Karl Marx (1818–83) fu un tenace studioso dei maggiori economisti che lo avevano preceduto e di alcuni suoi contemporanei. In particolare riconobbe ampiamente il suo debito verso Quesnay, Smith e Ricardo che tese a distinguere dagli economisti “volgari” il cui scopo prevalente era l’apologia del capitalismo. Tuttavia, pur riconoscendo alcuni meriti scientifici di questi tre grandi economisti, elaborò nei loro confronti una critica radicale per fornire alla classe lavoratrice strumenti teorici idonei a superare il modo di produzione capitalistico.
Da giovane si occupò di filosofia antica all’Università di Berlino e di tale argomento trattò anche nella sua tesi di laurea, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro. È significativo che del pensiero del secondo sottolineasse la sua idoneità a un uso pratico di critica dell’idealismo. Lo stretto rapporto fra teoria e prassi fu un punto cardine del lascito marxiano ben espresso nella nota tesi 11 su Feuerbach: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo ma si tratta di trasformarlo”[1].
All’Università di Berlino erano dominanti allora le idee di Hegel. E Marx iniziò la sua attività teorica fra i “giovani hegeliani”, distaccandosene solo in epoca successiva. Di Hegel apprezzò e utilizzò la dialettica attraverso la quale vengono presi in esame il carattere contraddittorio dei processi reali e i mutamenti che queste contraddizioni determinano. Già i filosofi antichi utilizzarono la dialettica come dialogo della ragione con se stessa o fra persone che rappresentano diversi punti di vista. Ma nella dialettica hegeliana il pensiero logico non è limitato al solo processo discorsivo, ma si applica anche alla realtà sensibile. La distinzione tra realtà e pensiero come nella vecchia logica, afferma Hegel, era cara all’intelletto astratto, ma non più sostenibile da un punto di vista razionale, Invece la contraddittorietà costituisce una proprietà essenziale di ogni determinazione, sia dell’essere sia del pensiero.
Marx considerò la dialettica come uno strumento poderoso in quanto metodo più appropriato per esaminare sia la contraddittorietà della realtà, sia il suo movimento incessante. Infatti nel loro interagire i caratteri opposti rendono la realtà in equilibrio instabile, in continuo movimento e si superano in una nuova e più ricca sintesi che presenta nuove opposizioni dando luogo a un processo a spirale in base al quale le contraddizioni si risolvono in nuovi stadi evolutivi. Siamo perciò do fronte alla logica della trasformazione contro le visioni conservatrici di una realtà immobile. Marx ritiene in aggiunta che la realtà empirica debba essere assunta nel pensiero non in modo acritico e senza mediazioni, bensì analizzando “la realtà come processo storico” al fine di coglierne le contraddizioni “materiali” in movimento al suo interno.
Applicato questo metodo alla storia si può vedere che ogni sua fase ha prodotto tensioni al suo interno, il cui risultato è stato il passaggio a una nuova, più alta, fase della società. Come il feudalesimo lasciò il posto al capitalismo, quest’ultimo a sua volta avrebbe lasciato il posto a uno stadio più evoluto della società umana.
Essendogli stata chiusa la porta della docenza universitaria, nei primi anni Quaranta dell’Ottocento lavorò come giornalista occupandosi anche di questioni economiche, come il libero scambio e la legislazione sul furto del legno, in cui spezzò una lancia in favore del diritto dei proletari di impossessarsi del legname dei boschi.
Vagando per l’Europa in quanto perseguitato politico, incontrò a Parigi, nel 1844, Friedrich Engels, un industriale del cotone, e fra i due sorse una profonda amicizia e una stretta collaborazione. Fu proprio Engels a sollecitarlo a occuparsi di economia politica.
Dopo la stesura dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, scrisse, insieme a Engels fra il 1845 e il 1846, un manoscritto, non pubblicato e lasciato volentieri “alla critica rodente dei topi” che tuttavia costituisce un passaggio essenziale dell’elaborazione teorica dei due e che sarà pubblicato, come L’ideologia tedesca, solo nel 1932. In tale scritto si ha la rottura definitiva con la sinistra hegeliana e la prima elaborazione del materialismo storico.
