, è, ancora, la lotta unitaria della classe dei lavoratori salariati per la riduzione della giornata lavorativa.
Note:
[1] Filosa, Carla (2020) “Lavoro fluidificabile”, La Città Futura, 06/10/2020.
[2] Filosa, Carla (2016) ““Smart Working”: sfruttamento illimitato della costrizione al lavoro”, La Città Futura, 06/02/2016.
[3] Giusti, Federico (2021), “Lo smart working abbatte i costi e i diritti dei lavoratori”, La Città Futura, 15/01/2021.
[4] Bernardeschi, Ascanio (2021), “Dal lavoro a cottimo allo Smart Working” La Città Futura, 01/01/2021.
[5] Manley, M. (2020). “Lettera dell’AD di Fiat Chrysler Automobiles ai dipendenti”, riportata in: “Smart working”: lavoro agile? Chiamatelo lavoro a domicilio”, Il Pungolo Rosso, 5 giugno.
[6] Marx, K. (1993), Storia dell’economia politica, Teorie sul plusvalore, II, Editori Riuniti, Roma. p.548
[7] Marx, K.(1973), Il Capitale, Libro Primo, Editori Riuniti, Roma.
[8] Pala, G.,(1999), Il Salario Sociale, La Città del Sole, Napoli
[9] Sironi, F., Grassani A.,(2014) “Noi nuovi proletari digitali” l’Espresso, 19 giugno.
[10] Mintzberg,(1985), La progettazione dell’organizzazione aziendale, Il Mulino, Bologna.