Nella sua visione più matura la radice di ogni problema consisterà nell’organizzazione della produzione e nei rapporti a essa connessi. Per Marx e il suo amico Engels, tenace compagno di lotta, già in gioventù è consolidato il pensiero sul proletariato, la classe che deve emancipare se stessa e l’umanità, ma non sono ancora perfezionate la teoria e la definizione scientifica di proletariato che (come vedremo) può scaturire solo da quella di forza-lavoro come merce produttrice di plusvalore. Il fine di questa teoria non è meramente conoscitivo, bensì finalizzato alla trasformazione dello “stato di cose presenti”. Marx ed Engels vedono nell’azione rivoluzionaria del proletariato il legame inscindibile fra teoria e prassi, che rappresentano i due aspetti dell’unica emancipazione. Una teoria diviene “pratica”, dice Marx, quando afferra la radice dei problemi e “s’impadronisce delle masse”.
Il materialismo storico si differenzia dal materialismo settecentesco proprio perché, a differenza di quest’ultimo, considera la realtà come esposta al movimento e alla trasformazione da parte dell’uomo, soprattutto attraverso il processo lavorativo, all’interno del quale l’attività umana, come vedremo analizzando Il Capitale, si “oggettivizza”, diviene “lavoro morto”, cristallizzato nel prodotto, così come specularmente l’oggettività si presenta come risultato dell’azione dei soggetti.
Il punto di vista del materialismo storico è sintetizzato efficacemente da Marx ed Engels in un passo dell’Ideologia tedesca:
“La morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica e le forme di coscienza che a esse corrispondono [non sono entità autonome...] ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza”[2].
Nel 1848 ebbe luce, sempre a due mani, il Manifesto del Partito Comunista che, oltre a dare alcune indicazioni pratiche di obiettivi da perseguire, sintetizzò la filosofia politica dei nascente movimento comunista: la storia come storia di lotte di classi, il ruolo inizialmente progressivo del capitalismo che ha sviluppato e rivoluzionato le forze produttive fino al punto di divenire un involucro di ostacolo al loro ulteriore sviluppo (“lo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate”[3]), la progressiva scissione della società in due classi fondamentali e avverse fra di loro, il ruolo rivoluzionario dei comunisti per la formazione del proletariato in classe e il rovesciamento del dominio borghese.
Le ricorrenti persecuzioni lo portarono esule a Londra, dove si immerse nella biblioteca del British Museum a divorare la letteratura di molti economisti, traendone una rilevantissima mole di appunti, i cosiddetti Manoscritti di Londra.
Da qui sorse il progetto di una trattazione scientifica maggiormente sistematica della critica dell’economia politica. Tale progetto, assai ambizioso, in sei libri, di cui Il Capitale doveva costituire il primo, non fu portato a termine, ma ci sono rimasti in dote numerosissimi manoscritti, abbozzi ecc. oltre al primo libro del Capitale, l’unico da lui pubblicato. Dei libri che avrebbero dovuto trattare la rendita fondiaria, il salario, il commercio internazionale, il mercato mondiale, lo Stato ci ha lasciato solo alcuni spunti inseriti nel Capitale. Abbandonato Il progetto in 6 libri si concentrò in questa sua principale opera, che a sua volta avrebbe dovuto suddividersi in 4 libri. Tuttavia riuscì a pubblicare solo il primo libro che tratta il capitale in generale o, come recita il sottotitolo, “Il processo di produzione del capitale” di cui esistono diverse edizioni in più lingue da lui stesso curate, nessuna delle quali lo soddisfece pienamente. Del secondo libro, “Il processo di circolazione del capitale”, esistono stesure non definitive, alcune delle quali redatte in epoca più o meno contemporanea alla stesura definitiva del primo libro, e quindi abbastanza mature nello sviluppo della ricerca. Del terzo libro invece, “Il processo complessivo della produzione capitalistica”, i manoscritti esistenti, che risalgono a diversi anni prima, sono assai meno elaborati e maturi. Alcuni sono solo grossolanamente abbozzati e incompiuti. Engels curò la pubblicazione postuma di questi elaborati e, specialmente per quanto riguarda il terzo libro, dovette metterci del suo, integrando talvolta ai testi o decidendo la ripartizione in sezioni e capitoli. Altri manoscritti preparatori, i famosi Grundrisse, sono stati pubblicati negli anni Sessanta del Novecento. Per quanto riguarda il quarto libro, che avrebbe dovuto trattare la storia delle teorie economiche, Kautsky a sua volta pubblicò alcuni manoscritti assai incompiuti, le Teorie sul plusvalore, in tre volumi, titolandoli Storia delle teorie economiche, come se si trattasse veramente di un abbozzo del quarto libro e non una serie di appunti, in cui le citazioni abbondano, preliminari probabilmente alla vera e propria stesura del quarto libro.
Il primo lavoro che pubblicò in materia fu una breve introduzione all’argomento, Per la critica dell’economia politica, risalente al 1859 sintetizzata poi nella parte iniziale del primo libro del Capitale.
Nella prefazione a Per la critica Marx torna ancora sul rapporto fra la base materiale della produzione, la sua struttura economica, e la sovrastruttura che ne è condizionata, costituita da elementi di varia natura: giuridici, ideologici, culturali ecc. Un rapporto di dipendenza che molti hanno criticato come troppo meccanico, identificando il pensiero di Marx con alcune letture dogmatiche di tale teoria. Per comprendere il suo pensiero in merito è utile ricorrere a un altro inedito, l’introduzione ai Grundrisse [4], che tratta in maniera sistematica il metodo dell’economia politica. L’autore non volle pubblicarlo perché anticipava una serie di risultati che dovevano essere esposti nel Capitale.
In questo manoscritto si parla di “dialettica dei concetti di forza produttiva (mezzo di produzione) e rapporto di produzione, di cui vanno definiti i limiti” di “ineguale rapporto dello sviluppo della produzione materiale con lo sviluppo, per esempio artistico”: i rapporti di produzione hanno uno sviluppo ineguale, quindi non predeterminabile a priori, nel loro risolversi in “rapporti giuridici”. E in questa indeterminatezza rientra anche il caso, l’influenza dei mezzi di comunicazione ecc. Parlando dell’arte, e in particolare di quella greca, rileva che “i periodi di fioritura non stanno in rapporto con lo sviluppo generale della società”. Se certe manifestazioni artistiche, per esempio l’epica, sono possibili solo in certi stadi della società e sono incompatibili “con le filatrici automatiche, le locomotrici e il telegrafo” o Giove è incompatibile con il parafulmine, meno direttamente collegabile al grado di sviluppo sociale è la differenza fra la mitologia greca e quella egiziana. E comunque l’arte antica produce un godimento anche ai contemporanei.
Venendo al metodo dell’economia politica, Marx vi avvertì che, pur dovendo partire dai dati grezzi, dalla complessità di elementi demografici, economici, sociali ecc., limitarsi a questo avrebbe portato solo a una descrizione caotica dell’esistente. Doveva quindi essere utilizzato nell’analisi il metodo dell’astrazione cercando di pervenire alla cellula elementare della società che egli, a seguito di un processo di astrazione sempre più profondo, aveva individuato nella merce, per poi da essa risalire per gradi, introducendo sempre nuovi elementi, alla complessità dell’esistente. Ma questa volta non come una descrizione caotica bensì come una rappresentazione sistematica, una “totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni”. Vedremo come il metodo dialettico permette di qualificare questa risalita.
Riguardo al rapporto tra natura e storia nella produzione, si legge nell’Introduzione che la produzione in generale, prescindendo dalle specificità storiche e sociali, è il mezzo con cui l’uomo si appropria delle condizioni della natura, opera il ricambio organico tra sé e la natura. Ma ogni modo di produzione ha realizzato questo ricambio in forme diverse e, in particolare, il modo di produzione capitalistico, lo fa in forma di appropriazione privata dei mezzi di produzione da parte di pochi e mediante lo sfruttamento del lavoro salariato prestato dalla classe esclusa dalla disponibilità di tali mezzi. Così pure la distribuzione del prodotto tra le classi sociali, che in altre forme economiche avveniva in base ad altri criteri, per esempio in base a “diritti” considerati innati e alla dipendenza personale dei lavoratori (fossero essi schiavi o servi della gleba), nel sistema capitalistico, in cui esistono la libertà e l’uguaglianza formale di tutti, avviene attraverso il meccanismo impersonale del mercato, mentre i mezzi di produzione assumono la forma di capitale, la cui riproduzione perpetra ed estende le condizioni della sua esistenza, compresa l’esistenza di lavoratori “liberi”, da sfruttare.
Gli uomini hanno sempre prodotto usando i mezzi di produzione a loro disposizione, rudimentali quanto si voglia; un lavoro passato contenuto in questi mezzi o anche solo nella capacità lavorativa accumulata. Dal momento che nella nostra società questi mezzi e questo lavoro passato assumono la forma di capitale, per gli economisti borghesi il capitale diventa automaticamente una forma sempre esistita, necessaria, naturale e pertanto eterna. Ma una cosa è considerare i mezzi di produzione e il lavoro passato, in generale, altra e diversa cosa è invece considerarli nella loro forma capitalistica, che è specifica solo di questo modo di produzione. È forse superfluo osservare che il rifiuto del carattere “naturale” del capitalismo è indispensabile per prospettarne il superamento. Altrettanto si potrebbe dire per le forme che contraddistinguono la distribuzione e la circolazione dei prodotti, forme che sono differenziate nelle diverse epoche storiche.
È di estrema importanza, anche per la comprensione della crisi, che Marx abbia individuato i forti nessi tra produzione, distribuzione, circolazione e consumo, elementi distinti ma non separabili. È quindi errato vederne solo l’unità o solo la differenza. Intanto la produzione “è immediatamente anche consumo”, consumo di materie prime, di strumenti di produzione e di “forze vitali”. Gli economisti borghesi dell’epoca riconoscevano l’esistenza di questo “consumo produttivo”, ma consideravano il consumo vero e proprio, quello finale, solo come “antitesi distruttiva” della produzione, distruzione dei beni prodotti. Per Marx invece il consumo è anche “immediatamente” produzione, sotto molteplici aspetti; per esempio il consumo che serve all’uomo a riprodurre il proprio corpo, la sua forza lavoro. Così come la produzione è anche consumo: consumo di mezzi di produzione, consumo di capacità lavorativa. La produzione media il consumo creando l’oggetto da consumare. Senza la produzione non ci sarebbe consumo. Ma a sua volta il consumo media la produzione perché il prodotto raggiunge il suo scopo solo con il consumo: “una ferrovia sulla quale non si viaggia che quindi non viene consumata, è soltanto una ferrovia in potenza, non lo è nella realtà... un vestito diviene realmente tale soltanto attraverso l’atto di indossarlo”. Inoltre il consumo “crea il bisogno di una nuova produzione”, riproduce il bisogno senza il quale non vi sarebbe produzione. D'altra parte la produzione agisce sul consumo, “crea” il consumatore, i suoi bisogni soggettivi, li sviluppa, produce oggetti con caratteristiche nuove che modificano le abitudini di consumo. Nelle opere successive Marx affermerà che una causa importante delle crisi è proprio il fatto che produzione e consumo possono non raccordarsi come invece sarebbe necessario, e possono a tratti percorrere strade indipendenti fra di loro. L’unità di produzione, distribuzione, scambio e consumo sono invece una necessità che, se viene violata, deve essere ristabilita violentemente, proprio con la crisi.
Anche la distribuzione dipende dal modo di produzione. Il lavoratore percepisce un salario in quanto è un lavoratore salariato, in quanto non ha né terra né capitale né disponibilità di mezzi per poter lavorare in proprio, né disponibilità di mezzi di sostentamento; un proprietario terriero percepisce una rendita in quanto la terra è sua proprietà privata; un capitalista percepisce un profitto in quanto i mezzi di produzione sono in forma di capitale proprio. Ma a sua volta la distribuzione concentra la ricchezza nelle mani di pochi e riproduce il lavoratore privo di mezzi di produzione e di sussistenza, il cui prodotto è appropriato da altri. Se è vero che senza produzione non vi sarebbe distribuzione, è anche vero che la produzione capitalistica ha i suoi presupposti in questa distribuzione ineguale.
Cosa analoga si potrebbe dire del rapporto tra produzione e scambio, in quanto lo scambio privato dei prodotti presuppone la divisione del lavoro e la produzione privata, mentre il livello degli scambi dipende dal livello della produzione. Ma lo scambio media il rapporto tra produzione e distribuzione, per esempio attraverso la compravendita di forza-lavoro e tra produzione e consumo, attraverso la vendita dei prodotti. Quindi produzione, distribuzione, scambio e consumo, pur non essendo identici, sono articolazioni di una totalità in cui la produzione ha un ruolo predominante, ma non in maniera rigida e senza retroazione degli altri elementi sulla produzione stessa.
Marx è associato da molti agli economisti classici in quanto ha rielaborato le teorie di Smith e Ricardo, tra cui la teoria del valore. Tuttavia questa associazione fa perdere di vista la rottura di Marx con questi economisti. Come abbiamo già sottolineato per gli economisti classici, le leggi della produzione erano leggi della natura. Per Marx, invece, le leggi della produzione erano caratterizzate dai rapporti sociali di produzione e il capitalismo è solo una fase specifica della storia.
Note:
[1] K. Marx, Tesi su Feuerbach, appendice al saggio Engelsiano Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, in Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, 1966, p. 190.
[2] K. Marx, F. Engels, L'ideologia tedesca in Opere scelte, cit. p.240
[3] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, in Opere scelte, cit. p. 297.
[4] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, La Nuova Italia editrice, 1968, pp. 3-40.